Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 giugno 2022, n. 19503
Rapporto di lavoro, Dipendenti pubblici, Illegittimità della
trattenuta operata dall’Amministrazione, Restituzione
Rilevato che
1. La Corte d’appello di Torino (sentenza n.
301/2016), in accoglimento dell’appello dell’Agenzia delle Entrate e in riforma
della pronuncia di primo grado, ha respinto le domande proposte dai ricorrenti
in primo grado, attuali ricorrenti in cassazione, volte a far dichiarare
l’illegittimità della trattenuta del 2,50% operata dall’Amministrazione
sull’80% delle retribuzioni mensili ed a condannare l’Agenzia datrice di lavoro
alla restituzione delle somme trattenute illegittimamente.
2. La Corte territoriale ha motivato l’accoglimento
dell’impugnazione richiamando integralmente la sentenza n. 41/2006, pronunciata
dalla medesima Corte d’appello in un’altra causa proposta dai dipendenti del
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
3. La sentenza
d’appello n. 41 del 2016 è stata confermata da questa S.C. con l’ordinanza
n. 4540 del 2022, che, a sua volta, richiama i precedenti di legittimità Cass. n. 23115 del 2019; Cass. n. 25171 del 2019;
Cass. n. 25678 del 2019; Cass. n. 27383 del 2019.
4. Avverso la sentenza n. 301/2016 i ricorrenti
elencati in epigrafe hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a due
motivi, ed hanno chiesto che fosse sollevata eccezione di legittimità
costituzionale dell’art. 2, commi
5 e 8, l. n. 335 del 1995, in combinato disposto con gli artt. 2120 cod. civ., 26, comma 19, l. n. 448 del 1998,
1, commi 2 e 4, d. P.C.M.
20.12.1999, per violazione degli artt. 3, 23, 36 e 53 Cost. L’Agenzia delle Entrate ha resistito con
controricorso.
5. I ricorrenti hanno depositato memoria, ai sensi
dell’art. 380 bis.1 cod. proc. civ.
Considerato che
6. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.,
violazione dell’art. 2120 cod. civ. in
combinato disposto con l’art. 2,
comma 5, l. n. 335 del 1995.
7. Con il secondo motivo è denunciata, ai sensi
dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.,
violazione del combinato disposto degli artt. 2120
cod. civ., 2, l. n. 335 del
1995, art. 59, comma 56, l.
n. 449 del 1997, art. 26,
comma 19, l. n. 448 del 1998.
8. I motivi, che possono essere trattati congiuntamente
per ragioni di connessione logica, sono infondati per le ragioni già espresse
da questa S.C. nei citati precedenti e che qui si richiamano, anche ai sensi
dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ.
9. Come osservato in detti precedenti, la
problematica posta con il ricorso è stata esaminata dalla Corte cost. nella
sentenza n. 213 del 2018, che ha ritenuto non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 19, della legge 23 dicembre
1998, n. 448, per violazione degli artt. 3 e 36 Cost., nella parte in cui, nel disciplinare il
passaggio dei lavoratori alle dipendenze delle PP.AA. dal trattamento di fine
servizio al trattamento di fine rapporto, ha demandato a un d.P.C.M. il compito
di definire, ferma restando l’invarianza della retribuzione complessiva netta e
di quella utile ai fini pensionistici, gli adeguamenti della struttura
retributiva e contributiva conseguenti all’applicazione del trattamento di fine
rapporto; la Consulta ha argomentato che il principio dell’invarianza della
retribuzione netta, con i meccanismi perequativi tratteggiati in sede
negoziale, mira proprio a garantire la parità di trattamento, nell’ambito di un
disegno graduale di armonizzazione, e non contrasta, pertanto, con il principio
di eguaglianza, né determina la violazione del diritto a una retribuzione
sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato,
in ragione del trattamento complessivo previsto e non già della ponderazione di
una sua singola componente; né possono trarsi argomenti a favore della tesi
delle ricorrenti dalla precedente sentenza della Corte cost. n. 223 del 2012 che ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 12,
comma 10, del d.l. n. 78/2010 nella parte in cui non esclude l’applicazione
a carico del dipendente (pubblico) della rivalsa pari al 2,50% della base
contributiva, prevista dall’art.
37, comma 1, d.P.R. n. 1032/1973; tra la fattispecie posta all’attenzione
del Giudice delle leggi nella decisione del 2012 e quella qui esaminata
esistono nette differenze, sia con riferimento ai presupposti fattuali, sia in
relazione ai parametri normativi esaminati; la prima riguarda la posizione di
dipendenti in regime di t.f.s., regolamentata dall’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78/2010,
disposizione (successivamente abrogata, a decorrere dal 1° gennaio 2011, dall’art. 1, comma 98, della I. n.
228/2012) che determina, dal gennaio 2011, l’applicazione dell’aliquota del
6,91% sull’intera retribuzione, senza escludere nel contempo la vigenza della
trattenuta del 2,50% a carico del dipendente, in tal modo determinando una
disparità di trattamento rispetto a quello applicato ai privati non sottoposti
a rivalsa da parte del datore di lavoro; in questa sede, invece, ci si
riferisce a dipendenti pubblici assoggettati al regime del t.f.r. fin
dall’assunzione a tempo indeterminato, per i quali è venuta meno la rivalsa del
2,50%, posto che l’aliquota contributiva del 9,60% è stata posta a carico
esclusivo del datore di lavoro, con la conseguenza che la trattenuta del 2,50%
(effettuata tramite una riduzione della retribuzione lorda pari al contributo
previdenziale obbligatorio soppresso) trae origine dal combinato disposto degli
artt. 2, commi 5, 6, 7 I. n.
335/1995 e 26, comma 19, I.
n. 448/1998 ulteriormente definiti dalla normativa contrattuale collettiva
e regolamentare sopra citata ed ha proprio la finalità di evitare disparità di
trattamento tra dipendenti (pubblici) in regime rispettivamente di t.f.r. e di
t.f.s.
10. Per le considerazioni svolte il ricorso deve
essere respinto.
11. La regolazione delle spese segue il criterio di
soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
12. Si dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali di cui all’art. 13,
comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24
dicembre 2012 n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti alla
rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 1.200,00
per compensi professionali, in euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese
generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a
norma del comma 1-bis dello stesso art.
13, se dovuto.