Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 ottobre 2022, n. 31545

Professionista, Ingegnere, Iscrizione d’ufficio alla
Gestione separata, Omessi contributi, Prescrizione, Decorrenza,
Rilevabilità d’ufficio

Fatti di causa

 

La Corte d’appello di Catanzaro ha respinto il
gravame dell’INPS avverso la decisione di primo grado che aveva dichiarato
illegittima l’iscrizione di R.M. alla Gestione separata, in relazione
all’attività libero professionale dal medesimo svolta quale ingegnere non
iscritto all’INARCASSA, presso cui versava solo il contributo integrativo;

in particolare, ha dichiarato prescritto il credito
contributivo vantato dall’Istituto, per l’anno 2009, avendo l’INPS richiesto il
pagamento il 30.6.2015, decorso il termine quinquennale che decorreva dalla
scadenza per il pagamento dei contributi e che, nella specie, andava fissato al
16.6.2010.

Avverso tale sentenza l’INPS ha proposto ricorso per
cassazione, affidato ad un unico motivo, cui ha resistito con controricorso
R.M..

La Sesta sezione di questa Corte di Cassazione, con
ordinanza n. 11144 del 2022, ha disposto la rimessione della causa alla Sezione
lavoro.

La causa è stata tuttavia trattata in camera di
consiglio, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle
parti, in quanto nessuno degl’interessati ha formulato istanza di discussione
orale ai sensi dell’art. 23,
comma 8-bis, del decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137, inserito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176.

 

Ragioni della decisione

 

Con l’unico motivo di ricorso l’INPS ha dedotto„ ai
sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione
dell’art. 2935 c.c. e art. 2941 c.c., n. 8 in relazione alla L. n. 335 del 1995, art. 2, commi 26
– 31, al D.L. n. 98 del 2011,
art. 18, comma 12, conv. dalla L. n. 111 del
2011, al D.Lgs. n. 462 del
1997, art. 1, e al D.Lgs. n.
241 del 1997, art. 10, comma 1.

Ha rilevato che l’attuale controricorrente, nella
dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2009, ha omesso di compilare il
“Quadro RR” necessario per la determinazione dei contributi dovuti,
così eludendo il relativo controllo automatico da parte degli uffici
finanziari.

Ha sostenuto, richiamando l’ordinanza della S.C. n. 6677 del 2019 e le
successive ordinanze n. 19403 del 2019 e n.
30605 del 2019, come l’omessa compilazione del “Quadro RR” integrasse
una condotta dolosa dei professionista di occultamento del debito contributivo,
con la conseguenza che il corrispondente diritto dell’Istituto non potesse
considerarsi prescritto per l’operare della sospensione di cui all’art. 2941 c.c., n. 8.

Nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., l’INPS ha chiesto
l’accoglimento del ricorso sul rilievo che non fosse maturata la prescrizione
del credito contributivo, in ragione del differimento al 6.7.2010 del termine
di versamento come disposto dal D.P.C.M. 10 giugno
2010, per i redditi 2009.

Il ricorso è fondato, nei termini e per i motivi di
seguito precisati.

La questione rimessa dall’ordinanza interlocutoria
concerne il tema della prescrizione dei contributi dovuti alla Gestione
separata, sul quale sono oramai costanti gli orientamenti di questa Corte,
confermati di recente con enunciazioni di principio che devono essere anche in
questa sede ribadite.

La prescrizione decorre «dal momento in cui scadono
i termini per il relativo pagamento e non già dalla data di presentazione della
dichiarazione dei redditi ad opera del titolare della posizione assicurativa
(così, tra le tante, Cass. nn. 27950 del 2018, 19403
del 2019, 1557 del 2020): l’obbligazione contributiva nasce infatti in
relazione ad un preciso fatto costitutivo, che è la produzione di un certo
reddito da parte del soggetto obbligato, mentre la dichiarazione che costui è
tenuto a presentare ai fini fiscali, che è mera dichiarazione di scienza, non è
presupposto del credito contributivo, così come non lo è rispetto
all’obbligazione tributaria» (sentenza n. 10273
del 2021, cit.; in senso conforme, anche Cass., sez. lav., 3 giugno 2022,
n. 17970, punto 14).

