Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 ottobre 2022, n. 31146
Licenziamento, Svolgimento di attività lavorativa durante la
fruizione della CIGS, Omessa comunicazione, Sanzione Espulsiva,
Proporzionalità
Rilevato che
M. P., primo ufficiale di M. F. s.p.a. impugnò il
licenziamento intimatogli dalla società datrice in data 16-19 febbraio 2016 per
aver omesso di comunicare alla società ed all’Inps, durante la fruizione della
Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria ai sensi dell’art. 1 bis della legge n. 291 del 2004,
di aver svolto nello stesso periodo (dal 17 febbraio al 31 marzo 2014) attività
lavorativa in favore della T. A. con comportamento truffaldino finalizzato a
percepire somme alle quali non aveva diritto.
Il Tribunale di Tempio Pausania all’esito della fase
sommaria in parziale accoglimento del ricorso, ritenuto tempestivo il
licenziamento ma sproporzionata la sanzione irrogata, lo dichiarò illegittimo
e, risolto il rapporto di lavoro, condannò la società al pagamento di una
indennità risarcitoria che quantificò in dodici mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto percepita oltre rivalutazione monetaria ed
interessi legali.
In sede di opposizione ex art. 1 comma 51 della legge 28 giugno
2012 n. 92 il Tribunale confermò la decisione.
La Corte di appello di Cagliari, sezione di Sassari,
investita del reclamo da parte della società A. I., già M. F. s.p.a. e del
reclamo incidentale del P., in riforma della sentenza impugnata ha accertato e
dichiarato la legittimità del licenziamento rigettando le domande
originariamente proposte dal P..
La Corte territoriale ha ritenuto che correttamente
fosse stata accertata la tempestività del recesso tenuto conto della data in
cui la datrice di lavoro era venuta a conoscenza della condotta e dei tempi del
successivo procedimento disciplinare culminato con il licenziamento. Quanto al
fatto contestato ha poi verificato che il lavoratore aveva deliberatamente
omesso di comunicare all’INPS, ed anche alla datrice di lavoro, la data di
assunzione a tempo indeterminato presso la T. A. (17.2.2014 con tre mesi di
prova) comunicando solo la data di inizio dell’attività (1.4.2014) e così di
nuovo nei successivi anni 2015 e 2016 senza che fossero state provate in
giudizio le ragioni di tale omessa comunicazione in relazione alla specifica
natura del rapporto per tale primo periodo. In tal modo il lavoratore si era
assicurato di percepire accanto alla retribuzione convenuta per il nuovo
rapporto anche il trattamento di integrazione salariale dal quale, ove avesse
proceduto alle comunicazioni dovute, sarebbe decaduto ed ha ritenuto che si
trattava di condotta di estrema gravità che ben giustificava l’irrogazione
della massima sanzione espulsiva restando irrilevante la mancanza di pregressi
precedenti disciplinari.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso
M. P. affidato a tre motivi ai quali ha opposto difese A. I. s.p.a. che ha
depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis 1
c.p.c..
Considerato che
Con il primo motivo di ricorso è denunciata
l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della
controversia e si sostiene che il giudice del reclamo nel ricostruire il fatto
storico sulla base dei fatti e dei documenti allegati al ricorso / avrebbe dato
degli stessi una interpretazione parziale difettosa ed insufficiente travisando
il soggetto leso dalla condotta (a tutto voler concedere l’Inps che di nulla si
è doluto) e senza che la società datrice abbia sofferto alcun danno.
Sottolinea che gli obblighi di comunicazione dei
quali si assume la violazione erano diretti all’INPS che interessavano solo un
breve periodo e che erano conseguenza dell’errata considerazione che si
trattasse di una fase neutra connessa alla necessità di mantenere le
abilitazioni e i brevetti posseduti. Deduce che comunque era un periodo di
prova del nuovo rapporto. Come ritenuto dal Tribunale i mancava la prova che la
società che aveva proceduto alle anticipazioni dell’indennità non ne fosse
stata tenuta indenne dall’Inps. Inoltre, non tiene conto dell’assenza di
precedenti disciplinari nei dodici anni di rapporto. Si sarebbe trattato di una
distrazione e la condotta non sarebbe perciò connotata da una colpa grave tale
da poter essere considerata un illecito disciplinarmente rilevante ed ancor
meno sanzionabile con il licenziamento misura senz’altro almeno sproporzionata.
Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la
violazione dell’art. 7 della
legge n. 300 del 1970 in relazione alla ritenuta tempestività del
licenziamento osservando che il datore di lavoro si sarebbe potuto avvedere
prima dell’irregolarità senza dover attendere il verbale di accertamento
dell’Inps che comunque era del 26 novembre 2015, ben prima dell’asserita
avvenuta sua notificazione del 11.1.2016 cui poi è seguita la reazione
datoriale.
Il terzo motivo di ricorso ha ad oggetto la
violazione e falsa applicazione degli artt. 2106
e 2119 c.c. e dell’art. 18 della legge n. 300 del
1970 in relazione all’art. 26 del contratto collettivo aziendale E. e si
sostiene che sarebbe rimasta indimostrata la finalità di garantirsi una
importante entrata economica e l’intento truffaldino del lavoratore che al
contrario vanterebbe uno specchiato curriculum aziendale. Si sarebbe dato
rilievo ad un indimostrato notevole danno per la società laddove invece,
esemplificativamente, la trasgressione di norme e regolamenti aziendali ovvero
le condotte che rechino pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene ed
alla sicurezza sono punite dal c.c.n.l. applicabile con una sanzione
conservativa. Deduce che l’omessa comunicazione all’Inps di 42 giorni di lavoro
senza aver causato alcun danno può essere configurata come inosservanza della
normativa lavorativa ed in particolare degli obblighi di comunicazione dei
quali la società aveva reso edotti i lavoratori che è semmai punibile ai sensi
del citato art. 26 con una sanzione conservativa e, conclusivamente, il
licenziamento sarebbe sproporzionato e, perciò, illegittimo.
Preliminarmente va disattesa l’eccezione di
improcedibilità sollevata dalla società controricorrente atteso che la
sentenza, sebbene non specificatamente indicata nell’elenco dei documenti
allegati al ricorso, è stata materialmente inserita nel fascicolo depositato in
giudizio. È stata quindi assicurata la possibilità alla quale tale adempimento
è finalizzato, di verificare la tempestività del ricorso per cassazione.
Venendo all’esame del ricorso ritiene il Collegio che questo non possa essere
accolto.
Il primo motivo di ricorso, infatti, è inammissibile
sotto più profili. Sia perché denuncia un vizio di motivazione che non è più
previsto dalla nuova formulazione del 360 n. 5
(v. in generale cass. s.u. 07/04/2014 n. 8053
e le numerosissime successive); sia perché comunque, nella sostanza, la censura
si risolve in un diverso apprezzamento dei fatti acquisiti al giudizio che è
riservato al giudice di merito.
Altrettanto deve dirsi per il secondo motivo di
ricorso che nel denunciare l’erroneità della ritenuta tempestività del
procedimento disciplinare e ancora una volta procede ad un diverso
apprezzamento delle circostanze di fatto. Per tale aspetto la censura – che
come detto si sostanzia in una denuncia di un vizio di motivazione poiché si
sostiene che la condotta avrebbe potuto essere altrimenti accertata dal datore
di lavoro e si deduce che comunque non vi sarebbe prova che solo con la
notifica l’accertamento dell’INPS di novembre 2015 fosse stato portato a
conoscenza del lavoratore – è inibita dalia presenza al riguardo di una c.d.
doppia conforme. Sia il giudice dell’opposizione che la Corte del reclamo hanno
accertato in fatto la tempestività dell’iniziativa disciplinare. Tanto premesso
, va rammentato che la disciplina speciale prevista dall’art. 1, comma 58, della legge 28
giugno 2012, n. 92, concernente il reclamo avverso la sentenza che decide
sulla domanda di impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall’art. 18 della legge 20 maggio
1970, n. 300, va integrata con quella dell’appello nel rito del lavoro. Ne
consegue l’applicabilità, nel giudizio di cassazione, oltre che dei commi terzo
e quarto dell’art. 348 ter cod. proc. civ.,
anche del comma quinto, il quale prevede che la disposizione di cui al
precedente comma quarto – ossia l’esclusione del vizio di motivazione dal
catalogo di quelli deducibili ex art. 360 cod.
proc. civ. – si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis, secondo comma, lett. a), anche al
ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione
di primo grado (cosiddetta “doppia conforme”) (cfr. Cass. n. 23021 del 2014 e poi Cass. 22142 del 2015, n. 18659 del 2017 e n. 6544
del 2019). Si tratta come è noto di norma applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del
2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del
2012, ai giudizi d’appello che come quello in esame sono stati introdotti
con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la
notificazione dal giorno 11 settembre 2012 e al ricorrente in cassazione – per
evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art.
