Maria Novella Bettini
Il patto di non concorrenza, disciplinato dall’art. 2125 c.c., rappresenta un peculiare limite alla concorrenza specifico dei lavoratori subordinati ed è volto, da un lato, ad evitare che il patrimonio immateriale (in particolare l’organizzazione, il know how, l’avviamento e la clientela) di un’impresa possa essere messo a disposizione di imprese concorrenti e, dall’altro, a non pregiudicare eccessivamente la posizione del lavoratore ai fini di un suo reinserimento nel mercato del lavoro.
Al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza occorre osservare una serie di criteri. Nello specifico, il patto:
a) è nullo se non è contenuto entro limiti determinati di oggetto, di tempo e di luogo (così, Trib.Roma 13 ottobre 2021, n. 8274);
b) “non deve essere di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale” (Fra tante, v. Trib. Modena 10 giugno 2021, n. 280; Trib. Cuneo 12 marzo 2021, n, 126);
c) si può ritenere violato non sulla base della forma in cui è prestata l’attività lavorativa, se mediante lavoro subordinato o autonomo o ancora attraverso l’esercizio di una vera e propria impresa, ma sulla base “dell’attività in sé considerata, in un settore che possa definirsi come tale in concorrenza con il precedente datore di lavoro” (Trib. Forlì 5 ottobre 2021, n. 216). Indici sintomatici della violazione del patto in questione sono: “la continuazione della stessa attività a favore di una diretta concorrente del precedente datore di lavoro, la permanenza in territorio vietato, la coincidenza tra l’uscita dall’azienda e la lunga serie di richieste di disinvestimento da parte dei clienti prima gestiti dal lavoratore, la mancanza di elementi di prova contraria o di precise allegazioni del lavoratore consentono di ritenere posto in essere il comportamento vietato dal patto di concorrenza” (Trib. Roma 10 febbraio 2020, n. 9604);
d) non deve necessariamente limitarsi alle mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, potendo “riguardare qualsiasi prestazione lavorativa che possa competere con le attività economiche volte da datore di lavoro, da identificarsi in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergano domande e offerte di beni o servizi identici o comunque parimenti idonei a soddisfare le esigenze della clientela del medesimo mercato” (Cass. 25 agosto 2021, n. 23418, annotata in q. sito da F. ALBINIANO. In generale, sui requisiti del patto, v. Trib. Firenze, 14 aprile 2022, n.264);
e) prevedere un corrispettivo, determinato o determinabile, che può essere erogato anche nel corso del rapporto di lavoro (v., per tutte, Cass. n. 3507/2001) e mediante rate mensili (Trib. Milano 30 luglio 2021, n. 1868), ovvero in percentuale, purché non iniqua e sproporzionata (v. Trib. Milano 21 luglio 2021, n. 1806). Nel senso che il compenso per il lavoratore, pur se previsto in costanza di rapporto e destinato ad aumentare con la durata dello stesso, è determinabile e valido, v. Cass. 25 agosto 2021, n. 23418, cit. “La nullità per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo – quale vizio del requisito generale prescritto dall’ 1346 c.c.- e la nullità per violazione dell’art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo «non è pattuito», ovvero sia simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, operano su piani distinti ed ognuno di essi richiede una specifica motivazione” (Cass. 1 marzo 2021, n. 5540, in q. sito con nota di F. DURVAL). La compressione della libertà in seguito alla stipulazione del patto di non concorrenza impedisce al lavoratore di progettare il proprio futuro lavorativo e, pertanto, non può avvenire senza l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore. Non sono tuttavia ammessi “compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato”: v. Cass. (ord.) 26 maggio 2020, n. 9790, in q. sito con nota di M.N. BETTINI; v. anche Trib. Roma 13 ottobre 2021, n. 8274, cit.). Per App. Venezia 22 febbraio 2022, n. 26, è invece ammissibile il patto di non concorrenza a titolo gratuito. Secondo i giudici, infatti, “la naturale onerosità del patto di non concorrenza non è inderogabile in quanto il legislatore non ha stabilito – in caso contrario – la sanzione della nullità espressa come diretta a tutelare un interesse pubblico generale; ne consegue che la mancata previsione di un corrispettivo non rende nullo il patto né consente la sostituzione della lacuna con la disciplina legale.”
La clausola che rimette all’arbitrio del datore di lavoro la risoluzione del patto di non concorrenza è nulla (Cass. (ord.) 1° settembre 2021, n. 23723, annotata in q. sito da S. ROSSI). Il necessario corrispettivo previsto per la sigla del patto in questione finirebbe infatti per essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo” (v. Cass. n. 3/2018, in q. sito con nota di M.N. BETTINI). In altri termini, la cessazione del patto non può avvenire in virtù di una condizione risolutiva affidata alla mera discrezionalità del datore di lavoro e, dunque, la rinunzia al patto stesso va considerata inesistente;
f) può essere esteso a tutto il territorio nazionale se l’attività dell’altro contraente è di rilievo nazionale (v. Cass. 22 giugno 2022, n. 20152, in tema di associazione in partecipazione ai sensi dell’art. 2596 c.c.);
g) differisce dalla clausola che preveda un divieto di storno di clientela da parte del dipendente in quanto proibisce lo svolgimento di attività lavorativa in concorrenza con il datore di lavoro dopo la cessazione del rapporto e per una durata limitata nel tempo, mentre il divieto di storno “impedisce il compimento di atti e comportamenti funzionali a sviare la clientela verso un’altra impresa sfruttando il rapporto di fiducia instaurato e consolidato durante il periodo di dipendenza con la prima società e mira a garantire la tutela dell’avviamento e il mantenimento e consolidamento del rapporto con i clienti. Le due clausole, quindi, sono tra loro indipendenti e autonome. Di conseguenza, il regime normativo dell’ 2125 c.c.non può estendersi alla clausola contenente il divieto di storno di clientela (Cass. 4 agosto 2021, n. 22247, annotata in q. sito da M.N. BETTINI. La Corte ha ritenuto legittimo il pagamento di una penale (da parte di un dirigente di banca) particolarmente alta e pari a circa tre volte e mezzo la sua retribuzione, in ragione sia del ruolo apicale da costui rivestito, sia del pregiudizio sofferto dal datore di lavoro per effetto della perdita del cliente stornato in violazione degli obblighi assunti dal dirigente medesimo);
h) per quanto riguarda il contratto di agenzia ( 1751-bis c.c.), lo stesso deve farsi per iscritto e “deve riguardare la medesima zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia e la sua durata non può eccedere i due anni successivi all’estinzione del contratto. Tale norma, la cui formulazione è ben diversa da quella dell’art. 2125 c.c., non prescrive quindi dei contenuti essenziali che il patto deve presentare a pena di nullità, ma solamente che esso non deve eccedere quei limiti identificati dalla norma, al fine di non causare un’eccessiva compressione della libertà negoziale dell’agente. Pertanto, il divieto riguarda solo la limitazione della concorrenza a zone, clienti e tipologie di generi e beni che non costituissero già oggetto del contratto di agenzia. Quindi, la mancata specificazione nell’accordo tra agente e preponente della zona, della clientela o della tipologia di prodotti e servizi, di per sé, non può determinare l’invalidità dell’intero negozio, fuori del caso in cui, dopo aver proceduto all’interpretazione del contratto, si giunga al risultato esegetico che lo stesso manchi nell’oggetto dei requisiti di determinatezza o determinabilità” (art. 1421 c.c., in combinato disposto con l’art. 1346 c.c.)” (Trib. Roma 22 giugno 2021, n. 10912).