Per quanto il debito contributivo sorga sulla base
della produzione di un certo reddito, la prescrizione dell’obbligazione decorre
dal momento in cui scadono i relativi termini di pagamento, come dispone l’art. 55 del regio decreto-legge 4
ottobre 1935, n. 1827, convertito, con modificazioni, nella legge 6 aprile
1936, n. 1155: i contributi obbligatori si prescrivono «dal giorno in cui i
singoli contributi dovevano essere versati».

I termini di versamento dei contributi sono definiti
dall’art. 18, comma 4, del
decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241: «i versamenti a saldo e in
acconto dei contributi dovuti agli enti previdenziali da titolari di posizione
assicurativa in una delle gestioni amministrate da enti previdenziali sono
effettuati entro gli stessi termini previsti per il versamento delle somme
dovute in base alla dichiarazione dei redditi».

Quanto ai termini per il versamento delle somme
dovute in base alla dichiarazione dei redditi, cui sono ancorati anche i
termini per il pagamento dei contributi, riveste importanza essenziale l’art. 12, comma 5, del menzionato
d.lgs. n. 241 del 1997.

La disposizione citata demanda a un decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri la possibilità di modificare i termini
riguardanti gli adempimenti dei contribuenti relativi a imposte e contributi
dovuti in base allo stesso decreto, tenendo conto delle esigenze generali dei
contribuenti, dei sostituti e dei responsabili d’imposta o delle esigenze
organizzative dell’amministrazione.

Il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri
rinviene dunque un inequivocabile fondamento normativo nella fonte primaria che
ne autorizza l’intervento e si configura come un atto di natura regolamentare,
in quanto concorre ad attuare e a integrare le previsioni del d.lgs. n. 241 del 1997 (sentenza n. 17970 del
2022, cit., punto 18; di recente, sempre in ordine ai D.P.C.M. in esame, Cass.,
sez. lav., 3 agosto 2022, n. 24047, punto 23, e Cass.,
sez. VI-L, 15 luglio 2022, n. 22336, e 11
luglio 2022, n. 21816).

Quanto ai contributi relativi all’anno 2009, viene
in rilievo il decreto del Presidente del Consiglio
dei ministri 10 giugno 2010, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 141 del
19 giugno 2010.

L’art.
1, comma 1, del citato D.P.C.M. così stabilisce: «I contribuenti tenuti ai
versamenti risultanti dalle dichiarazioni dei redditi e da quelle in materia di
imposta regionale sulle attività produttive entro il 16 giugno 2010, che
esercitano attività economiche per le quali sono stati elaborati gli studi di
settore di cui all’art. 62-bis del
decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331 convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, e che dichiarano
ricavi o compensi di ammontare non superiore al limite stabilito per ciascuno
studio di settore dal relativo decreto di approvazione del Ministro
dell’economia e delle finanze, effettuano i predetti versamenti: a) entro il 6
luglio 2010, senza alcuna maggiorazione; b) dal 7 luglio 2010 al 5 agosto 2010,
maggiorando le somme da versare dello 0,40 per cento a titolo di interesse
corrispettivo».

Si deve avere riguardo al primo termine del 6 luglio
2010, che la fonte regolamentare stabilisce per il pagamento dell’importo
dovuto, senza maggiorazioni di sorta: è da tale momento che sorge l’obbligo
contributivo e l’INPS può dunque far valere i propri diritti.

Quanto alla latitudine soggettiva del differimento,
questa Corte, alla luce dell’univoco dettato letterale della previsione
regolamentare, ha chiarito che ne beneficiano tutti i contribuenti, allorché
esercitano attività economiche per le quali sono stati elaborati gli studi di
settore. Il differimento, dunque, non si applica soltanto a «coloro che, in
concreto, alle risultanze di tali studi fossero fiscalmente assoggettati per
non aver scelto un diverso regime d’imposizione» (sentenza
n. 10273 del 2021, cit.).

