Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 ottobre 2022, n. 31866

Lavoro, Collocazione in CIGS, Genericità dei criteri di
scelta, Illegittimità, Risarcimento dei danni

Rilevato che

 

con la sentenza impugnata è stata confermata la
pronuncia del Tribunale di Bari con la quale la “N. S.p.A.” é stata
condannata a risarcire i danni patiti da M.V.P. in misura pari alla differenza
tra la retribuzione spettante nel periodo dal 14 luglio 2008 al 15 ottobre 2015
ed il trattamento di integrazione salariale percepito, attesa la illegittimità
della sospensione e contestuale collocazione in CIGS del lavoratore;

per la cassazione della decisione ha proposto
ricorso la “N. S.p.A.”, affidato a undici motivi;

M.V.P. ha resistito con controricorso;

entrambe le parti hanno depositato memoria;

il P.G. non ha formulato richieste.

 

Considerato che

 

con il primo motivo la ricorrente – denunciando
nullità della sentenza per omessa pronuncia in ordine alla eccepita violazione
da parte del giudice di prime cure del disposto di cui all’art. 112 c.p.c., nonché mancanza dell’esposizione
delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, ex art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.
– si duole che il giudice di appello non si sia pronunciato sul motivo
incentrato sul rilievo che la sentenza di primo grado fosse entrata nel merito
della legittimità dei criteri di cui all’accordo del 10 ottobre 2013 (nonché
della relativa proroga), benché nel ricorso introduttivo non vi fosse nessuna
specifica censura sulla correttezza/legittimità di detti criteri, in relazione
alla posizione soggettiva del lavoratore;

con il secondo motivo – denunciando violazione e
falsa applicazione dell’art. 2948 c.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
– lamenta che il predetto giudice abbia ritenuto non assoggettati al termine di
prescrizione quinquennale il credito del lavoratore e l’azione di annullamento
dell’atto di gestione del rapporto;

con il terzo motivo – denunciando violazione o falsa
applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che
la Corte territoriale abbia omesso di considerare che l’inerzia del lavoratore
– tradottasi nella mancata assunzione di alcuna iniziativa volta a contestare i
provvedimenti datoriali e/o a rivendicare ipotetiche differenze retributive –
negli otto anni di collocazione in CIGS aveva determinato la perdita del
diritto;

con il quarto motivo – denunciando violazione o
falsa applicazione dell’art. 1219, primo comma,
c.c., in relazione all’art. 360, primo comma,
n. 3, c.p.c. – lamenta che la predetta Corte abbia ritenuto insussistente
l’obbligo, per il lavoratore, di costituire in mora il datore di lavoro,
mediante una intimazione o richiesta fatta per iscritto;

con il quinto motivo – denunciando nullità della
sentenza per motivazione apparente in ordine alla ritenuta illegittimità della
CIGS, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4,
c.p.c. – si duole che il giudice del gravame, dopo aver dato atto del
passaggio in giudicato dei capi di sentenza di primo grado relativi alle
richieste correlate agli accordi antecedenti a quello del 10 ottobre 2013 per
mancanza di impugnativa sul punto, abbia erroneamente assimilato quest’ultimo
accordo a quelli precedenti, da un lato obliterando la circostanza che
l’accordo in questione prevedeva, a differenza degli altri, i criteri di scelta
dell’anzianità di servizio, dei carichi di famiglia e delle esigenze tecnico
organizzative e produttive ai fini dell’individuazione dei lavoratori da
collocare in CIGS, nonché, dall’altro, omesso di valutare che il citato
accordo, sempre a differenza degli altri, non prevedeva un meccanismo di
rotazione;

