Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 04 luglio 2022, n. 25306

Percettore Reddito di cittadinanza, Svolgimento di attività
lavorativa in nero, Omessa comunicazione INPS, Art. 7, L. n. 26/2019,
Condanna

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 10 novembre 2021 la Corte
d’appello di Messina, provvedendo sulla impugnazione proposta da S.R. nei
confronti della sentenza del 16 marzo 2021 del Tribunale di Messina, con la
quale lo stesso R., a seguito di giudizio abbreviato, era stato condannato alla
pena di un anno e otto mesi di reclusione in relazione al reato di cui all’art.
7, comma 2, I. 28 marzo 2019 n. 26 (per avere, quale percettore di reddito di
cittadinanza, omesso di comunicare l’avvenuta assunzione o, comunque, lo
svolgimento di attività lavorativa, presso la ditta individuale C.C.C.), ha
ridotto la pena inflitta all’imputato a un anno, un mese e dieci giorni di
reclusione, confermando nel resto la sentenza impugnata.

2. Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto
ricorso per cassazione, affidato a un unico motivo, mediante il quale ha
denunciato l’errata applicazione dell’art. 7 I. n. 26 del 2019 e un vizio della
motivazione, nella parte relativa alla affermazione della sussistenza
dell’elemento intenzionale della condotta, in quanto l’attività lavorativa che
aveva svolto era priva di retribuzione, come dichiarato sia dal datore di
lavoro sia dall’imputato, non essendo neppure stata accertata la corresponsione
di salari al R., che svolgeva detta attività mentre era sottoposto alla
detenzione domiciliare al solo scopo di alleviare le afflizioni derivanti dalla
detenzione, cosicché l’omessa comunicazione contestata non rientrava tra le
condotte punibili contemplate dalla norma incriminatrice, in quanto essa non
avrebbe potuto comportare la revoca del beneficio, con la conseguente
irrilevanza penale della comunicazione e della sua omissione.

3. Il Procuratore Generale ha concluso per
l’inammissibilità del ricorso, sottolineando la correttezza della decisione
delle Corti di merito, in quanto l’imputato avrebbe dovuto comunicare la
variazione occupazionale, anche se il rapporto di lavoro non era regolarizzato,
dovendo ritenersi inverosimili le dichiarazioni del medesimo imputato e del
datore di lavoro, secondo le quali la prestazione di lavoro sarebbe stata
svolta a titolo gratuito.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è manifestamente infondato, sia perché
riproduttivo del primo motivo d’appello, adeguatamente considerato e
motivatamente disatteso dalla Corte d’appello; sia a causa della sua genericità,
essendo privo di analisi della condotta e delle prove disponibili e di
confronto, tantomeno critico, con la motivazione della sentenza impugnata; sia
perché è volto a censurare accertamenti di fatto, in ordine alla
inverosimiglianza dello svolgimento di attività lavorativa non retribuita (da
cui il ricorrente fa discendere la non punibilità della condotta e l’assenza
dell’elemento intenzionale della stessa), che la Corte d’appello, in accordo
con il Tribunale, ha giustificato in modo logico.

La Corte territoriale, nel disattendere il primo
motivo d’appello, sostanzialmente replicato con il ricorso per cassazione, ha,
infatti, ribadito la configurabilità del reato contestato al ricorrente a causa
dell’omessa comunicazione all’Inps dello svolgimento di attività lavorativa
retribuita, seppure irregolare, sottolineando l’inverosimiglianza di quanto
dichiarato dall’imputato e dal datore di lavoro, a proposito della gratuità
dell’attività lavorativa svolta dal primo, che sarebbe stata compensata solo
con regalie saltuarie, e della configurabilità del reato in conseguenza della
omessa comunicazione di una variazione patrimoniale rilevante, sussistente
anche nel caso di conseguimento di somme di denaro per donazione.

Si tratta di motivazione idonea, fondata sulla corretta
applicazione della comune regola di esperienza secondo cui l’attività
lavorativa, anche se irregolare, viene retribuita, oltre che di quanto
riconosciuto dallo stesso datore di lavoro del ricorrente, che, sia pure
qualificandole come “regalie” corrisposte in “occasioni
particolari”, ha riconosciuto la corresponsione di compensi al R. per
l’attività lavorativa svolta nel suo interesse, cosicché le doglianze del
ricorrente finiscono per appuntarsi, in modo non consentito nel giudizio di legittimità,
oltre che generico, su un accertamento di fatto, circa la corresponsione di una
retribuzione (che avrebbe dovuto essere comunicata all’Inps), accertamento che
è stato giustificato in modo logico e concorde dai giudici di merito e non è,
dunque, suscettibile di rivisitazione in questa sede, attraverso una rilettura
delle risultanze istruttore da contrapporre a quella dei giudici di merito, che
è concorde e non manifestamente illogica e non è dunque suscettibile di
rivisitazione, tantomeno sul piano delle valutazioni di merito, compresa quella
relativa alla intenzionalità della condotta omissiva addebitata al ricorrente,
nel giudizio di legittimità.

2. Il ricorso deve, dunque, essere dichiarato
inammissibile, a causa della genericità, del contenuto non consentito e della
manifesta infondatezza del motivo cui è stato affidato.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso
consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento,
nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si
determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro
3.000,00.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila
in favore della Cassa delle Ammende.

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