Pertanto, «ciò che rileva, ai fini di detto
differimento, è il dato oggettivo dello svolgimento di un’attività economica
riconducibile tra quelle per le quali siano state elaborati studi di settore e
non la condizione soggettiva del singolo professionista di effettiva
sottoposizione al regime fiscale derivante dall’adesione alle risultanze degli
studi medesimi» (Cass., sez. VI-L, 11 agosto 2022, n. 24668; nello stesso
senso, fra le molte, Cass., sez. VI-L, 26 luglio
2022, n. 23314 e n. 23309, punto 8, e Cass.,
sez. VI-L, 15 luglio 2022, n. 22336).

La sentenza impugnata, nel far decorrere la
prescrizione dal 16 giugno 2010, ha trascurato di tener conto del differimento
al 6 luglio 2010, applicabile in base alle richiamate previsioni regolamentari,
inscindibilmente connesse con la fonte primaria.

L’unico motivo di ricorso si appunta sulla
sospensione della prescrizione. Il tema del dies a quo del relativo termine
risulta prospettato nella memoria depositata in vista dell’adunanza camerale ai
sensi dell’art. 380-bis, secondo comma, cod. proc.
civ. L’ordinanza interlocutoria ha rimesso la causa a questa sezione allo
scopo di valutare se, a fronte d’un ricorso così strutturato, sia rilevabile
d’ufficio in questa sede – o sia per contro preclusa dal “giudicato
interno” – la questione della corretta individuazione della decorrenza del
termine di prescrizione dei contributi.

L’individuazione del dies a quo della prescrizione
non soltanto ha priorità logica rispetto al tema della sospensione, posto
dall’unico motivo di ricorso, ma si rivela anche dirimente: la considerazione
del dies a quo sancito dalla legge (6 luglio 2010) renderebbe efficace l’atto
interruttivo ricevuto il 10 luglio 2015 e potenzialmente superflua quella
disamina sulla sospensione che il motivo di ricorso sottende.

La questione rimessa alla pubblica udienza, che
trascende il contenzioso sulla contribuzione previdenziale, si profila con
caratteri peculiari, che non consentono di evincere elementi risolutivi dalle
pronunce menzionate dall’Istituto nella memoria illustrativa depositata in
prossimità dell’udienza.

Nelle controversie decise con tali pronunce (Cass.,
sez. VI-L, 18 febbraio 2022, n. 5312, 3 febbraio 2022, n. 3457, e 14 ottobre
2021, n. 28123; Cass., sez. lav., 8 novembre 2021, n. 32467, 19 aprile 2021, n. 10273, e 23 febbraio 2021, n. 4899), l’individuazione del
dies a quo della prescrizione formava oggetto di uno specifico motivo di
ricorso e risultava dunque – senz’ombra di dubbio – controversa.

Nel presente giudizio, le doglianze non investono ex
professo l’identificazione del dies a quo del termine applicabile. Tale
specificità ha generato i dubbi interpretativi, che sono all’origine della
scelta di rimettere la causa alla pubblica udienza e di sollecitare così
l’apporto dialettico del Pubblico Ministero e delle parti.

L’analisi deve prendere le mosse dai tratti
distintivi della prescrizione, che si riverberano anche sui profili processuali
della rilevabilità d’ufficio e del giudicato interno, d’importanza cruciale ai
fini dell’inquadramento dell’odierna questione.

Elemento costitutivo della prescrizione (art. 2934 cod. civ.) è l’inerzia del titolare del
diritto per il tempo determinato dalla legge (Cass.,
S.U., 25 luglio 2002, n. 10955).