con il sesto motivo – denunciando violazione o falsa
applicazione dell’art. 1, comma
7, della I. n. 223 del 1991, in relazione all’art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c. – lamenta che il predetto giudice, nella
parte in cui ha affermato che «le parti contrattuali si sono limitate a
richiamare i criteri di scelta dei lavoratori in esubero da licenziare nella
procedura di licenziamento collettivo di cui all’art. 5 della legge 223.1991»,
abbia omesso di considerare, da un lato, che la legge non prevede che in sede
di accordo debbano essere indicate le concrete modalità applicative dei criteri
di scelta e, dall’altro, che la genericità dei criteri deve ritenersi esclusa
ove siano richiamati i parametri individuati direttamente dal legislatore (che
ha evidentemente ritenuto gli stessi specifici), con la conseguenza che, nel
caso – attesa l’assenza di una diversa disposizione dell’accordo -, i criteri
in questione dovevano essere applicati in maniera concorrente (incidenza di 1/3
per ogni criterio);

con il settimo motivo – denunciando violazione o
falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
– si duole che la Corte territoriale abbia posto in capo al datore di lavoro un
onere che questi non aveva, in quanto la dimostrazione del mancato rispetto, da
parte del datore medesimo, dei principi generali di correttezza e buona fede
nella scelta dei lavoratori da sospendere, grava sul lavoratore – che, nel
caso, in primo grado non aveva sollevato alcuna contestazione specifica
sull’applicazione dei criteri di cui all’accordo nei propri confronti -, il
quale deve non solo provare l’esistenza di diversi criteri di selezione, ma
anche dimostrare che la loro applicazione avrebbe comportato la sospensione di
altro lavoratore;

con l’ottavo motivo – denunciando nullità della
sentenza per motivazione apparente, in relazione all’art.
360, primo comma, n. 4, c.p.c. – lamenta che la predetta Corte non abbia
tenuto conto del fatto che i criteri fissati erano stati oggetto di discussione
nell’ambito degli incontri tenutisi presso il Ministero del Lavoro e condivisi
con le 00.SS. firmatarie dell’accordo, così come evidenziato nell’atto di
appello, senza che detta circostanza sia stata oggetto di contestazione ad
opera della controparte;

con il nono motivo – denunziando nullità della
sentenza per omessa pronuncia in ordine alla applicabilità alla fattispecie del
disposto di cui all’art. 1227 c.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.
– si duole che il giudice di appello non si sia pronunciato sulla richiesta,
contenuta nell’atto di appello, di abbattimento del risarcimento “anche in
applicazione dell’art. 1227 c. c.”;

con il decimo motivo – denunziando violazione o
falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
– lamenta che il predetto giudice sia incorso nel vizio di extrapetizione, in
quanto, a fronte di una domanda del lavoratore volta all’accertamento
dell’illegittimità della sospensione e contestuale sua collocazione in CIGS,
avrebbe fondato la propria decisione di rigetto del motivo di gravame fondato
sulla necessità della rideterminazione del compendio risarcitorio – essendo
stata la società ammessa al trattamento di CIGS in ragione di provvedimenti
amministrativi validi ed efficaci, sicché i lavoratori, comunque, ruotando,
sarebbero stati collocati in CIGS, ancorché per un minor periodo rispetto al
sofferto – sulla base di una richiesta, mai formulata, di «disapplicazione
“incidenter tantum” del provvedimento amministrativo concessorio
della CIGS»;

con l’undicesimo motivo – denunciando nullità della
sentenza per motivazione apparente, in relazione all’art.
360, primo comma, n. 4, c.p.c. – si duole che la Corte territoriale abbia
rigettato la richiesta di divisione matematica del periodo di CIGS tra tutti i
dipendenti, e di conseguente riduzione del compendio risarcitorio, con
motivazione apparente, ossia sul presupposto della «violazione delle (…)
disposizioni sulla indicazione e sulla comunicazione alle organizzazioni
sindacali di adeguati criteri di scelta del personale da sospendere e di
adozione di meccanismi di rotazione nella sospensione», attesa, per converso,
la legittimità dei criteri determinati in sede di accordo sottoscritto in data
10 ottobre 2013 fra società e 00.SS e la previsione di non dar corso alla
rotazione.

