Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 luglio 2022, n. 22846

Lavoro, Natura del rapporto, Criteri sussidiari di
subordinazione, Ragionamento presuntivo, Insindacabilità

 

Rilevato in fatto

 

che, con sentenza depositata il 24.5.2016, la Corte
d’appello di Firenze, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato
la domanda di A. F., in proprio e quale legale rapp.te dell’omonima ditta
individuale, volta all’accertamento dell’insussistenza di un rapporto di lavoro
subordinato con M. A., M. G. e U.M. e, conseguentemente, della non debenza dei
contributi e dei premi per costoro richiestigli dall’INPS e dall’INAIL;

che avverso tale pronuncia A. F. ha proposto ricorso
per cassazione, deducendo quattro motivi di censura, successivamente illustrati
con memoria;

che l’INAIL ha resistito con controricorso;

che l’INPS ha depositato procura in calce al ricorso
notificatogli;

 

Considerato in diritto

 

che, con il primo motivo, il ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c.
per avere la Corte di merito ritenuto, difformemente dal primo giudice, che il
rapporto precorso con i tre lavoratori anzidetti dovesse qualificarsi in
termini di rapporto di lavoro subordinato, sul presupposto che operasse nel
caso di specie una presunzione di subordinazione, in ragione della natura
esecutiva delle mansioni affidate ai predetti, e che era altresì risultato che
costoro utilizzassero materiali e strumenti di lavoro di proprietà dell’impresa
e ricevessero un compenso su base oraria;

che, con il secondo motivo, il ricorrente lamenta
omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio per non avere i giudici
territoriali considerato che i tre lavoratori si erano sempre dichiarati
artigiani autonomi;

che, con il terzo motivo, il ricorrente si duole di
omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio per non avere i giudici di
seconde cure considerato che i tre lavoratori erano titolari di autonome ditte
individuali, ancorché una di esse fosse tenuta irregolarmente;

che, con il quarto motivo, il ricorrente denuncia
omesso esame di un ulteriore fatto decisivo, per non avere i giudici
territoriali considerato che i lavoratori asseritamente subordinati svolgevano
contestualmente altri lavori a beneficio di terzi;

che i motivi possono essere esaminati
congiuntamente, in considerazione dell’intima connessione delle censure;

che, al riguardo, va premesso che i giudici
territoriali, nel motivare la conclusione in ordine alla natura subordinata del
rapporto precorso tra l’odierno ricorrente e i lavoratori M. A., M. G. e U. M.,
hanno anzitutto evidenziato che i medesimi “svolgevano attività di
muratore e imbianchino sulla base delle indicazioni di volta in volta ricevute
da F. A.” e, sul presupposto che non fosse stato nemmeno allegato
“che essi operassero in base a contratti di appalto” e in
considerazione del “contenuto esecutivo delle mansioni svolte, per loro
natura soggette alle disposizioni del titolare dell’impresa edile”, nonché
del fatto che “i tre lavoratori utilizzavano materiali e strumenti di
lavoro forniti dall’impresa F. A., e ricevevano un compenso su base
oraria”, hanno reputato che i rapporti in esame presentassero tutti i
tratti della prestazione di lavoro subordinato;

che tali conclusioni appaiono prima facie coerenti
con il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui, qualora la
prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e
predeterminata nelle sue modalità di esecuzione e, allo scopo della
qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, il criterio
rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere
direttivo, organizzativo e disciplinare non risulti, in quel particolare
contesto, significativo, occorre, a detti fini, far ricorso a criteri
distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le
modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro,
la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con
riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e la
sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore,
desunto anche dalla eventuale concomitanza di

altri rapporti di lavoro (così, tra le tante, Cass. n. 24561 del 2013, sulla scorta di Cass.
nn. 9251 del 2010, 8569 del 2004; nello stesso
senso, tra le più recenti, Cass. nn. 22289 del
2014 e 23846 del 2017);

che le anzidette conclusioni, ad onta anche della
rubrica del primo motivo di censura, sono state avversate non già per avere i
giudici territoriali compiuto un qualche errore di interpretazione e/o
sussunzione, bensì per non aver considerato altre circostanze di fatto
concernenti la (supposta) non elementarità delle mansioni svolte, la (asserita)
mancata dimostrazione della sussistenza di potere gerarchico e disciplinare, la
(addotta) saltuarietà delle prestazioni, l’avere i presunti lavoratori
dichiarato di operare quali artigiani autonomi e l’essere titolari di
altrettante ditte individuali mercé le quali avevano reso prestazioni anche a
beneficio di terzi;