La parte, alla cui iniziativa l’eccezione è
riservata (art. 2938 cod. civ.), ha soltanto
l’onere di allegare tale elemento costitutivo e di manifestare la volontà di
profittare dell’effetto estintivo che scaturisce dal protrarsi dell’inattività
(da ultimo, Cass., S.U., 13 giugno 2019, n. 15895, in tema di azione di
ripetizione di somme indebitamente pagate nel rapporto di conto corrente).

La determinazione della durata, necessaria per il
verificarsi dell’estinzione, si configura come una quaestio iuris connessa
all’identificazione del diritto stesso e del regime prescrizionale delineato
dalla legge (sentenza n. 10955 del 2002, cit.).

Spetta al giudice sussumere l’inerzia nel pertinente
schema normativo astratto, che può divergere da quello indicato dalle parti e
così condurre all’individuazione di un termine più esiguo o più ampio (Cass.,
sez. III, 7 maggio 2021, n. 12182).

Come quaestio iuris si atteggia anche
l’individuazione del momento iniziale della prescrizione, che costituisce il
fulcro della questione prospettata con l’ordinanza interlocutoria. Il giudice è
chiamato a valutare d’ufficio il momento iniziale, senza essere vincolato dalle
deduzioni delle parti (di recente, Cass., sez. lav., 3 agosto 2022, n. 24047,
punto 21; Cass., sez. VI-L, 10 novembre 2021, n. 33169, punto 10).

L’erronea individuazione del termine applicabile,
del suo inizio o del suo epilogo, non inficia, pertanto, la valida proposizione
dell’eccezione (Cass., sez. lav., 27 ottobre 2021, n. 30303; Cass., sez. I, 27
luglio 2016, n. 15631), in quanto involge aspetti eminentemente giuridici,
rimessi per loro natura al vaglio del giudice (iura novit curia).

Tale vaglio s’impone anche in sede di legittimità, a
condizione che non siano necessari accertamenti di fatto. Accertamenti che il
caso di specie non richiede, poiché l’exordium praescriptionis è sancito una
volta per tutte, con portata generale, da un atto normativo.

Rilevabili d’ufficio, purché emergano dalle prove
acquisite, sono anche gli ulteriori profili che attengono alla durata e al
decorso del termine. Integrano dunque eccezioni in senso lato, per
giurisprudenza consolidata, i fatti interruttivi (Cass.,
S.U,, 27 luglio 2005, n. 15661) e le cause di sospensione (Cass., sez. II,
30 settembre 2016, n. 19567).

In tal senso milita la considerazione che le
eccezioni siano riservate alla parte solo quando la manifestazione della sua
volontà sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della
fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla
titolarità di un’azione costitutiva), ovvero quando singole disposizioni
espressamente contemplino come indispensabile l’iniziativa di parte. In ogni
altro caso, si devono ritenere rilevabili d’ufficio i fatti modificativi,
impeditivi o estintivi che risultano dal materiale probatorio legittimamente
acquisito (Cass., S.U., 3 febbraio 1998, n. 1099).

La rilevabilità d’ufficio è funzionale alla
salvaguardia della giustizia della decisione (Cass.,
S.U., 7 maggio 2013, n. 10531). Esigenza che si coglie in termini ancor più
pregnanti nella materia previdenziale, permeata da interessi che travalicano i
diritti individuali e perciò contraddistinta dal ruolo strategico dello Stato (art. 38, terzo comma, Cost.), chiamato ad
assicurare, in una prospettiva solidaristica e di più efficace tutela degli
stessi diritti dei singoli, la sostenibilità del sistema complessivamente
inteso.

Una volta che sia stato dedotto l’elemento
costitutivo dell’eccezione di prescrizione, sarà il giudice, pertanto, anche in
sede di legittimità, a individuare la disciplina appropriata e a scrutinare i
fatti che incidono sulla durata del termine di prescrizione, al fine di
verificare se sia decorso invano il tempo «determinato dalla legge» in base a
una normativa che la legge stessa qualifica come inderogabile (art. 2935 cod. civ.).