 

Ritenuto che

 

il primo motivo è da disattendere, poiché, quanto al
dedotto vizio di omessa pronunzia, vale il principio che esso non è
configurabile su questioni processuali (cfr., tra le altre, Cass. 25/01/2018,
n. 1876);

peraltro, alla p. 8 della impugnata sentenza si
legge che «Vanamente la N. deduce che non è stata censurata dagli istanti la
legittimità dei criteri né sono stati addotti presunti profili di
discriminazione o violazione dei principi di correttezza e buona fede. I
lavoratori hanno denunciato l’assoluta genericità dei criteri di cui agli
accordi – di per sé violativi degli obblighi di trasparenza di cui si è detto a
fronte di scelte datoriali non verificabili – al di là delle modalità attuative
adottate, discrezionalmente, dalla società»; sicché vi è risposta al motivo di
gravame, con motivazione che certamente soddisfa i requisiti normativamente
previsti;

il secondo motivo è inammissibile nella parte in cui
è introdotta la questione della prescrizione quinquennale dell’azione di
annullamento dell’atto di gestione del rapporto, non risultando dal ricorso per
cassazione (né dalla sentenza impugnata) che la questione predetta sia stata
fatta oggetto di gravame in appello; per il resto, il motivo è da disattendere
in quanto, per giurisprudenza costante, la richiesta del lavoratore di
risarcimento danni per l’illegittima sospensione a seguito di collocamento in
CIGS ha ad oggetto un credito da inadempimento contrattuale (costituito
dall’atto di gestione del rapporto non conforme alle regole), soggetto all’ordinaria
prescrizione decennale (così, tra le altre, Cass.
13/12/2010, n. 25139; v., da ultimo, Cass.
20/04/2021, n. 10376, in motivazione);

il terzo motivo va disatteso, perché l’orientamento
nettamente prevalente di questa Corte è nel senso che la mera inerzia non è
sufficiente a determinare la perdita del diritto in capo al creditore,
occorrendo un “quid pluris” che valga ad esprimere una chiara e certa
volontà abdicativa (cfr., sul punto, Cass.
21/09/2011, n. 19235: «In materia di cassa integrazione guadagni
straordinaria, la mancata iniziativa del lavoratore diretta a sollecitare
l’attuazione della clausola di rotazione non preclude il diritto del medesimo
di far valere la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per
l’inadempimento di detta clausola (non riconducibile alla figura del contratto
a favore di terzo), poiché la mera inerzia ad esercitare un proprio diritto non
prova di per sé una volontà abdicativa, dovendo ogni rinuncia essere espressa o
ricavarsi da condotte univoche. Né può ritenersi che la non immediata
proposizione dell’azione risarcitoria integri una concausa del verificarsi del
fatto generatore del danno e, quindi, giustifichi una riduzione del
risarcimento a norma dell’art. 1227 c.c.»; v.,
altresì, di recente, Cass. 5/02/2018, n. 2739: «La rinuncia ad un diritto oltre
che espressa può anche essere tacita; in tale ultimo caso può desumersi soltanto
da un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco la sua
effettiva e definitiva volontà abdicativa;

al di fuori dei casi in cui gravi sul creditore
l’onere di rendere una dichiarazione volta a far salvo il suo diritto di credito,
il silenzio o l’inerzia non possono essere interpretati quale manifestazione
tacita della volontà di rinunciare al diritto di credito, la quale non può mai
essere oggetto di presunzioni»; in senso analogo v. Cass.
13/02/2020, n. 3657: «La rinuncia al compenso da parte dell’amministratore
può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli
in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto; a tal fine è
pertanto necessario che l’atto abdicativo si desuma non dalla semplice mancata
richiesta dell’emolumento, quali che ne siano le motivazioni, ma da circostanze
esteriori che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno
tenuto»);

il quarto motivo è inammissibile, non risultando dal
ricorso per cassazione che la questione sia stata fatta oggetto di gravame, né
l’effettuato esame della stessa emerge dalla sentenza impugnata, nella quale è
affrontato il solo tema della mancata offerta della prestazione lavorativa,
mediante il corretto richiamo a Cass. 4/05/2009,
n. 10236 (ove è affermato che «In caso di intervento straordinario di
integrazione salariale per l’attuazione di un programma di ristrutturazione,
riorganizzazione o conversione aziendale che implichi una temporanea eccedenza
di personale, ove il provvedimento di sospensione dall’attività lavorativa sia
illegittimo, è questo stesso atto negoziale unilaterale, con il rifiuto di
accettare la prestazione lavorativa, a determinare la “mora credendi”
del datore di lavoro; ne consegue che il lavoratore non è tenuto ad offrire la
propria prestazione ed il datore medesimo è tenuto a sopportare il rischio
dell’estinzione dell’obbligo di esecuzione della prestazione»);

