Non può attribuirsi rilevanza disciplinare alla condotta del dirigente che si limiti ad ipotizzare la configurabilità di illeciti penali o amministrativi nelle sedi e con le modalità specificamente previste dall’ordinamento.

Nota a Cass. 31 maggio 2022, n. 17689

Gennaro Ilias Vigliotti

Sul tema del diritto di critica del lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro, la giurisprudenza di legittimità ha affermato princìpi ormai consolidati (v. da ultimo Cass. n. 1379 del 2019 con ampi riferimenti ai precedenti). Il diritto di critica trova fondamento nella nostra Costituzione che, all’art. 21, riconosce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Lo Statuto dei lavoratori, art. 1, riafferma “il diritto dei lavoratori, nei luoghi in cui prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero”, e la necessità di contemperare tale libertà col rispetto dei principi della Costituzione e delle norme dello Statuto medesimo.

Nel rapporto di lavoro, l’esercizio del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro deve essere contemperato col dovere di fedeltà posto dall’art. 2105 c.c., a carico dei lavoratori, oltre che con il rispetto dei generali canoni di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto. A partire da Cass. n. 1173 del 1986, la giurisprudenza ha individuato regole volte a contemperare il diritto stabilito dall’art. 21 Cost., con altri diritti concernenti beni di pari rilevanza costituzionale, tra i quali, in particolare, i diritti della personalità all’onore ed alla reputazione, stabilendo che: “Il comportamento del lavoratore, consistente nella divulgazione di fatti ed accuse, ancorché vere, obiettivamente idonee a ledere l’onore o la reputazione del datore di lavoro, esorbita dal legittimo esercizio del diritto di critica, quale espressione del diritto di libera manifestazione del proprio pensiero, e può configurare un fatto illecito, e quindi anche consentire il recesso del datore di lavoro ove l’illecito stesso risulti incompatibile con l’elemento fiduciario necessario per la prosecuzione del rapporto, qualora si traduca in una condotta che sia imputabile al suo autore a titolo di dolo o di colpa, e che non trovi, per modalità ed ambito delle notizie fornite e dei giudizi formulati, adeguata e proporzionale giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi di rilevanza giuridica almeno pari al bene oggetto dell’indicata lesione”.

La giurisprudenza successiva ha specificato i limiti di continenza formale e sostanziale del legittimo esercizio del diritto di critica, legati rispettivamente alla rilevanza costituzionale dei beni che si intende tutelare attraverso la critica e alla veridicità dei fatti e alla correttezza del linguaggio adoperato (v. Cass. n. 21362/2013; n. 29008//2008; n. 23798/2007; n. 11220/ 2004; più recentemente, Cass. n. 5523/2016, in q. sito con nota di F. ALBINIANO; n. 19092/2018, in q. sito con nota di F. ALBINIANO; n. 14527/2018, in q. sito con nota di F. BELMONTE).

Di particolare rilievo è la giurisprudenza formatasi sulla condotta del lavoratore che denunci all’autorità giudiziaria o amministrativa fatti di reato o illeciti amministrativi commessi dal datore di lavoro. Con plurime decisioni (v. Cass. n. 25799/2019; n. 22375/2017; n. 4125/ 2017, in q. sito con nota di A. BREVAL; n. 996/2017, in q. sito con nota di M.N.BETTINI; n. 14249/2015; n. 8077/2014; n. 6501/2013) si è affermato che la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale accaduti in azienda non possa di per sé integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, a condizione che non emerga il carattere calunnioso della denuncia medesima, che richiede la consapevolezza da parte del lavoratore della non veridicità di quanto denunciato e, quindi, la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o dallo stesso non commessi, e purché il lavoratore si sia astenuto da iniziative volte a dare pubblicità a quanto portato a conoscenza delle autorità competenti.

Si è infatti escluso che l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., così come interpretato da questa Corte in correlazione con i canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., possa essere esteso sino a imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all’interno dell’azienda, giacché in tal caso si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti, ma impliciti – riconoscimenti di una sorta di “dovere di omertà” (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento (Cass. n. 4125/2017, cit.; n. 6501/2013, cit.). Ciò sul rilievo che lo Stato di diritto attribuisce valore civico e sociale all’iniziativa del privato che solleciti l’intervento dell’autorità giudiziaria di fronte alla violazione della legge penale, e, sebbene ritenga doverosa detta iniziativa solo nei casi in cui vengono in rilievo delitti di particolare gravità, guarda con favore alla collaborazione prestata dal cittadino, in quanto finalizzata alla realizzazione dell’interesse pubblico alla repressione dei fatti illeciti.

