Il licenziamento è legittimo solo se l’attività extra lavorativa sia in grado di pregiudicare la guarigione del dipendente.
Nota a Cass. 26 aprile 2022, n. 13063
Francesco Belmonte
Nel nostro ordinamento non sussiste un divieto assoluto per il dipendente di prestare altra attività, anche a favore di terzi, durante le assenze dal lavoro per malattia, sicché lo svolgimento di tale altra attività non costituisce, di per sé, inadempimento degli obblighi imposti al prestatore. Il datore di lavoro per irrogare il licenziamento dovrà valutare modalità, tempi e luoghi della diversa attività svolta, dovendo provare non solo che si tratta di effettiva attività ricreativa o ludica ma anche che la malattia è fittizia ovvero che la condotta tenuta dal dipendente è potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro al lavoro.
In tale linea si è pronunciata la Cassazione (26 aprile 2022, n. 13063), in relazione al licenziamento per giusta causa intimato ad un manutentore elettrico per aver svolto, durante la malattia, attività extra lavorativa e per non aver comunicato il mutamento del domicilio necessario per consentire le visite mediche di controllo.
In relazione alla prima contestazione, conformemente alle statuizioni rese dai giudici di merito (App. Milano, 15 aprile 2019), la Cassazione si pone in linea con la giurisprudenza granitica formatasi in materia, ribadendo che non esiste un’incompatibilità assoluta tra malattia e svolgimento di altra attività lavorativa durante il periodo di comporto. (v., tra le tante, Cass. n. 2244/76; Cass. n. 1361/81; Cass. n. 5833/94; Cass. n. 381/98 e la recente Cass. n. 6047/2018, annotata in q. sito da S. ROSSI).
Per i giudici, tale “assunto trova fondamento nella nozione di malattia rilevante a fini di sospensione della prestazione lavorativa e che ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità abbia determinato, per intrinseca gravità e/o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale – sebbene transitoria – incapacità al lavoro del medesimo (cfr., tra tutte, Cass. n. 14065/99), per cui, anche laddove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psico-fisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività.”
Il compimento di ulteriori attività da parte del dipendente può comunque giustificare la sanzione del licenziamento, “in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifichi obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, sia nell’ipotesi in cui la diversa attività accertata sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, sia quando l’attività stessa, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.” (v. Cass. n. 1747/91; Cass. n. 21253/2012; Cass. n. 17625/2014 e Cass. n. 13980/2020).
Nel quadro stabile così delineato, si registrano tuttavia posizioni divergenti in giurisprudenza circa il criterio di riparto degli oneri probatori in relazione al licenziamento intimato in tali circostanze.
In base ad un primo orientamento (minoritario) “nel caso di un lavoratore assente per malattia il quale sia stato sorpreso nello svolgimento di altre attività, spetta al dipendente dimostrare la compatibilità di esse con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa e quindi la loro inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche” (Cass. n. 11142/91; Cass. n. 24671/2016, annotata in q. sito da K. PUNTILLO, Cass. n. 6047/2018; Cass. n. 9647/2021).
Per un altro indirizzo (maggioritario), invece, “la prova dell’incidenza della diversa attività lavorativa o extralavorativa nel ritardare o pregiudicare la guarigione ai fini del rilievo disciplinare è comunque a carico del datore di lavoro” (Cass. n. 6375/2011; Cass. n. 15476/2012; Cass. n. 4869/2014; Cass. n. 1173/2018; Cass. n. 13980/2020).
Tale orientamento, discende direttamente dall’art. 5, L. n. 604/66, secondo cui: “L’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro”.
Al riguardo è opportuno rilevare che, l’onere della prova deve interessare la sussistenza di un evento che giustifica la cessazione del rapporto in relazione alla singola fattispecie in considerazione, ossia la sussistenza “di una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, con riferimento agli aspetti concreti di esso, afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente nella organizzazione dell’impresa, nonché alla portata soggettiva del fatto stesso, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità del fatto volitivo” (cfr., tra le innumerevoli, Cass. n. 3395/91; Cass. n. 9590/2001; Cass. n. 13188/2003).
Ciò posto, in relazione al caso di specie, “chi licenzia non può limitarsi a fornire la prova che il lavoratore abbia svolto in costanza di malattia altra attività, perché, per quanto detto innanzi, non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare altra attività, anche a favore di terzi, durante la malattia, sicché essa non costituisce, di per sé, inadempimento degli obblighi imposti al prestatore d’opera.”
Infine, in relazione all’ulteriore addebito contestato al dipendente, concernente l’omessa comunicazione della variazione del domicilio, la Corte ritiene che la sanzione del licenziamento debba ritenersi sproporzionata e quindi illegittima, poiché il contratto collettivo punisce con una mera sanzione conservativa l’assenza alla visita medica di controllo.
In ragione di ciò la Cassazione annulla il licenziamento per “fatto insufficiente” (art. 18, co. 4, Stat. Lav.) e dispone la reintegrazione del dipendente in azienda.