Né la rilevabilità d’ufficio stride con l’esigenza,
posta in risalto dalle conclusioni motivate del Pubblico Ministero, di una
rituale introduzione del tema della prescrizione nella dialettica del processo.

È ben vero che la parte, nell’allegare l’inattività
del titolare del diritto, ha l’onere di specificare le coordinate temporali e
le circostanze di fatto che la connotano.

Dev’essere condiviso, pertanto, l’orientamento
richiamato dal Pubblico Ministero:

allorché sia eccepita la prescrizione concernente la
fase anteriore alla notificazione delle cartelle esattoriali, non si può
rilevare d’ufficio la prescrizione maturata in epoca successiva alla
notificazione (Cass., sez. VI-L, 23 maggio 2019, n. 14135).

La ratio decidendi della pronuncia citata s’incentra
sulla diversità del contesto temporale in cui la fattispecie estintiva si
colloca. Tale diversità non tocca il mero profilo della qualificazione
giuridica, che è appannaggio del giudice: quel che muta, in questo frangente, è
proprio il fatto dell’inerzia, storicamente delineato, che costituisce
l’elemento costitutivo dell’eccezione di prescrizione.

Nell’odierno giudizio, per contro, non muta
l’elemento costitutivo dell’eccezione, che si sostanzia pur sempre nella
prolungata inattività dell’Istituto nella riscossione dei contributi.

Non mutano neppure i fatti che permettono
l’esercizio del diritto e dunque determinano la decorrenza della prescrizione,
in correlazione con la scadenza del termine per il versamento dei contributi.

Oggetto di disputa è solo la disciplina legale che
regola tale termine e che concorre dunque a definire il tempo «determinato
dalla legge» (art. 2934 cod. civ.),
indispensabile per il compiersi della prescrizione.

L’individuazione d’una diversa scadenza non esorbita
dunque dai fatti ritualmente allegati e non ne altera il nucleo essenziale:
essa investe la qualificazione giuridica dei fatti, sui quali il
contraddittorio processuale ha avuto modo di dispiegarsi appieno.

La rilevabilità d’ufficio non contraddice, pertanto,
le condizioni di specifica e tempestiva allegazione degli elementi costitutivi
dell’eccezione.

Permane inalterato, peraltro, anche il regime di
prescrizione applicabile, con il correlato termine quinquennale.

Qualificata come quaestio iuris l’individuazione del
dies a quo della prescrizione, il punto nodale è se la mancata impugnazione
delle statuizioni adottate a tale riguardo dalla Corte di merito determini il
formarsi di un giudicato, idoneo a precludere il rilievo d’ufficio.

La regola della rilevabilità d’ufficio di
determinate questioni, in ogni stato e grado del processo, dev’essere
coordinata con i principi che governano il sistema delle impugnazioni e opera
solo quando, su tali questioni, non si sia formato il giudicato interno, atto a
precluderne in radice l’ulteriore esame.

Anche per quel che concerne la materia
previdenziale, tale regola è stata ribadita a più riprese: il giudicato interno
costituisce un limite al rilievo ufficioso nel caso di questioni inerenti al
difetto di legittimazione passiva (Cass., sez.
lav., 21 dicembre 2021, n. 41019), all’improponibilità della domanda
giudiziale per la mancata presentazione della domanda amministrativa di
prestazione previdenziale o assistenziale (Cass.,
sez. lav., 29 dicembre 2004, n. 24103), alla decadenza sostanziale per
l’inosservanza del termine di centoventi giorni previsto, con riguardo alla
disoccupazione agricola, dall’art.
22 del decreto-legge 3 febbraio 1970, n. 7, convertito, con modificazioni,
nella legge 11 marzo 1970, n. 83 (Cass., sez.
VI-L, 25 agosto 2020, n. 17653).

In relazione alle fattispecie di volta in volta
scrutinate e alla struttura che ciascuna di esse presenta, occorre enucleare
quale sia la singola statuizione suscettibile di acquisire, nel contesto della
decisione, la stabilità del giudicato.