360, n. 5, c.p.c.—è richiesto di indicare le ragioni di fatto poste a base,
rispettivamente, della decisione di primo grado (nella specie all’esito della
fase di opposizione) e della sentenza di appello nel giudizio sul reclamo,
dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774 del 2016). Poiché
tale diversità non risulta allegata né comunque emerge dalla censura formulata
la stessa è per tale ragione inammissibile.
Quanto al terzo motivo di ricorso esso è
inammissibile e, comunque, infondato.
In contrasto con il principio di tassatività dei
motivi, con la censura è denunciato promiscuamente sia un vizio di violazione
di legge che un vizio motivazionale e, nel corpo del motivo, non è possibile
discernere due censure distinte. Va qui ribadito che per poter ritenere
ammissibile il motivo di ricorso di cassazione, il quale cumuli in sé le
censure di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5,
c.p.c., è necessario che nello stesso risulti specificamente evidente la
trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione
delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla
ricostruzione del fatto (cfr. Cass. 24493 del 2018).
Peraltro, ove si voglia ritenere ammissibile la
censura sotto il profilo della denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 e 2119 c.c.,
dell’art. 18 della legge n.
300 del 1970 e dell’art. 26 del c.c.n.l. aziendale E., ritiene il Collegio
che non siano state prospettate ragioni che possano indurre a discostarsi dai
precedenti intervenuti su questioni del tutto analoghe a quella oggetto del
presente giudizio (cfr. Cass. nn. 3122, 3121 e 3116
del 2021) dove si è posto in rilievo che “che l’obbligo di
comunicazione preventiva a carico del lavoratore interessato sussiste anche se
la nuova occupazione dia luogo ad un reddito compatibile con il godimento del
trattamento di integrazione salariale (Cass. n. 5019 del 2004), che essa
riguarda ogni attività di lavoro autonomo (oltre che subordinato), anche non
riconducibile allo schema contrattuale di cui agli art.
2222 ss. e 2230 ss. cod.civ. (Cass. n. 11679 del 2005) e anche se svolta
nell’ambito della partecipazione ad un’impresa, e ancora, più in generale,
qualunque attività potenzialmente remunerativa, pur se in concreto non abbia
prodotto alcun reddito e pur se l’ente Previdenziale ne abbia avuto comunque
tempestiva notizia da parte del nuovo datore di lavoro, o aliunde (Cass. n.
2788 del 2001).” Si è chiarito che ai fini dell’obbligo di comunicazione
” l’ulteriore attività svolta non deve avere il carattere della
“prevalenza”, in quanto tale requisito non è previsto dalla norma,
con la conseguenza che va esclusa la necessità di ogni indagine giudiziale in
ordine all’impegno temporale del lavoratore nell’attività svolta nei periodi di
cassa integrazione, ovvero all’apporto economico di tale attività rispetto al
totale dei redditi percepiti nel periodo (Cass. n.
8490 del 2003; Cass. n.15890 del 2004), e neppure rileva che essa non sia
soggetta a contribuzione (Cass. n. 2788 del 2001). (….) l’ambito delle
attività soggette alla comunicazione preventiva è individuato da questa Corte
nel suo significato più ampio: l’attività lavorativa è intesa come insieme di
condotte umane caratterizzate dall’utilizzo di cognizioni tecniche (anche se
del genere più vario e della più diversa complessità), che siano obiettivamente
idonee a produrre reddito. Vi rientrano, pertanto, tutte le attività
qualificabili come lavorative nel senso sopra precisato (implicanti l’impiego
di una professionalità, per quanto minima, e potenzialmente redditizie), senza
che assuma rilievo la forma negoziale nella quale esse siano svolte (Cass. n.
2788 del 2001; che richiama il generico riferimento della legge all’attività
lavorativa, come dato sostanziale, piuttosto che al dato formale del contratto
di lavoro) o la loro effettiva remunerazione, rilevandone la sola potenziale
“redditività”.” (Cass. nn. 3122, 3121 e 3116 del 2021 cit.).
In conclusione, per le ragioni esposte il ricorso
deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in
dispositivo. Ai sensi dell’art. 13
comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto
per il ricorso a norma dell’art.13
comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in € 4.000,00 per
compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre
agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma I bis del citato
d.P.R., se dovuto.