Da tali considerazioni discende l’affermazione secondo cui l’esercizio del potere di denuncia, riconosciuto dall’art. 333 c.p.p., non può essere fonte di responsabilità, se non qualora il privato faccia ricorso ai pubblici poteri in maniera strumentale e distorta, ossia agendo nella piena consapevolezza della insussistenza dell’illecito o della estraneità allo stesso dell’incolpato (si rimanda a Cass. pen. n. 29237/2010 e, quanto alla responsabilità civile, fra le più recenti a Cass. n. 11898/2016). La esenzione da responsabilità, anche nei casi di colpa grave, si giustifica considerando che la collaborazione del cittadino, che risponde ad un interesse pubblico superiore, verrebbe significativamente scoraggiata ove quest’ultimo potesse essere chiamato a rispondere delle conseguenze pregiudizievoli prodottesi a seguito di denunce che, sebbene inesatte o infondate, siano state presentate senza alcun intento calunnioso.

Proprio la presenza e la valorizzazione di interessi pubblici superiori porta ad escludere che nell’ambito del rapporto di lavoro la sola denuncia all’autorità giudiziaria di fatti astrattamente integranti ipotesi di reato possa essere fonte di responsabilità disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa, fatta eccezione per l’ipotesi in cui l’iniziativa sia stata strumentalmente presa nella consapevolezza della insussistenza del fatto o della assenza di responsabilità del datore. Perché possa sorgere la responsabilità disciplinare non basta che la denuncia si riveli infondata e che il procedimento penale venga definito con la archiviazione della “notizia criminis” o con la sentenza di assoluzione, trattandosi di circostanze non sufficienti a dimostrare il carattere calunnioso della stessa.

Nei precedenti citati si è specificato che, a differenza delle ipotesi in cui è in discussione l’esercizio del diritto di critica, in caso di denuncia penale (o amministrativa) presentata dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro “non rilevano i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio, e, quindi, può avere rilevanza disciplinare, giacché ogni denuncia si sostanzia nell’attribuzione a taluno di un reato, per cui non sarebbe logicamente e giuridicamente possibile esercitare la relativa facoltà senza incolpare il denunciato di una condotta obiettivamente disonorevole e offensiva della reputazione dell’incolpato” (Cass. n. 22375/2017, cit.; Cass. n. 4125/2017, cit.; Cass. n. 15646/ 2003, cit.; Cass. pen. n. 29237/2010, cit.).

Nel tracciare un equo componimento dei diversi beni di rilievo costituzionale, la giurisprudenza di legittimità ha dunque stabilito che l’esercizio del diritto di libera manifestazione del pensiero, sia che si realizzi attraverso l’espressione di critiche, purché nei limiti di continenza formale e materiale tracciati, e sia che si traduca nella denuncia alle autorità competenti di fatti illeciti, di rilievo penale o amministrativo, purché non di carattere calunnioso, non possa di per sé costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento. L’obbligo di fedeltà imposto al lavoratore non può spingersi fino al punto da comprimere, oltre i limiti sopra individuati, l’esercizio del diritto tutelato dall’art. 21 Cost., e dallo Statuto dei lavoratori, art. 1.

I princìpi appena espressi sono stati ribaditi dalla Corte di Cassazione con la sentenza 31 maggio 2022, n. 17689, con la quale i giudici di legittimità hanno valutato il caso di un dirigente con funzioni di direttore generale il quale, durante una riunione del Consiglio di Amministrazione, aveva espresso, mettendoli per iscritto in comunicazione inviata anche ai revisori ed al collegio dei sindaci, alcune perplessità sul progetto di bilancio, dai quali, a suoi dire, potevano configurarsi ipotesi di reato. L’azienda non aveva tollerato le dichiarazioni del dirigente ed aveva proceduto a contestare disciplinarmente l’accaduto e, all’esito delle sue giustificazioni, a licenziarlo per giusta causa.

Nei primi due gradi di giudizio, il Tribunale e la Corte di Appello avevano confermato la legittimità del licenziamento: il dirigente, nel censurare l’operato dell’azienda, si era spinto oltre i limiti del diritto di critica/denuncia, con la conseguenza che la sua condotta aveva illegittimamente leso il vincolo fiduciario sotteso al rapporto.

La Cassazione non ha condiviso però la ricostruzione dei giudici di merito. Secondo la Corte la particolare funzione del direttore generale – il quale per legge condivide con il C.d.A. le responsabilità per gli atti gestionali, incluso il bilancio – legittima quest’ultimo ad ipotizzare la configurabilità di illeciti penali o amministrativi mettendo in guardia i soggetti insieme a lui teoricamente responsabili, peraltro in sedi e con le modalità specificamente previste dall’ordinamento. In questo modo, infatti, egli si limita ad esercitare un diritto/dovere specifico, quello di denuncia, la cui attuazione non può costituire – anche a prescindere dal rispetto della continenza formale e sostanziale – una condotta disciplinarmente rilevante ed in grado di compromettere il vincolo fiduciario.

La sentenza d’appello è dunque stata cassata con rinvio ad altra Corte per la definizione del giudizio attenendosi ai princìpi espressi dalla Cassazione.

Funzioni dirigenziali e diritto di denuncia
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