La concessione di uno sconto ai propri dipendenti non è imponibile ai fini IRPEF, allorquando il dipendente corrisponda all’azienda un importo pari al valore normale dei beni al netto degli sconti d’uso.
Nota a AdE Risposta 25 marzo 2022, n. 158
Francesco Palladino
L’Agenzia delle entrate, con la risposta in epigrafe, ha ritenuto non rilevante ai fini IRPEF lo sconto riconosciuto da una società ai propri dipendenti se questi ultimi pagano un prezzo pari al valore normale dei beni prodotti dalla società medesima al netto degli sconti d’uso.
A interpellare l’Agenzia delle entrate è stata una società che si occupa del commercio all’ingrosso di generi alimentari (e non), che ha introdotto, a favore dei propri dipendenti, la possibilità di acquistare, utilizzando il badge aziendale come mezzo di riconoscimento, i prodotti commercializzati con uno sconto pari al 5% del prezzo di vendita. La società istante rappresentava all’Ufficio che tale sconto sarebbe stato sempre superiore al costo sostenuto dalla società per l’acquisto dei prodotti. Inoltre, lo sconto applicato al resto della clientela sarebbe stato mediamente più elevato dello sconto concesso ai dipendenti.
Ciò esposto, la società, in qualità di sostituto di imposta, chiedeva se la concessione di tali sconti rappresentasse per gli stessi, un compenso in natura imponibile soggetto alla ritenuta in acconto IRPEF (art. 23, d.P.R. n. 600/1973).
L’Agenzia delle entrate, nella risposta in commento, prende le mosse dall’art. 51, co. 1, TUIR, che, in tema di tassazione del reddito da lavoro dipendente, sancisce, quale principio base, l’onnicomprensività di tale reddito, ovverosia l’assoggettamento a tassazione, in generale, di tutto ciò che il lavoratore dipendente percepisce in relazione al rapporto di lavoro.
Di conseguenza, sia gli emolumenti in denaro, sia i valori corrispondenti ai beni, ai servizi ed alle opere offerti dal datore di lavoro ai propri dipendenti costituiscono, in linea di principio, redditi imponibili e, in quanto tali, concorrono alla determinazione del reddito di lavoro dipendente.
La norma richiamata prevede che, ai fini della determinazione in denaro dei beni e servizi ricevuti dal dipendente, si applichino le disposizioni relative alla determinazione del valore normale contenute nell’art. 9. In particolare, il citato art. 9, al co. 3, prevede che, per la determinazione del valore normale, si debba fare riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso.
In tema di sconti d’uso, in particolare, l’Agenzia delle entrate (cfr. Ris. n. 26/2010) ricorda di aver già precisato che, per i beni e servizi offerti dal datore di lavoro ai dipendenti, il loro valore normale di riferimento può essere costituito dal prezzo scontato che il fornitore pratica sulla base di apposite convenzioni ricorrenti nella prassi commerciale, compresa l’eventuale convenzione stipulata con il datore di lavoro. Quindi, nel caso in cui il datore di lavoro commercializzi e venda ai propri dipendenti beni o servizi ad un prezzo scontato, l’eventuale valore da assoggettare a tassazione sarà pari alla differenza tra il valore normale del bene ricevuto dal dipendente (al netto degli sconti d’uso) e le somme dallo stesso corrisposte per l’acquisto del bene. Dunque, laddove vi sia coincidenza tra “il pagato” ed il valore normale del bene (nettato degli sconti) non emerge alcun reddito imponibile in capo al dipendente.
È stata proprio questa la circostanza che si è verificata nel caso in analisi. Infatti, era previsto che il lavoratore, per l’acquisto dei beni aziendali, corrispondesse all’azienda somme per un importo pari al valore normale del bene (al netto degli sconti d’uso). L’Agenzia delle entrate ha, quindi, ritenuto non imponibile l’importo corrispondente a tali sconti in quanto questi, ai sensi dell’art. 9 TUIR, costituiscono una mera componente del valore normale del bene.