Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 maggio 2022, n. 16580

Rapporto di lavoro, Docente, Mobbing, Configurabilità,
Pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, Straining,
Comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti del dipendente,
Risarcimento danni, Responsabilità

 

Rilevato che

 

la Corte d’Appello di Genova, riformando solo
parzialmente la sentenza del Tribunale della stessa città, ha confermato la
reiezione della domanda di risarcimento del danno per comportamenti mobbizzanti
o comunque indebitamente lesivi posti in essere nei confronti di D.S., docente
in servizio presso l’Istituto Comprensivo San Francesco di Paola di Genova ed
ha invece accolto la domanda, già respinta in primo grado, di rimborso delle
spese anticipate dalla lavoratrice per la partecipazione ad un Corso di
formazione in ambito di sicurezza, nonché di rimborso delle spese di trasferta
e dell’equivalente delle giornate di ferie e dei permessi utilizzati dalla
ricorrente per la frequentazione del Corso stesso; la Corte territoriale ha
dato atto che le condotte allegate in cause erano sostanzialmente pacifiche tra
le parti, ma ha ritenuto, da un lato, che il datore di lavoro avesse fornito
punto per punto chiarimenti e ragionevoli motivazioni dei comportamenti tenuti
e dei fatti verificatisi, nel complesso dovendosi escludere che si potesse
ravvisare una strategia persecutoria posta in essere nei riguardi della
lavoratrice e potendosi ricollegare la sindrome depressiva prospettata dalla
ricorrente ad una sua particolare risposta soggettiva rispetto alle decisioni
organizzative; la sentenza impugnata, con riferimento a quanto la S. aveva
chiesto in pagamento, richiamava, nel rigettare le pretese a titolo di compensi
per le funzioni attribuite, le argomentazioni sfavorevoli alla S. già svolte
dal Tribunale, mentre riconosceva il diritto al rimborso dei costi di
partecipazione al Corso di formazione sulla sicurezza, oltre che
all’equivalente delle ore di permesso e delle ferie utilizzate per partecipare
alla formazione e ciò sul presupposto che la ricorrente fosse stata autorizzata
alla partecipazione a tale Corso, peraltro obbligatoria per lo svolgimento
degli incarichi di sicurezza;

la S. ha proposto ricorso per cassazione con due
motivi, cui il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (di
seguito, MIUR) ha resistito con controricorso, contenente anche ricorso
incidentale; la ricorrente principale ha infine depositato memoria;

 

Considerato che

 

il primo motivo denuncia la violazione e falsa
applicazione di norme di diritto (art. 360 n. 3 c.p.c.) e si articola in una
pluralità di passaggi con cui si afferma:

– la violazione dell’art. 2087 c.c., per essersi
ritenuto che la mera legittimità della condotta, peraltro contestata, fosse
sufficiente ad esimere il datore di lavoro da responsabilità, essendo lo stesso
viceversa tenuto ad attivarsi per evitare il danno ai lavoratori, senza contare
che l’intento lesivo andava ritenuto provato sulla base degli elementi gravi,
precisi e concordanti emersi e del carattere emulativo di talune scelte, finite
per tradursi addirittura in pregiudizi per l’Amministrazione;

– ancora la violazione dell’art. 2087 c.c. per non
essersi valutato che la stessa sequenza causale degli eventi comportava la
responsabilità datoriale anche in assenza di intento vessatorio;

– la violazione concomitante dell’art. 2697 c.c. e
115 c.p.c., perché la prova dei fatti e del danno vi era stata e dunque la
ipotetica giustificatezza delle condotte datoriali non poteva sovvertire gli esiti
del giudizio, traducendosi, l’avere invocato la Corte territoriale una
«particolare risposta soggettiva» rispetto alle decisioni organizzative, quale
causa della lesione della salute manifestatasi, in un mero apprezzamento
sfavorevole, privo di rilievo giuridico;

– la violazione delle stesse norme, per essersi
ritenuto che fosse onere del lavoratore fornire prova della condotta
mobbizzante, in quanto, una volta provato il danno e la nocività dell’ambiente,
era invece il datore a dover dimostrare di avere fatto tutto il possibile per
evitare il pregiudizio;

