La clausola pattizia che, ai fini della quantificazione del premio di risultato, non considera come presenti in servizio i lavoratori assenti per la fruizione dei permessi per l’assistenza a familiari disabili o per la propria disabilità costituisce una discriminazione diretta fondata sull’handicap.
Nota ad App. Torino 13 aprile 2022
Sonia Gioia
In materia di discriminazioni sul luogo di lavoro, la clausola del contratto collettivo che ometta di equiparare le assenze del lavoratore “dovute a causa di assistenza ai familiari portatori di handicap o a causa della propria condizione di disabilità” alle giornate di effettiva presenza in servizio, ai fini della determinazione del quantum del premio di risultato, integra una discriminazione diretta basata sulla condizione di disabilità poiché tale criterio retributivo penalizza in misura significativamente maggiore i lavoratori disabili e i caregiver, rispetto agli altri lavoratori, che sono più esposti al rischio di non essere presenti al lavoro per malattie legate all’handicap.
Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Torino (13 aprile 2022, difforme da Trib. Torino 15 novembre 2021) in relazione ad una fattispecie concernente alcuni lavoratori che lamentavano la natura discriminatoria della previsione pattizia che, ai fini della quantificazione del premio di risultato, escludeva l’equiparazione delle assenze per la fruizione dei permessi per lavoratori disabili o per l’assistenza ad un familiare con handicap alle giornate di presenza in servizio, al contrario di quanto previsto per i lavoratori assenti dal lavoro per donazione sangue ed emocomponenti e per l’esercizio delle funzioni sindacali.
Secondo il giudice di prime cure, il criterio di calcolo del premio di risultato – adottato dalla contrattazione collettiva allo scopo di disincentivare l’assenteismo – non costituiva una violazione diretta del principio di parità di trattamento poiché i dipendenti che si assentavano per fruire dei permessi ex art. 33, L. 5 febbraio 1992, n. 104 (“Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”) per la disabilità propria o per l’assistenza ad un familiare portatore di handicap, venivano considerati “al pari dei colleghi assenti per altra causa”, come malattia o infortunio.
Inoltre, il trattamento di miglior favore riservato dall’accordo collettivo ai dipendenti assenti dal lavoro per donazione sangue o per l’esercizio delle prerogative sindacali risultava giustificato dalla circostanza che tali attività, in quanto dirette a soddisfare gli interessi di una pluralità di persone, presentavano “una dimensione collettiva”, non riscontrabile nella fruizione dei permessi per disabili, meritevole di “una maggiore considerazione a livello pattizio”.
Al riguardo, la Corte d’Appello ha osservato che, per quanto concerne le condizioni di impiego e lavoro, è vietata qualsiasi forma di discriminazione, diretta o indiretta, basata sull’handicap, sia nel settore pubblico che privato, ai sensi dell’art. 1, Dir. 2000/78/CE (recante disposizioni “Per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro”) e dell’ art. 2, co. 1, D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (attuativo della citata Direttiva e della Direttiva n. 2014/54/UE relativa “alle misure intese ad agevolare l’esercizio dei diritti conferiti ai lavoratori nel quadro della libera circolazione dei lavoratori).
Nello specifico, si configura una discriminazione diretta quando una persona, per motivi dovuti all’handicap, è trattata in modo meno favorevole di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona in una situazione analoga (art. 2, par. 2, lett. a) Dir. cit. e art. 2, co. 1, lett. a), D Lgs. n. 216 cit.).
Una discriminazione indiretta, invece, si ha quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere i soggetti portatori di handicap in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre persone, salvo che tale diversità di trattamento sia giustificata da una finalità legittima e a condizione che i mezzi per il perseguimento di tale obiettivo siano appropriati e necessari e, nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro sia obbligato, dalla legislazione nazionale, ad adottare “misure adeguate” per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o prassi (artt. 2, par. 2 lett. b) e 5, Dir. cit. e artt. 2, co. 1, lett. b) e 3, co. 3, D.Lgs. n. 216 cit.).
Siffatto divieto “si applica non in relazione ad una determinata categoria di persone” ma sulla scorta della disabilità, sicché è vietato discriminare non solo i lavoratori portatori di handicap ma anche i soggetti “normodotati” che assistono un familiare disabile, con l’unico limite che essi possono essere protetti solo quando si trovano in stretto rapporto con quest’ultimo.
La circostanza che la Direttiva 2000/78 cit. contenga disposizioni volte a tener conto specificamente delle esigenze dei disabili non permette, infatti, “di concludere che il principio della parità di trattamento in essa sancito debba essere interpretato in senso restrittivo, vale a dire che esso vieterebbe solo le discriminazioni dirette fondate sulla disabilità e riguarderebbe esclusivamente le persone che siano esse stesse disabili”, poiché una tale interpretazione rischierebbe di privare la disciplina comunitaria “di una parte importante del suo effetto utile e di ridurre la tutela che essa dovrebbe garantire” (CGUE 17 giugno 2008, C-303/06; Cass. n. 2466/2018; Cass. n. 14187/2017; Cass. n. 24015/2017, annotata in q. sito da K. PUNTILLO; App. Torino n. 91/2021; App. Torino n. 937/2017).
Da ciò discende che il trattamento meno favorevole del lavoratore abile, rispetto ad altro dipendente che si trovi in una situazione analoga, per motivi connessi alla disabilità del familiare che il prestatore assiste, costituisce “all’evidenza un vulnus alla tutela garantita alla disabilità”.
In attuazione di tali principi, la Corte, nel riformare la pronuncia di merito, ha stabilito che la mancata equiparazione dell’assenza alla presenza in servizio per i lavoratori che fruiscono dei permessi ex art. 33, L. n. 104 cit., sia per la disabilità propria che per l’assistenza ad un familiare portatore di handicap, opera, “indubitabilmente”, in funzione della disabilità – indefettibile presupposto di tali agevolazioni – ed è tale da realizzare una discriminazione diretta fondata sull’handicap, condannando, di conseguenza, la società datrice al pagamento delle differenze retributive connesse al premio di risultato.