A tale riguardo, soccorrono gli artt. 329, secondo comma, e 336, primo comma, cod. proc. civ.: dettate
nell’ambito della disciplina generale sulle impugnazioni (Libro II, Titolo III,
Capo I), tali previsioni devono essere inquadrate in una prospettiva
sistematica.

In virtù della prima disposizione, l’impugnazione su
una parte della sentenza implica acquiescenza «alle parti della sentenza non
impugnate», con conseguente formazione del giudicato.

Di “parte della sentenza” discorre anche
la seconda previsione, che estende gli effetti della riforma o della cassazione
parziale alle parti della sentenza che dipendono dalla parte riformata o
cassata. L’impugnazione della parte principale della decisione impedisce la
formazione del giudicato interno sulla parte che da essa dipende, in virtù di
un nesso di causalità imprescindibile (Cass., S.U., 27 ottobre 2016, n. 21691).

Dalla connessione tra le disposizioni richiamate,
traspare che la parte non impugnata d’una sentenza ha il crisma del giudicato
allorché si riscontrino due condizioni, l’una positiva e l’altra negativa: essa
si deve fondare su presupposti di fatto e di diritto diversi e autonomi
rispetto alla parte impugnata e alla parte impugnata non dev’essere legata da
alcun rapporto di pregiudizialità o di consequenzialità.

Ciò posto, si deve puntualizzare che il giudicato
non si forma sulla singola affermazione di diritto o sull’accertamento d’un
fatto, ma sulla statuizione che afferma l’esistenza di un fatto, dopo averlo
sussunto entro una norma che al fatto ricolleghi un dato effetto giuridico
(Cass., sez. lav., 8 aprile 2000, n. 4478; in senso conforme, Cass., sez. lav.,
20 dicembre 2006, n. 27196).

Il giudicato cade, pertanto, sull’unità minima di
decisione, che si compone della sequenza fatto, norma ed effetto e risolve,
nell’ambito della controversia, una questione dotata d’una propria autonomia e
d’una propria individualità.

Ne consegue che, sebbene ciascun elemento della
sequenza possa essere oggetto di censura, nondimeno l’impugnazione motivata
anche in ordine a uno solo di essi riapre la cognizione sull’intera statuizione
(Cass., sez. lav., 4 febbraio 2016, n. 2217).

L’impugnazione conferisce al giudice il potere di
riconsiderare e riqualificare la fattispecie anche relativamente agli aspetti
che, pur coessenziali, non siano stati singolarmente censurati, neppure in via
implicita (Cass., sez. III, 16 maggio 2017,, n. 12202).

Nel declinare tali principi con riguardo alla
prescrizione, questa Corte ha affermato che «Le questioni il cui esame può
essere precluso dal giudicato interno non sono […] costituite dai singoli
quesiti su fatto, norma ed effetto che ogni domanda ed ogni eccezione pongono
al giudice, ma dalla loro congiunzione. La statuizione sulla quale poteva
formarsi nella specie il giudicato era quindi quella avente ad oggetto la
fattispecie prescrizione: l’inerzia del titolare e l’idoneità concreta della
stessa ad estinguere il diritto.

Ma la deduzione da parte del ricorrente di fatti
impeditivi della prescrizione ha sottratto tale statuizione al giudicato
interno» (Cass., sez. lav., 29 ottobre 1998, n. 10832).

Il giudicato dunque si forma sulla statuizione che
concerne la fattispecie della prescrizione, considerata nella sua unità
indissolubile e nella sua idoneità a estinguere il diritto, dopo il decorso di
un tempo che non può essere disarticolato negli elementi che intervengono a
definirlo.

Non assurge, per contro, alla stabilità del
giudicato l’affermazione sui singoli e irrelati segmenti della fattispecie,
che, di per sé soli, sono inidonei a produrre qualsiasi effetto giuridicamente
rilevante e, solo nel loro interagire, assumono significato nel mondo del
diritto.