– la violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., per
essersi ritenuta lecita la scelta del Dirigente di non confermare e non
nominare la ricorrente, se non previa presentazione di scuse da parte sua, negli
incarichi sulla sicurezza, pur essendo l’unico soggetto a tal fine formato;

– la violazione dell’art. 32 d. Igs. 81/2008 per
avere la Corte ritenuto che ragioni fiduciarie potessero consentire di non
attribuire alla ricorrente gli incarichi sulla sicurezza per l’anno 2012/2013,
allorquando soltanto essa risultava formata in tal senso, giungendosi anzi alla
nomina di insegnante che doveva ancora frequentare il Corso, con susseguenti
costi di formazione;

– la violazione dell’art. 40, co. 3, del d. Igs. 165/2001,
in quanto era stata negata alla ricorrente l’attribuzione di quanto in suo
favore stanziato in sede di contrattazione di istituto della funzione di
“organizzazione spazi”, corrispondendole solo euro 1.500,00 dei
2.000,00 stabiliti ed indebitamente attribuendo i restanti 500 euro ad altra
incaricata della medesima funzione, così gravemente contravvenendo agli
obblighi negoziali assunti;

il secondo motivo di ricorso denuncia l’omesso esame
di fatto decisivo (art. 360 n. 5 c.p.c.) ed indica quattrodici circostanze solo
parzialmente disaminate dalla Corte territoriale, il che secondo la ricorrente
aveva avuto un’incidenza decisiva sulla pronuncia finale e sulle valutazioni da
svolgere rispetto ad essa;

i plurimi profili sollecitati dai due motivi possono
essere esaminati congiuntamente, secondo l’ordine logico-giuridico delle
questioni;

deve iniziarsi intanto dalle questioni riguardanti
specifici aspetti di illegittimità nei comportamenti datoriali che sarebbero
stati indebitamente denegati dalla Corte territoriale;

il rifiuto del Dirigente di conferire gli incarichi
di sicurezza alla S. per l’anno 2012/2013 non può in sé dirsi illegittimo e
comunque fonte della lesione di un diritto della stessa;

vanno infatti condivise le affermazioni dei giudici
di merito secondo cui il Dirigente mantiene tratti di ampia discrezionalità
nella scelta eventualmente di non nominare il dipendente scolastico in possesso
dei titoli utili;

l’art. 31 e 32, co. 8 con riferimento specifico agli
istituti scolastici, del d. Igs. 81/2008 prevedono in sostanza che il datore di
lavoro possa esercitare in proprio quelle funzioni eo possa designare
dipendenti muniti del titolo di formazione oppure, in mancanza, ricorrere a
soggetti esterni; secondo la ricorrente, da tale sistema deriverebbe che, se il
Dirigente non opti per l’esercizio in proprio, per scelta o perché non in
possesso dei titoli, la designazione dovrebbe andare al personale munito di
quei titoli e ciò in via necessaria, se ad essere tale sia uno solo dei
dipendenti, come si assume sarebbe stato nel caso di specie;

tuttavia, le cose non stanno e non possono stare in
questi termini, perché è corretto l’assunto in ordine alla portata
sensibilmente fiduciaria dell’incarico, nel senso che il Dirigente, anche in
presenza di personale munito di titoli, resta tenuto ad una valutazione più
ampia, cui non possono essere estranei profili di idoneità relazionale del
designando, sotto pena di una eventuale culpa in eligendo, qualora poi si
verificassero problemi; valutazione che la Corte territoriale, con un non
implausibile e come tale insindacabile apprezzamento di merito, ha ritenuto
essere stata svolta, in senso sfavorevole verso la scelta della ricorrente, per
la «difficoltà» manifestatasi nei rapporti con essa e per le segnalazioni di
«criticità», sempre rispetto ad essa, da parte di rappresentanti di classe e
genitori; a fronte di ciò, in assenza di altre persone munite del titolo, la
scuola avrebbe potuto fare ricorso ad un incarico esterno, sicché resta
evidente che, se anche fosse – lo si dice per mera ipotesi – da ritenere
illegittimo l’incarico viceversa dato ad altra insegnante in via di formazione
specifica, non si può dire che, così operando, stante la legittima valutazione
di perdita dell’elemento fiduciario verso la S., si fosse leso un diritto di
quest’ultima, in quanto insussistente;

