Per accertare il carattere discriminatorio del periodo di comporto previsto dal contratto collettivo nei confronti dei lavoratori disabili va verificato il nesso di causalità degli eventi morbosi con lo stato di disabilità.
Nota a Trib. Lodi 12 settembre 2022, n. 19
Valerio Di Bello
Il Tribunale di Lodi 12 settembre 2022 si è pronunciato in merito al ricorso di una lavoratrice disabile (portatrice di handicap non in stato di gravità) che ha dedotto la discriminatorietà (indiretta) del licenziamento assumendo che in quanto lavoratrice assunta ex lege n. 68\1999, ai fini del superamento del comporto non avrebbero dovuto computarsi i periodi di malattia riconducibili alle patologie che riguardano il suo stato di invalidità. Ciò in quanto “la norma contrattuale la quale limita a 15 mesi di assenza l’avvenuto superamento del periodo di comporto – e quindi rende legittima la risoluzione del rapporto di lavoro – non può trovare applicazione nel caso di specie in quanto sarebbe causa di una discriminazione indiretta. Infatti, pur essendo una disposizione di per sé neutra essa pone il portatore di handicap … in una condizione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori (con violazione della norma contrattuale rispettosa dei principi affermati dalla direttiva 2000/78 e dal D.Lgs. n. 216/2003). È infatti evidente che il portatore di handicap è costretto ad un numero di assenze di gran lunga superiore rispetto al lavoratore che limita le proprie assenze ai casi di contingenti patologie che hanno una durata breve o comunque limitata nel tempo”.
Al riguardo, il Collegio afferma che occorre valutare se il termine di comporto sia penalizzante per la disabile in ragione della patologia che ha dato origine alla disabilità e nega che, nella fattispecie, sia discriminatorio applicare al lavoratore disabile il medesimo periodo di comporto del lavoratore non disabile che abbia goduto di un analogo periodo di malattia, muovendo dai seguenti presupposti:
– non è condivisibile l’assunto secondo cui “è evidente che il portatore di handicap è costretto ad un numero di assenze di gran lunga superiore rispetto al lavoratore che limita le proprie assenze ai casi contingenti di patologie che hanno una durata breve o comunque limitata nel tempo”. Infatti, “in linea generale ed astratta non vi sono ragioni nell’ordinamento italiano per trattare i lavoratori disabili diversamente dagli altri con riguardo particolare e specifico alle conseguenze sulla stabilità del rapporto legate alla durata della malattia”. Ciò in quanto il disabile “non è di per sé necessariamente un lavoratore malato, affetto cioè da una patologia che imponga assenze per malattia”; malattia e disabilità sono concetti diversi. Occorre cioè distinguere fra disabilità e malattia: la prima attiene alle difficoltà funzionali del lavoratore, difficoltà che lo pregiudicano nello svolgimento dell’attività lavorativa, mentre la malattia riguarda lo stato morboso temporaneo, che impedisce in assoluto al lavoratore di prestare l’attività lavorativa;
– per ipotizzarsi una discriminazione indiretta si dovrebbe sostenere che il lavoratore disabile, quando si ammala, viene trattato, a causa della sua disabilità, diversamente e meno favorevolmente, di un altro lavoratore. Tale affermazione non è veritiera. “Vi sono infatti disabili che non sono affetti da patologie che comportino la necessità di assenze legate ad un particolare stato morboso: si pensi ai disabili non vedenti, non udenti, focomelici, privi di arti o ai disabili psichici o affetti da deficit cognitivo; si tratta di soggetti la cui disabilità di per sé non porta a stati morbosi e quindi alla necessità di assentarsi per malattia. D’altro canto, vi sono lavoratori affetti da malattie croniche e/o gravi che non sono disabili e che proprio in ragione di tali patologie sono soggetti a periodi più o meno lunghi di malattia (si pensi ai malati oncologici, ai diabetici, ai soggetti che soffrono di emicrania o cefalea)”;
– la malattia del disabile, dunque, non può “sempre ed aprioristicamente essere trattata in maniera diversa da quella del lavoratore non disabile: il discrimine ipotizzabile ai fini della durata del comporto quindi attiene alla tipologia di malattia e non allo status di disabilità. Occorre cioè valutare se in concreto quando si verifichi una assenza per malattia, tenuto conto della natura della malattia in relazione alla natura della disabilità, il licenziamento per superamento del comporto comporti una discriminazione del lavoratore”;
– in particolare, “per verificare se in concreto nel caso in esame la norma collettiva attui una discriminazione indiretta della lavoratrice in relazione al computo del comporto come disciplinato dalla contrattazione collettiva occorre valutare se tale disciplina sia penalizzante per la disabile in ragione della patologia che ha dato origine alla disabilità”;
– “l’art. 77 CCNL Logistica, applicabile alla fattispecie, prevede per i lavoratori un comporto di 15 mesi nell’arco degli ultimi 30 mesi (con assenze riferibili ad una pluralità di eventi morbosi): nel caso in esame il superamento del comporto si è verificato per una pluralità di eventi morbosi, di cui uno solo (quello del ricovero ospedaliero per la protesizzazione dell’anca) verosimilmente riconducibile alla disabilità (come emerge dalla Ctu espletata); ritiene invece il Tribunale che i periodi di infermità per “algia” (si veda punto 16 del ricorso) non possano ricondursi con certezza alla disabilità in quanto attribuiti ad un sintomo (il dolore) riferito dal malato”;
– in sintesi, non è discriminatorio applicare al lavoratore disabile il medesimo periodo di comporto del lavoratore non disabile, che abbia goduto di un analogo periodo di malattia.
Nessuna norma, neppure eurounitaria, disciplina espressamente il comporto dei disabili né prevede il divieto assoluto di licenziamento del lavoratore disabile. Sul concetto di discriminazione diretta ed indiretta, v. il D.LGS. n. 216 del 9 luglio 2003, di attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (art. 2); nonché definizione data dalla Corte di Giustizia (11.4.2013, C-335/2011), la quale ha affermato che la nozione di “handicap” debba “essere intesa nel senso che si riferisce ad una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori”; e l’art. 1, co. 2, Convenzione ONU, secondo cui le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere “durature”.