Una normativa nazionale che non riconosca, ai fini dell’anzianità del lavoratore, il servizio prestato in un altro Stato UE costituisce una violazione del diritto alla libera circolazione dei lavoratori nell’Unione, salvo che sussistano ragioni di interesse generale.
Nota a CGUE 28 aprile 2022, C-86/2021
Sonia Gioia
In materia di libera circolazione dei lavoratori nell’Unione, l’art. 45 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e l’art. 7 Regolamento UE 5 aprile 2011, n. 492 (“relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione”) devono essere interpretati nel senso che “ostano a una normativa nazionale relativa al riconoscimento della carriera professionale nell’ambito del servizio sanitario di uno Stato membro che impedisca di prendere in considerazione, ai fini dell’anzianità del lavoratore, l’esperienza professionale acquisita da quest’ultimo presso un servizio sanitario pubblico di un altro Stato membro, a meno che la restrizione alla libera circolazione dei lavoratori che tale normativa implica risponda a un obiettivo di interesse generale, sia idonea a garantire la realizzazione di tale obiettivo e non ecceda quanto necessario per raggiungere quest’ultimo”.
Lo ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, investita della questione dal giudice spagnolo (Corte superiore di giustizia di Castiglia e León), in relazione ad una fattispecie concernente una lavoratrice, con qualifica di infermiera, che lamentava l’illegittimità della normativa regionale che non consentiva di riconoscere, ai fini dello sviluppo della carriera, l’esperienza professionale maturata presso un servizio sanitario pubblico di uno Stato membro diverso da quello spagnolo (ex art. 6, par. 2, lett. c), Decreto 2 luglio 2009, n. 43, concernente la carriera professionale del personale statutario dei centri e delle istituzioni sanitarie del Servizio Sanitario di Castiglia e León).
Nello specifico, l’Amministrazione sanitaria datrice di lavoro aveva respinto la domanda della prestatrice, che chiedeva di partecipare ad un concorso per essere ammessa al primo livello del percorso professionale della categoria di appartenenza, perché dei cinque anni di precedente esperienza lavorativa richiesta, ne aveva svolto una parte presso un ospedale pubblico portoghese.
Ciò, sul presupposto che la diversità di trattamento riservata alla dipendente rispetto ai colleghi che hanno svolto tutta la loro carriera alle dipendenze dei servizi sanitari pubblici spagnoli non costituiva una violazione della libertà di circolazione e della parità di trattamento in quanto risultava giustificata “dall’assenza di armonizzazione, a livello dell’Unione, delle modalità di presa in considerazione dell’esperienza professionale acquisita e dall’assenza di criteri di raffronto tra le norme di qualità, i rispettivi principi e gli obiettivi dei sistemi sanitari”.
Tuttavia, com’è noto, il diritto dell’Unione riconosce a tutti cittadini UE la libertà di svolgere attività di lavoro subordinato nel territorio di qualunque Stato membro (c.d. libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione), con conseguente “abolizione di qualsiasi discriminazione”, diretta o indiretta, “fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro” (art. 45 TFUE e art. 7 Reg. n. 492 cit.).
Pertanto, eventuali misure nazionali che possano “ostacolare o rendere meno attraente” l’esercizio di tale libertà, benché applicabili indipendentemente dalla nazionalità, costituiscono una violazione del diritto comunitario, salvo che “perseguano un obiettivo di interesse generale, che siano idonee a garantire la realizzazione di quest’ultimo e che non eccedano quanto è necessario per raggiungere l’obiettivo perseguito”, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare (CGUE 12 maggio 2021, C-27/20; CGUE 17 dicembre 2020, C-218/19; CGUE 23 aprile 2020, C- 710/18, annotata in q. sito da K. PUNTILLO; CGUE 11 luglio 2019, C-716/17).
Di conseguenza, anche nel settore della sanità pubblica, gli Stati membri – nell’esercizio della propria competenza ad emanare norme destinate a definire la politica sanitaria interna nonché l’organizzazione, la fornitura e la gestione dei servizi sanitari (ex art. 168 TFUE) – devono rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, le disposizioni che vietano di introdurre o mantenere ingiustificate restrizioni all’esercizio del diritto di svolgere attività lavorativa in uno Stato membro diverso da quello di origine.
Nel caso di specie, la normativa regionale – che non prende in considerazione, ai fini dello sviluppo di carriera, tutti i precedenti periodi di attività equivalente maturati al di fuori del sistema spagnolo – “può rendere meno attraente la libera circolazione dei lavoratori”, in violazione dell’art. 45, par. 1 TFUE e art. 7, par. 1, Reg. n. 492 cit., in quanto il prestatore sarà dissuaso dal lasciare il proprio Stato membro di origine per andare a lavorare o stabilirsi in altro Paese UE, se ciò lo priva della possibilità di vedere riconosciuta la sua esperienza professionale maturata in tale altro Stato (CGUE 5 dicembre 2013, C-514/12).
Per la Corte, lo scopo perseguito da tale disciplina, vale a dire “garantire gli obiettivi e l’organizzazione del servizio sanitario nazionale”, può – “in quanto obiettivo di politica della salute pubblica connesso al miglioramento della qualità delle cure nell’ambito del sistema sanitario di cui trattasi e alla realizzazione di un livello elevato di tutela della salute” – essere considerato come una finalità di interesse generale e rientrare, pertanto, tra le deroghe ammesse dall’ordinamento comunitario alla libertà di circolazione.
Ciò, sul presupposto che compete alle autorità nazionali stabilire il livello al quale esse intendono assicurare la protezione della salute pubblica e il modo in cui si prefiggono di raggiungere tale livello che, in ragione del margine di discrezionalità riconosciuto loro in tale settore, può variare da uno Stato membro all’altro (CGUE 20 dicembre 2017, C-419/16, con nota in q. sito di G.I. VIGLIOTTI).
Tuttavia, ad avviso della Corte, il riconoscimento dell’esperienza professionale acquisita in un altro Stato membro non costituisce, in generale, un ostacolo al perseguimento dell’obiettivo di tutela della salute pubblica, sicché al prestatore migrante deve essere assicurata la possibilità di dimostrare l’equivalenza dell’esperienza professionale maturata al di fuori del sistema sanitario spagnolo.
Ciò, considerato che le autorità di un Paese membro – quando ricevono una domanda di autorizzazione all’esercizio di una professione il cui accesso, secondo la legislazione nazionale, è subordinato al possesso di un diploma, di una qualifica professionale o di periodi di esperienza pratica – sono tenute a valutare tali titoli e competenze e a confrontarli con quelli richiesti dalla legislazione nazionale.
Se dall’esame comparativo emerge che tali conoscenze e titoli corrispondono a quelli previsti dalla normativa dello Stato membro ospitante, quest’ultimo è tenuto a riconoscerli mentre, in caso di corrispondenza soltanto parziale, tale Paese ha il diritto di esigere che il lavoratore dimostri di aver maturato le conoscenze e le qualifiche mancanti (CGUE 3 marzo 2022, C-634/20; CGUE 8 luglio 2021, C-166/20; CGUE 6 ottobre 2015, C-298/14).
Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha rigettato le argomentazioni dell’amministrazione sanitaria regionale, stabilendo che alla lavoratrice debba essere consentito di dimostrare di aver maturato in Portogallo un’esperienza lavorativa equivalente a quella spagnola, così come è previsto, in base al diritto nazionale, ai fini dell’ottenimento di scatti triennali di anzianità del personale statutario temporaneo.