vi è poi la questione sul compenso per la funzione
aggiuntiva di «organizzazione spazi»;

sul punto, la ricorrente assume che la
contrattazione di istituto avrebbe riconosciuto in suo favore tale compenso in
misura di euro 2.000,00, mentre poi lo furono date solo euro 1.500,00 ed altri
euro 500,00 furono attribuiti ad altro docente che aveva collaborato nella
medesima attività; la Corte territoriale su tali “altri importi” ha
invece richiamato, condividendola, l’argomentazione del Tribunale, in quanto
l’appello non aveva proposto elementi di difesa diversi da quelli già esposti
nel ricorso introduttivo;

il giudizio, in punto di fatto, fa dunque leva
sull’avvenuto stanziamento di una somma di euro 2.000,00 per quel servizio e
sulla nomina di «titolare» rispetto ad esso della S. (v. ricorso per
cassazione, pag. 21, ultimo periodo), circostanze ritenute in sé vere dai
giudici, ma non tali da comportare una discriminazione, perché la ripartizione
del fondo avvenne poi, nei termini sopra detti, tra i due insegnanti
intervenuti per lo svolgimento del servizio;

analogamente, la difesa dal l’Avvocatura sostiene
che la delibera di stanziamento prevede un responsabile ed una somma attribuita
al progetto, poi da dividersi sulla base della partecipazione di singoli
insegnanti alle attività svolte;

a parte la logicità intrinseca di tali
ricostruzioni, vi è da dire che il motivo non poteva limitarsi a richiamare il
documento contenente la deliberazione di istituto in proposito, ma, per
contrastare le conclusioni dei giudici di merito, avrebbe dovuto argomentare,
se del caso con il richiamo ai debiti canoni ermeneutici (tra le molte, Cass.
24 gennaio 2022, n. 1951; Cass. 15 dicembre 2020, n. 28625), sul tenore dell’originaria
statuizione di istituto, trascrivendone il testo per quanto di ragione, al fine
di far constare che appunto, come sostenuto, essa conteneva l’attribuzione
diretta ed esclusiva alla ricorrente di quei 2.000,00 euro e non uno
stanziamento con nomina di un titolare, in sé non ostativo al fatto che poi le
somme fossero da suddividere – come ritenuto dalla Corte territoriale – con chi
avesse in concreto operato su quel progetto;

tali elementi non sono riportati nel motivo di
ricorso e ciò ne comporta l’inidoneità a sorreggere la corrispondente censure
in sede di legittimità, stanti i presupposti di specificità di cui all’art.
366, co. 1, c.p.c. (Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso
per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma
nel suo complesso esprime, con riferimento in particolare, qui, ai nn. 4 e 6
della stessa disposizione, da cui si desume la necessità che la narrativa e
l’argomentazione siano idonee, riportando anche la trascrizione esplicita dei
passaggi degli atti e documenti su cui le censure si fondano, a manifestare
pregnanza, pertinenza e decisività delle ragioni di critica prospettate, senza
necessità per la S.C. di ricercare autonomamente in tali atti e documenti i
corrispondenti profili ipoteticamente rilevanti (v. ora, sul punto, Cass.,
S.U., 27 dicembre 2019, n. 34469);

infine, vi è da considerare il rivendicato diritto
al rimborso dei costi di partecipazione al Corso di formazione, con il rimborso
delle trasferte e il ristoro per i permessi non concessi;

come si dirà meglio infra, anche tale diritto non
sussiste, se non per quanto riguarda i permessi ed un ristoro che si fissa per
essi in euro 328,84;