In consonanza con tali indicazioni, questa Corte ha
specificato che, ove s’impugni la sentenza che ha dichiarato prescritto il
diritto per violazione della disciplina concernente l’interruzione, anche in
sede di legittimità si può estendere la verifica a tutti i punti in cui è
possibile scomporre la decisione sulla prescrizione: il principio “iura
novit curia” può e deve trovare applicazione nell’intero ambito della
parte di sentenza non coperta dal giudicato interno (Cass., sez. lav., 21
dicembre 1999, n. 14421, e, sempre con riguardo all’interruzione della
prescrizione, Cass., sez. III, :10 luglio 2013, n. 17066).

Tali conclusioni si attagliano anche all’ipotesi in
cui le doglianze riguardino le cause di sospensione della prescrizione, che
interferiscono con il decorso del termine e ne influenzano la complessiva
durata.

La sospensione del termine di prescrizione e la corretta
identificazione del termine iniziale di decorrenza non rappresentano profili
distinti, avulsi l’uno dall’altro. La sospensione della prescrizione non può
che essere valutata rispetto a un termine correttamente individuato nel suo
esordio.

Solo dal momento in cui il diritto può esser fatto
valere e dunque prende avvio la prescrizione, si possono apprezzare eventuali
fatti idonei a sospenderne il corso.

Pertanto, l’impugnazione del profilo consequenziale
della sospensione mantiene ancora viva e controversa anche la questione
concernente l’identificazione del dies a quo e anche su tale tema si riespande
la cognizione di questa Corte, chiamata a individuare l’esatto diritto
applicabile alla luce degli elementi ritualmente allegati.

Erroneamente, dunque, la Corte territoriale ha fatto
decorrere il termine di prescrizione dal 16 giugno 2010, senza tener conto del
differimento al 6 luglio 2010, sancito dall’art. 1, comma 1, del D.P.C.M. 10
giugno 2010.

Si deve enunciare, in conclusione, il seguente
principio di diritto: «Una volta che la sentenza d’appello sia stata impugnata
per violazione della disciplina sulla sospensione della prescrizione (nella
specie, con riguardo all’occultamento doloso del debito contributivo, ai sensi
dell’art. 2941, primo comma, n. 8, cod. civ.),
l’intera fattispecie della prescrizione, anche con riguardo alla decorrenza del
dies a quo, rimane sub iudice e rientra, pertanto, nei poteri del giudice di legittimità
valutare d’ufficio, sulla scorta degli elementi ritualmente acquisiti, la
corretta individuazione del termine iniziale della prescrizione, in quanto
aspetto logicamente preliminare rispetto alla sospensione dedotta con il
ricorso. La mancata proposizione di specifiche censure non determina la
formazione del giudicato interno sul dies a quo della prescrizione dei
contributi, differita dal D.P.C.M. 10 giugno 2010,
in applicazione dell’art. 12,
comma 5, del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241. Il giudicato, destinato a
formarsi su un’unità minima di decisione che ricollega a un fatto, qualificato
da una norma, un determinato effetto, investe la statuizione che dichiara prescritto
un diritto e non le mere affermazioni, inidonee a costituire una decisione
autonoma, sui singoli elementi della fattispecie estintiva, come la decorrenza
del dies a quo».

La sentenza impugnata, pertanto, va cassata, in
relazione al profilo preliminare dell’individuazione del dies a quo della
prescrizione. Restano assorbiti gli ulteriori profili, dedotti con il motivo di
ricorso.

La causa va rinviata alla Corte d’appello di
Catanzaro, in diversa composizione, che dovrà scrutinare il tema prescrizione
dei contributi alla luce degli enunciati principi di diritto e provvederà anche
a liquidare le spese del presente giudizio.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e
rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio,
alla Corte d’appello di Catanzaro, in diversa composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 ottobre 2022, n. 31545
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