Il recesso per superamento del periodo di comporto intimato al lavoratore disabile computando anche le assenze direttamente correlate all’handicap è discriminatorio e, in quanto tale, nullo.
Nota a Trib. Milano (ord.) 2 maggio 2022
Sonia Gioia
In materia di parità di trattamento sul luogo di lavoro, l’applicazione del medesimo periodo di comporto alla generalità dei dipendenti, senza la previsione di accorgimenti a tutela dei lavoratori portatori di handicap, costituisce una discriminazione indiretta basata sulla disabilità, dal momento che tale prassi, seppur apparentemente neutra, penalizza in misura significativamente maggiore i prestatori invalidi che, rispetto ai colleghi “normodotati”, sono statisticamente più esposti al rischio di non essere presenti al lavoro per malattie legate alla disabilità.
Pertanto, le assenze che trovino origine diretta nella patologia causa dell’handicap del lavoratore non sono computabili ai fini dell’integrazione del termine massimo di conservazione del posto di lavoro, sicché il recesso intimato dall’imprenditore per superamento del periodo di comporto, calcolato sommando anche i giorni di malattia legati alla condizione di invalidità, è nullo, ai sensi dell’art. 15, L. 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei Lavoratori), con conseguente applicazione della tutela reale di cui all’art. 18, co. 1-3 Stat. Lav.
Lo ha stabilito il Tribunale di Milano (ord., 2 maggio 2022) in relazione ad una fattispecie concernente la legittimità del licenziamento irrogato ad una dipendente, portatrice di handicap, per superamento del periodo di comporto, nel cui computo la società datrice aveva incluso anche i periodi di assenza riconducibili alla condizione di disabilità (nello specifico, flebolinfodema all’arto inferiore destro).
Al riguardo, il giudice ha osservato che si ha una discriminazione indiretta, vietata ai sensi dell’art. 2 lett. b), Dir. 2000/78/CE (recante disposizioni “Per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro”) e art. 2, co. 1, lett. b) D. Lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (attuativo della citata Direttiva), quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere i soggetti portatori di handicap in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre persone, salvo che tale diversità di trattamento sia giustificata da una finalità legittima e a condizione che i mezzi per il perseguimento di tale obiettivo siano appropriati e necessari.
Ai fini dell’accertamento della discriminatorietà di un atto, non è richiesto che il comportamento datoriale sia intenzionale, poiché la discriminazione “opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro” (Cass. n. 6575/2016).
L’imprenditore, allo scopo di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento sul luogo di impiego, è tenuto ad adottare “soluzioni ragionevoli”, vale a dire “provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato” (art. 5, Dir. cit. e art. 3, D. Lgs. n. 216 cit.).
Da ciò discende che l’applicazione del medesimo periodo di comporto a tutti i lavoratori, sia disabili che “normodotati”, senza la previsione di misure adeguate a tutela dei primi, costituisce una violazione del principio di uguaglianza sostanziale (art. 3, co. 2, Cost.) e dà luogo ad una discriminazione indiretta poiché pone la persona invalida in una posizione di oggettivo svantaggio rispetto agli altri prestatori.
Il dipendente con handicap, infatti, è portatore “di uno specifico fattore di rischio che ha, quale ricaduta più tipica, connaturata alla condizione stessa di disabilità, quella di determinare la necessità per il lavoratore sia di assentarsi più spesso per malattia sia di ricorrere, in via definitiva o per un protratto periodo di tempo, a cure specifiche e/o periodiche”, diversamente da un dipendente non portatore di disabilità che limita le proprie assenze ai casi contingentati di patologie che hanno una durata breve o comunque limitata nel tempo. Ed è per questo ultimo che “il termine di comporto è evidentemente previsto” (Trib. Milano n. 4139/2019; Trib. Milano (ord.) 6 aprile 2018).
Pertanto, per assicurare il rispetto del principio di parità di trattamento dei lavoratori assunti in categoria protetta devono essere computate, ai fini del comporto, solo le assenze per eventi morbosi estranei alla condizione di disabilità, con conseguente espunzione di quelle direttamente collegate a quest’ultima.
In attuazione di tali principi, il giudice ha dichiarato la nullità del licenziamento per contrasto con l’art. 15 Stat. Lav., con conseguente reintegrazione della dipendente e condanna della società datrice al risarcimento del danno, dal momento che le assenze che avevano determinato il superamento del periodo di comporto erano “in larghissima parte” riconducibili alla condizione di invalidità e, in quanto tali, non computabili, a nulla rilevando il fatto che il datore di lavoro avesse avuto conoscenza del particolare stato di salute della dipendente solo in epoca successiva all’irrogazione del provvedimento espulsivo.