sempre in punto di fatto, va quindi disattesa la
censura – di cui al secondo motivo – in ordine all’omesso esame di circostanze
decisive; non può infatti affermarsi in assoluto che la sentenza di appello
abbia trascurato quei fatti, perché essa, nell’escludere una strategia
persecutoria, fa riferimento alle condotte «considerate nel loro insieme», per
poi analizzare in particolare quelle «asseritamente maggiormente lesive»
riguardanti gli incarichi per la sicurezza e ribadendo poi che le valutazioni
riguardavano comunque anche gli «ulteriori episodi denunciati» ;

al di là di ciò, la denuncia di cui all’art. 360 n.
5 c.p.c. è svolta elencando una serie di circostanze, delle quali non è dato
percepire l’effettiva decisività, se non sulla base dello sviluppo di un
ragionamento di merito radicalmente alternativo a quello svolto dalla Corte territoriale
secondo cui dall’insieme dei fatti non restava neppure ingenerato il dubbio di
un intento persecutorio, mentre i comportamenti denunciati avevano trovato
ragionevoli motivazioni nelle difese del Ministero e nell’interrogatorio libero
del dirigente e in definitiva l’accaduto andava ridotto a personali
interpretazioni (negative) dei vari episodi e ad una particolare risposta
soggettiva della ricorrente rispetto alle scelte organizzative da tempo in
tempo assunte ed interferenti con la sua persona;

le circostanze di cui la ricorrente afferma
esplicitamente l’integrale omesso esame sono poi elencate con i numeri 4, 7, 8,
10, 11, 13 e 14; si tratta tuttavia di condotte (richiesta di scuse, richiesta
di indicazione di norme rispetto a domande di permessi, erronee informative
sulla soprannumerarietà, assegnazione di incarichi per elaborazioni poi non
utilizzate; pubblicizzazione di denuncia su irregolarità rilevate dalla
ricorrente nelle elezioni delle rappresentanze sindacali; consegna in classe
delle contestazioni disciplinari) che, pur seguendo la descrizione della
ricorrente contenuta nella prime pagine del ricorso per cassazione, appaiono
suscettibili di diverse valutazioni, non necessariamente in termini di
illiceità e che dunque è la ricorrente a sentire come umiliazioni, pur non
essendo inevitabilmente tali e non essendo state evidentemente intese come tali
dalla Corte di merito;

altre condotte (mancata convocazione a riunioni, ma
anche l’essere emersa in sede di contrattazione di Istituto la questione sui
rimborsi alla ricorrente per il Corso sulla sicurezza) risultano descritte in
modo eccessivamente generico per imporre con la necessaria decisività una
diversa valutazione in ipotesi rilevante ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. ed
altre ancora (questioni sul rimborso dei costi per il Corso di formazione ed
oneri collegati), di cui si dirà in dettaglio di seguito, sono in sé
caratterizzate da complessità giuridiche e fattuali tale da escludere, anche
per la limitata rilevanza economica entro cui esse risultano infine fondate, di
poter muovere in base ad esse decisive argomentazioni tali da sovvertire con
alto grado di probabilità il giudizio globalmente sviluppato dalla Corte
territoriale rispetto all’intenzionalità lesiva delle condotte o ad un indebito
ed ineludibile coefficiente stressogeno ad esse conseguente; nell’insieme dei
fatti in esso richiamati, il motivo non integra in definitiva un idoneo rilievo
ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. ed ha ancora la portata di una
prospettazione di una diversa valutazione di merito dei fatti di causa,
impropria rispetto al giudizio di legittimità (Cass., S.U., 27 dicembre 2019,
n. 34476; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148); tale ragionamento esclude
altresì che abbia pregio il richiamo ad una violazione delle norme sulle
presunzioni, per mancato esercizio del corrispondente potere di deduzione
logica, rientrando oramai tale aspetto nell’ambito della fattispecie di cui
all’art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. 6 luglio 2018, n. 17720), della quale come
detto non ricorrono i presupposti;

neppure ricorrono le violazioni di legge di cui alle
censure proposte dalla ricorrente con il primo motivo;

secondo gli orientamenti maturati presso questa S.C.
si può ritenere che:

– è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra
l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti
pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello
soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21
maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684) e ciò a prescindere
dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta
connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti
astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente
inquadrabile nell’ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione
intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di
lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell’art. 2087 c.c.;