che, atteso che il giudizio (di fatto) circa la
sussistenza degli elementi dai quali inferire l’esistenza di un rapporto di
lavoro subordinato scaturisce da un ragionamento necessariamente presuntivo, in
cui talune circostanze di fatto vengono assunte come indizi tramite i quali
risalire al fatto da provare (che ovviamente consiste nella prestazione di
lavoro subordinato per come tipizzata dall’art.
2094 c.c.), la possibilità di devolvere a questa Corte di legittimità un
sindacato su tale accertamento deve reputarsi non dissimile da quella più
generale di sindacare il ricorso da parte del giudice di merito al ragionamento
presuntivo (così da ult. Cass. n. 33820 del 2021, sulla scorta di Cass. S.U. n.
379 del 1999);

che è precisamente in tale ottica che questa Corte,
nella sentenza n. 18692 del 2007 (erroneamente indicata con il n. 18962 nella
sentenza impugnata), ha fatto riferimento, in una fattispecie in cui veniva in
rilievo una censura di motivazione insufficiente ex art.
360 n. 5 c.p.c., ad una “presunzione di subordinazione”, non a
caso ribadendo in parte motiva che “colui che pretende la sussistenza di
un rapporto di lavoro subordinato deve provare l’essenza della subordinazione
(secondo i ben noti criteri enunciati da questa Corte), attraverso gli indici sintomatici
che conducono al giudizio di sintesi sopra detto e la rendono così ostensibile
nel mondo fenomenico”;

che, con riguardo alla sindacabilità per cassazione
del ragionamento presuntivo, è assolutamente consolidato nella giurisprudenza
di questa Corte, a seguito della novella apportata all’art. 360 n. 5 c.p.c. dall’art. 54, d.l. n. 83/2012 (conv.
con I. n. 134/2012), il principio secondo cui
spetta al giudice di merito individuare i fatti da porre a fondamento
dell’inferenza presuntiva e valutarne la rispondenza ai requisiti di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c.,
con un apprezzamento di fatto che è intangibile in questa sede di legittimità,
salvo che si sia omesso l’esame di un qualche fatto decisivo (nel rigoroso
senso delineato da Cass. S.U. n. 8053 del 2014:
così, tra le più recenti, Cass. nn. 10253 e 18611
del 2021);

che, più in particolare, si è precisato (da ultimo
da Cass. n. 22366 del 2021) che la censura ex art. 360 n. 5 c.p.c. in ordine all’impiego del
ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un
convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito e che la mancata
valutazione di un elemento indiziario non può di per sé dare luogo al vizio di
omesso esame di un fatto decisivo, stante che il fatto da provare può
considerarsi desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente
possibile secondo un criterio di normalità, non potendo l’inferenza logica
essere in alcun modo oggettivamente inconfutabile;

che in tale ultimo senso deve ribadirsi che, in
questa sede di legittimità, il giudizio relativo alla qualificazione di uno
specifico rapporto come subordinato o autonomo integra un giudizio censurabile
ex art. 360 n. 3 c.p.c. solo per ciò che
riguarda l’individuazione dei caratteri identificativi del lavoro subordinato,
per come tipizzati dall’art. 2094 c.c., mentre
è sindacabile solo nei limiti ammessi dall’art. 360
n. 5 c.p.c. allorché si proponga di criticare il ragionamento
(necessariamente presuntivo) concernente la scelta e la ponderazione degli
elementi di fatto, altrimenti denominati indici o criteri sussidiari di
subordinazione, che hanno indotto il giudice del merito ad includere il
rapporto

controverso nell’uno o nell’altro schema
contrattuale;

che, alla stregua delle suesposte considerazioni, è
evidente che, nel caso di specie, parte ricorrente, lungi dal denunciare un
errore di diritto o l’omesso esame circa un fatto decisivo (ripetesi, nel
rigoroso senso delineato da Cass. S.U. n. 8053 del
2014), domanda sostanzialmente a questa Corte un’inammissibile
rivalutazione del materiale probatorio alla luce del quale i giudici di merito
hanno presuntivamente ricondotto le collaborazioni precorse tra l’odierno
ricorrente e i lavoratori M. A., M. G. e U.M. nell’alveo della prestazione di
lavoro subordinato;

che il ricorso, pertanto, va dichiarato
inammissibile, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di
legittimità in favore della parte controricorrente, giusta il criterio della
soccombenza;

che, in considerazione della declaratoria
d’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento,
da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso;

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte
ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore
della parte controricorrente, che si liquidano in € 4.200,00, di cui € 4.000,00
per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002,  dà atto della sussistenza
dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove
dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

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