Lo status di vittima del dovere non può essere riconosciuto all’atleta militare che subisce un infortunio nel corso di una gara alle Olimpiadi.

Nota a Cass. 30 maggio 2022, n. 17435

Sonia Gioia

In materia di benefici erogati in favore dei dipendenti statali, lo status di vittima del dovere non può essere riconosciuto all’atleta militare che, nell’ambito di competizioni internazionali, riporti un danno alla salute in conseguenza di un contatto fisico tra giocatori, correlato esclusivamente all’attività sportiva, se il  rischio a cui è esposto è quello comune ad ogni atleta della disciplina praticata e il comportamento dell’avversario non è riconducibile alla nozione di “azione recata”.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (30 maggio 2022, n. 17435, conforme ad App. Milano n. 1380/2016) in relazione ad una fattispecie concernente un atleta del gruppo sportivo delle Fiamme Gialle, dipendente della Guardia di Finanza, che, infortunatosi nel corso di una gara di judo alle Olimpiadi, dopo aver ottenuto il riconoscimento della causa di servizio, chiedeva, altresì, di essere qualificato come vittima del dovere ai fini delle provvidenze previste per tale casistica.

Al riguardo, per vittime del dovere devono intendersi i magistrati ordinari, gli appartenenti alle Forze Armate e al Comparto Difesa, Sicurezza e Soccorso pubblico, ex art. 3, L. 13 agosto 1980, n. 466 (concernente “Speciali elargizioni a favore di categorie di dipendenti pubblici e di cittadini vittime del dovere o di azioni terroristiche”),  nonché gli altri dipendenti pubblici deceduti o che abbiano subìto un’invalidità permanente in attività di servizio o nell’espletamento delle funzioni di istituto per effetto diretto di lesioni riportate in conseguenza di eventi verificatisi: a) nel contrasto ad ogni tipo di criminalità; b) nello svolgimento di servizi di ordine pubblico; c) nella vigilanza ad infrastrutture civili e militari; d) in operazioni di soccorso; e) in attività di tutela della pubblica incolumità; f) a causa di azioni recate nei loro confronti in contesti di impiego internazionale non aventi, necessariamente, caratteristiche di ostilità (art. 1, co. 563, L. 23 dicembre 2005, n. 266, c.d. Legge finanziaria 2006).

Ai soggetti soprarichiamati sono equiparati coloro che abbiano contratto infermità permanentemente invalidanti o alle quali consegua il decesso, in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura – “quale che ne siano gli scopi, autorizzate dall’autorità gerarchicamente o funzionalmente sopraordinata al dipendente” –  effettuate dentro e fuori dai confini nazionali e che siano riconosciute dipendenti da causa di servizio per “le particolari condizioni ambientali od operative” (art. 1, co. 564, L. n. 266 cit. e art. 1, lett. b), D.P.R. 7 luglio 2006, n. 243, “Regolamento concernente i termini e le modalità di corresponsione delle provvidenze alle vittime del dovere ed ai soggetti equiparati, ai fini della progressiva estensione del benefici già previsti in favore delle vittime della criminalità e del terrorismo”, attuativo dell’art. 1, co. 565, L. n. 266 cit.).

Da tale quadro normativo si ricava che il legislatore è intervenuto, a protezione delle vittime del dovere, con due diverse disposizioni: l’art. 1, co. 563 cit. codifica una serie di attività, ritenute pericolose dalla legge, che possono condurre automaticamente all’attribuzione dei benefici riservati alle vittime del dovere, qualora, nel loro espletamento, siano conseguiti eventi lesivi – non essendo necessaria la presenza di un rischio specifico diverso da quello insito nelle ordinarie funzioni istituzionali – mentre l’art. 1, co. 564 cit. prevede che le medesime provvidenze siano erogate ai pubblici impiegati che siano deceduti o rimasti invalidi nell’espletamento di “attività che pericolose lo (siano) o lo (siano) diventate per circostanze eccezionali” (Cass. S.U. nn. 6214, 6215, 6216/2022; Cass. S.U. n. 8004/2021; Cass. S.U. n. 12862/2020; Cass. S.U. n. 10791/2017).

In particolare, con riguardo a tale ultima fattispecie, è essenziale per il prestatore, che abbia contratto un’infermità in qualunque tipo di missione,  dimostrare che la dipendenza da causa di servizio è legata al concetto, aggiuntivo e specifico,  delle “particolari condizioni ambientali o operative”, nel senso che rilevano “condizioni comunque implicanti l’esistenza o il sopravvenire di circostanze straordinarie e fatti di servizio che hanno esposto il dipendente a maggiori rischi o fatiche in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento  dei compiti di istituto”, non essendo sufficiente la semplice dipendenza da causa di servizio (art. 1, lett. c), D.P.R. n. 243 cit.).

Pertanto, il dipendente pubblico che sia rimasto invalido o sia deceduto nello svolgimento di servizi ordinariamente connotati da una speciale pericolosità o in altre attività che siano diventate rischiose in ragione di particolari condizioni ambientali ha diritto al riconoscimento dello status di vittima del dovere (o di soggetto equiparato) e, conseguentemente,  all’erogazione dei relativi benefici economici ed assistenziali, che si aggiungono a quelli derivanti dal riconoscimento della generica causa di servizio, nonché alla progressiva estensione delle provvidenze già previste per le vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, nei limiti delle risorse disponibili come da vincolo imposto ai sensi dell’art. 1, co. 562 e 565, L. n. 266 cit.

In attuazione di tali principi, la Corte ha confermato la pronuncia di merito che aveva negato all’atleta il riconoscimento della qualità di vittima del dovere, ritenendo che l’infortunio subìto dal militare non poteva essere ricondotto nella fattispecie di cui all’art. 1, co. 563, lett. f) cit., dal momento che nella condotta dello sportivo che rispetti le regole del gioco, nell’ambito di una disciplina a violenza necessaria o indispensabile, e in tale contesto leda l’incolumità dell’avversario, manca il requisito della lesione provocata (cioè, della “azione recata”).

Né potevano ritenersi ravvisabili i presupposti normativi di cui all’art. 1, co. 564 cit., in difetto di “fatti straordinari” che avessero esposto l’atleta a rischi maggiori di quelli ordinari e consentiti.

L’atleta militare che s’infortuna durante una gara olimpica non è vittima del dovere
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