– è configurabile lo straining quando vi siano
comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente,
anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n.
18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844), ma
anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il
mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori
(Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291), anche qui, al di là delle denominazioni,
lungo la falsariga della responsabilità dolosa o anche colposa del datore di
lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva
della salute ancora secondo il paradigma di cui all’art. 2087 c.c.;

– è comunque configurabile la responsabilità
datoriale a fronte di un mero inadempimento — imputabile anche solo per colpa –
che si ponga in nesso causale con un danno alla salute (ad es. applicazione di
plurime sanzioni illegittime: Cass. 20 giugno 2018, n. 16256; comportamenti che
in concreto determinino svilimento professionale: Cass. 20 aprile 2018, n.
9901) e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a
responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 c.c.);

– si resta invece al di fuori della responsabilità
ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente
usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 29 gennaio 2013, n.
3028) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi
consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio
2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972);

nel caso di specie, già si è detto
dell’improponibilità, a fondamento di un assetto stressogeno, dell’unico
inadempimento (quello sui permessi) che si va infine a ravvisare;

quanto al resto, la Corte territoriale non nega che
la ricorrente abbia potuto sviluppare, in ragione anche dell’attività
lavorativa, una sindrome depressiva, ricollegandone tuttavia l’insorgenza ad
una particolare risposta soggettiva rispetto alle decisioni organizzative
assunte dalla dirigenza scolastica e quindi escludendo che si determini il
sorgere di un diritto risarcitorio;

al di là della valutazione etiologica, di tenore più
spiccatamente medico legale e sulla quale si appuntano alcune delle critiche
della parte ricorrente, ciò che va qui valutato è il ricorrere o meno di una
condizione ambientale stressogena giuridicamente rilevante, nel senso di tale
da comportare il sorgere di una responsabilità risarcitoria secondo le fattispecie
racchiuse nella denominazione di straining, nella variante colposa di esso,
come detto riportabile comunque alla fattispecie di cui all’art. 2087 c.c.; la
Corte d’Appello ha in concreto ritenuto che, nel complesso, le condotte
datoriali si caratterizzassero per essere munite di ragionevoli motivazioni e
giustificazione dell’operato;

tale valutazione in sé esclude che, se anche in
concreto l’effetto della convivenza lavorativa sia stato quello dell’insorgere
in capo alla S. di una sindrome depressiva, di essa si possa incolpare a titolo
risarcitorio il datore di lavoro;

infatti, la ragionevole motivazione e
giustificazione significa che, quali che siano le reazioni soggettive dei
singoli coinvolti dall’ambiente, quanto fatto corrisponde a connotati inscindibilmente
non impropri di quella prestazione e contesto lavorativo;

questa S.C. ha infatti già ritenuto che le
condizioni ordinariamente usuranti dal punto di vista psichico (Cass. 3028/2013
cit. e, prima Cass. 21 ottobre 199, n. 10361), per effetto della ricorrenza di
contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico, per quanto possano
eventualmente costituire fondamento per la tutela assicurativa pubblica (d.p.r.
1124/1965 e d. Igs. 38/2000, nelle forme della c.d. “costrittività
organizzativa”), non sono in sé ragione di responsabilità datoriale, se
appunto non si ravvisino gli estremi della colpa comunque insiti nel disposto
dell’art. 2087 c.c., che regola anche tale fattispecie;

il riconoscimento di tale ragionevole motivazione e
giustificazione esclude dunque ogni responsabilità risarcitoria perché integra
di per sé il fatto che il datore di lavoro abbia tenuto un comportamento
consono al contesto, sicché per escludere il danno dovrebbe in realtà impedirsi
l’attività, il che non può essere perché il servizio scolastico è ineludibile e
comporta necessariamente quei contatti umani e quanto ne può ordinariamente
conseguire;