il quinto motivo è da rigettare, poiché la sentenza
impugnata esplicita chiaramente le ragioni della ritenuta genericità dei
criteri di scelta (cfr., tra l’altro, il seguente passo della motivazione, non
riportata nel motivo: «Nella specie, gli accordi fanno riferimento a esigenze tecnico-organizzative
connesse al piano di riorganizzazione ma senza alcuna indicazione dei criteri
in base ai quali individuare i singoli soggetti che, in ragione di quelle
esigenze, andavano, di volta in volta, sospesi. (…) il datore di lavoro ha
adottato un criterio totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile
dal generico richiamo alle esigenze tecnico-produttive e, per certi aspetti,
anche arbitrario (…). In definitiva, la N. ha autonomamente individuato i
lavoratori da sospendere senza aver dovuto rispettare predeterminati criteri
che stabilissero le priorità tra i vari parametri considerati – anzianità,
carichi, esigenze produttive -, le modalità applicative dei criteri medesimi,
la platea dei soggetti interessati in riferimento alle qualifiche possedute e
alle concrete mansioni esercitate in funzione degli obiettivi aziendali di
risanamento e riorganizzazione»);

il sesto motivo è inammissibile, già sol perché non
si confronta con la intera motivazione della sentenza impugnata, la quale, con
riguardo al parametro delle esigenze tecnico-organizzative, ha evidenziato che
«La prova evidente dell’assoluta genericità dei criteri è nelle stesse
giustificazioni addotte dall’appellante con l’atto di gravame: “… N. ha
quindi provveduto ad assegnare un punteggio per ciascuno dei tre criteri di cui
sopra (anzianità aziendale, carichi di famiglia, esigenze organizzative) a
tutti i lavoratori aventi mansioni fungibili, sospendendo coloro i quali, nella
ponderazione dei tre criteri di cui sopra (ciascuno con rilevanza di 1/3 ai
fini della graduatoria) avessero un punteggio più basso … Con riferimento al
criterio delle esigenze tecnico – organizzative, veniva assegnato il punteggio
11,11 se in caso di operaio generico ovvero di 33,33 se polivalente ovvero se
specializzato di 22,22”. Dunque, il datore di lavoro ha adottato un
criterio totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile dal generico
richiamo alle esigenze tecnico-produttive e, per certi aspetti, anche
arbitrario (La qualifica di polivalente, ad esempio, come e da chi è stata
accertata? Con quali criteri è stata attribuita tale qualifica? Perché
l’operaio polivalente andava preferito rispetto all’operaio generico o
specializzato, avuto riguardo alle esigenze riorganizzative?)»; sicché la
illegittimità è stata ravvisata, in primo luogo, nell’attribuzione
assolutamente discrezionale dei predetti punteggi, che ha inevitabilmente
alterato l’applicazione in maniera concorrente dei tre richiamati criteri;

il settimo motivo è inammissibile perché,
riproponendo in parte le censure già contenute nel primo motivo (e sopra
disattese), di nuovo non si misura con la “ratio decidendi” della
sentenza impugnata, imperniata non sul mancato rispetto di criteri di scelta,
bensì sulla previsione di criteri generici e, quindi, illegittimamente
adottati;

l’ottavo motivo è inammissibile, poiché con esso – a
fronte di una motivazione che soddisfa (tenuto conto dei passaggi sopra
riportati) i requisiti minimi di cui all’art. 132
c.p.c. – si mira ad introdurre impropriamente il vizio di omesso esame di
una circostanza (“id.est.”: discussione dei criteri nell’ambito degli
incontri tenutisi presso il Ministero del Lavoro) non decisiva, essendo la
sentenza incentrata sull’assoluta genericità dei criteri (per come sopra
visto);