la positiva valutazione della Corte territoriale
rispetto all’appropriatezza dei comportamenti, pur se tali da comportare legittime
condizioni di divergenza in particolare con la S., rende superfluo qualsiasi
ragionamento in ordine all’onere della prova, nel senso che, una volta
dimostrata l’ordinarietà del conflitto e della situazione organizzativa ed
interpersonale rispetto alla tipologia di ambiente e l’assenza di elementi di
esorbitanza da tale normale assetto calibrato sulla tipologia del singolo
lavoro, va da sé l’esonero del datore da responsabilità per il danno psichico
che, in via di fatto, comunque emerga;

il ricorso principale va dunque rigettato;

il ricorso incidentale si articola su due motivi, di
cui il primo dedicato alla violazione eo falsa applicazione dell’art. 64 CCNL
di comparto, degli art. 36 e 37 d. Igs. 81/2008, degli artt. 32-34 del Decreto
Interministeriale 44/2001 e dell’art. 2 d. Igs. 163/2006 (Codice dei Contratti
Pubblici), applicabile ratione temporis (art. 360 n. 3 c.p.c.) e con esso si
assume che l’ipotesi della S. non rientra nel disposto dell’art. 64 del
predetto CCNL in quanto quest’ultima riguarda i Corsi, a partecipazione
gratuita e con rimborso delle spese di viaggio, organizzati dalla P.A. o dalle
istituzioni scolastiche, mentre quello seguito nel caso di specie non era tale
ed era Corso a pagamento;

l’eventuale avvio dei docenti ad un corso svolto
all’esterno della P.A. come forma di corso lato sensu organizzato
dall’istituzione scolastica, secondo il Ministero, avrebbe dovuto vedere
coinvolto il Dirigente Scolastico, nella sua capacità negoziale, quale
contraente secondo le regole proprie della gestione amministrativo-contabile
delle istituzioni scolastiche;

la scelta del Corso da parte della stessa docente,
in tale quadro, sempre secondo il Ministero costituiva violazione della
disciplina di cui sopra, oltre che dei principi propri dei contratti pubblici,
quali delineati ratione temporìs, dal d. Igs. 163/2006;

con un secondo motivo il Ministero nega che vi fosse
stata l’autorizzazione del Dirigente Scolastico allo svolgimento di quel Corso,
affermando che egli si era limitato ad apporre un visto, senza alcuna aggiunta,
alla richiesta di permessi retribuiti da parte della ricorrente ed al proposito
il motivo adduce il vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c.,
per non avere la Corte territoriale considerato il documento del 21.10.2011, di
pochi giorni precedente, in cui il medesimo Dirigente, a fronte della richiesta
di permessi per la frequenza a quel Corso in data 19.10.2011, aveva chiesto a
quali norme della contrattazione collettiva quella richiesta facesse
riferimento e rilevava come la frequenza a quel Corso fosse stata ritenuta –
dalla docente – autorizzata prima ancora di una risposta da parte del
Dirigente;

i due motivi vanno analizzati congiuntamente, stante
la loro connessione;

il fatto che dal doc. 5, destinato alla richiesta di
permessi per il diritto allo studio, derivasse l’autorizzazione alla docente a
frequentare quel Corso di formazione non è in sé efficacemente attinto dai
motivi di ricorso, sia perché il primo di essi è di mero diritto, sia perché il
secondo adduce una diversa interpretazione del significato da attribuire a quel
documento la cui censura, trattandosi in sostanza di un atto amministrativo,
avrebbe semmai dovuto essere veicolata nelle forme della violazione di legge
(art. 360 n. 3 c.p.c.) attraverso il richiamo ai canoni ermeneutici violati e
non certo richiamando l’art. 360 n. 5 c.p.c., senza contare che il documento
contiene la scritta “si autorizza” e non solo un “visto”;

resta viceversa aperta la questione in ordine al
fatto che, effettivamente, dalla autorizzazione alla partecipazione a quel
Corso derivasse quanto assume la Corte territoriale, ovverosia un obbligo di
rimborso dei costi di esso, di quelli per le trasferte e il diritto della
ricorrente a fruire di permessi retribuiti;