il nono motivo è inammissibile, non emergendo dal
ricorso che già in primo grado la ricorrente ebbe a dedurre l’applicabilità
(come noto esclusa, in materia, da costante giurisprudenza; cfr., sul punto, Cass. n. 19235 del 2011, sopra citata) dell’art. 1227, secondo comma, c.c., oppure che la
questione (non rilevabile di ufficio; cfr., tra le altre, Cass. 19/07/2018, n.
19218) ebbe ad essere comunque esaminata nel detto grado;

il decimo motivo è inammissibile, poiché esso si
risolve, sul punto, in una mera critica all’impianto argomentativo del giudice
di merito imperniato su una statuizione di questa Corte (sulla quale v. subito
“infra”, ove è contenuto il riferimento alla «disapplicazione
“incidenter tantum” del provvedimento amministrativo concessorio
della CIGS»), senza che possa in alcun modo ravvisarsi l’emissione di una
pronuncia non in linea con la pretesa fatta valere in giudizio;

l’ultimo motivo è infine da rigettare, poiché sulla
questione della divisione matematica del periodo di CIGS tra tutti i dipendenti
il giudice del gravame ha reso effettiva motivazione citando un precedente di
questa Corte (Cass. 29/09/2011, n. 19618, ove
si legge che «In materia di cassa integrazione guadagni straordinaria,
l’illegittimità del provvedimento concessorio dell’intervento di integrazione
salariale in ragione della mancata indicazione e comunicazione alle
organizzazioni sindacali dei criteri di scelta dei lavoratori da sospendere –
di rotazione ovvero, ove tale meccanismo non sia stato adottato per ragioni di
ordine tecnico e organizzativo ritenute meritevoli di accoglimento, dei criteri
alternativi determinati ai sensi dell’art. 1, comma 8, legge n. 223 del
1991 – comporta l’illegittimità della sospensione operata dal datore di
lavoro dei lavoratori stessi, i quali, vantando una posizione di diritto
soggettivo, possono chiedere al giudice ordinario l’accertamento, previa
disapplicazione “incidenter tantum” del provvedimento amministrativo
di concessione della c.i.g.s., dell’inadempimento del datore di lavoro in
ordine all’obbligazione retributiva alla stregua dell’ordinario regime previsto
dall’art. 1218 c.c., essendo venuta meno, quale
ragione d’esonero dalle conseguenze dell’inadempimento, l’elevazione al livello
dell’impossibilità della prestazione delle situazioni di ristrutturazione, riorganizzazione
e riconversione industriale») ed aggiungendo che «la N. non ha neanche provato
che ricorrevano tutti i presupposti per la messa in CIGS (anche) della parte
ricorrente e per quanto tempo»;

la motivazione, sul punto, non si rivela apparente,
in quanto chiarisce che, a fronte della genericità dei criteri adottati per la
messa in CIGS del dipendente, e, quindi della illegittimità della sospensione,
sarebbe stato onere della società provare le condizioni dell’ipotetico
abbattimento del risarcimento derivante dall’applicazione di un periodo di
cassa integrazione;

senza contare che la stessa censura – imperniata sul
rilievo che la questione non necessitava di alcuna prova “trattandosi di
conseguenze automatiche di fatti pacifici” – è mal posta, poiché, da un
lato, essa denunzia, nella sostanza, una errata applicazione del principio
dell’onere della prova in materia, e, dall’altro (ciò che più conta), non
illustra in maniera intelligibile, in primo luogo, in qual modo il ricorrente
avrebbe potuto essere comunque collocato legittimamente in CIGS a fronte della
accertata genericità dei criteri, e, in secondo, come avrebbe potuto
determinarsi in concreto l’ipotetico (e non plausibile, per quanto appena
detto) abbattimento della posta risarcitoria;

le spese del presente giudizio, liquidate come in
dispositivo, seguono la soccombenza;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13,
se dovuto

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese, che liquida in euro 4.000,00 per compensi e in euro
200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1- bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 ottobre 2022, n. 31866
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