senza dubbio da quella autorizzazione deriva il
diritto alla fruizione dei permessi, in quanto dall’art. 64, co. 5, del
C.C.N.L. di comparto del 29.11.2007 si evince che il beneficio non dipende dal
fatto che si tratti di corsi organizzati dalla P.A., in quanto anzi, in tal
ultimo caso, non vi sarebbe proprio a parlare di permessi, ma di imputazione
delle ore di formazione ad ore di lavoro (art. 64, co. 3 del medesimo
C.C.N.L.); il numero delle ore non appare poi incompatibile con la previsione
contrattuale né il Ministero adduce ragioni per cui quei permessi
effettivamente non spettassero;

viceversa, l’avere direttamente fatto discendere,
dalla mera autorizzazione a partecipare a quel Corso, il diritto al rimborso
dei costi di quelle sessioni formative svolte da un soggetto non incaricato
dalla P.A., oltre che dei costi di trasferta non è invece, in sé, corretto;

in linea di principio, il diritto all’esenzione dai
costi, anche quale delineato dall’art. 64, co. 3 cit. discende dal fatto,
fisiologico, dell’organizzazione dei corsi, interni o esterni, ad opera dello
stesso datore di lavoro, secondo quanto previsto e regolato in materia di
sicurezza dall’art. 32 del d. Igs. 81/2008, non potendosi certamente avallare
un diritto in tal senso in conseguenza di decisioni del solo lavoratore;

la contrattazione del corso e dei suoi costi deve
poi provenire dalla P.A. e non dal dipendente, secondo le regole di cui,
ratione temporìs, al D.M. 44/2001 e più in generale alla disciplina sui
contratti pubblici richiamate dal Ministero e da ciò seguirebbe il radicarsi
degli oneri direttamente in capo al datore di lavoro ed il diritto del
lavoratore al rimborso delle spese di trasferta;

l’autorizzazione alla fruizione di permessi per il
diritto allo studio e a partecipare con essi ad un certo corso non può dunque
surrogare la necessaria iniziativa negoziale della P.A.;

né si può sostenere, come si afferma nel richiamare
i fondamenti dell’azione sul punto (ricorso per cassazione, pag. 3, punto 4),
che vi fosse stato un impegno al rimborso da parte del Dirigente – ammesso e
non concesso che ciò potesse avere una qualche valenza giuridicamente idonea –
o, come sostenuto nella memoria finale, che l’autorizzazione potesse valere
come una sorta di ratifica dell’operato negoziale della dipendente (svolto in
proprio, come emerge anche dalla fattura), perché di ciò nel documento non vi è
traccia e dal contesto di causa (v. il documento 21.10.2011 menzionato dal
Ministero) emerge semmai un atteggiamento del Dirigente viceversa ostativo, pur
dopo la trasmissione (in data 14.10.2011, doc. 6 della ricorrente) dei
documenti riguardanti quel Corso;

tutto ciò comporta, con l’accoglimento del primo
motivo del ricorso incidentale, la cassazione in parte qua della sentenza di
appello, con possibilità di pronunciare nel merito il rigetto della pretesa al
rimborso dei costi di quel Corso e dei costi di trasferta;

il motivo non ne fa cenno e comunque non vi è invece
ragione, secondo quanto si è già detto, per disconoscere il diritto a quanto
attribuito dalla Corte territoriale per il ristoro conseguente all’indebito
diniego dei permessi retribuiti, viceversa spettanti ed autorizzati nei termini
di cui sopra; la cassazione non raggiunge quindi la condanna del Ministero al
pagamento in favore della S. dell’importo di euro 328,84, oltre accessori, in
sé ricostruibile dal contesto della motivazione della sentenza impugnata e che
resta come tale confermata;

l’accoglimento, in misura assai parziale e
soprattutto di una sola delle pretese azionate, individuando una soccombenza
reciproca, giustifica la compensazione delle spese di tutti i gradi;

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso
incidentale nei sensi di cui in motivazione, cassa in parte qua la sentenza
impugnata e, decidendo nel merito, respinge anche la domanda di rimborso dei
costi per la partecipazione al Corso e di rimborso delle trasferte, compensando
le spese di tutti i gradi di giudizio.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1-quater d.p.r. 115/2002,
dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da
parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del co.
1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 maggio 2022, n. 16580
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