Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 ottobre 2022, n. 31863

Licenziamento illegittimo, Pronuncia di reintegrazione in
servizio, Esecuzione del provvedimento giudiziale, Decorso di un certo lasso
tempo senza attivazione da parte del lavoratore, Estinzione del rapporto di
lavoro per mutuo consenso, Esclusione

 

Rilevato che

 

1. con sentenza n. 4875/2017 la Corte di appello di
Roma ha confermato la decisione di primo grado di rigetto dell’opposizione di
G.C. al precetto con il quale le era stato intimato il pagamento della somma
complessiva di € 175.737,50 sulla base di titolo esecutivo rappresentato dalla
sentenza che, in accoglimento della impugnativa di licenziamento proposta da
R.S., aveva disposto la reintegrazione in servizio della detta lavoratrice e
condannato la C. al pagamento delle retribuzioni dal licenziamento alla
effettiva reintegrazione;

2. la Corte di merito ha respinto i motivi di
gravame proposti dalla C. osservando che: a) non era configurabile a carico
della lavoratrice alcuna violazione degli obblighi di correttezza e buona fede
per avere questa fatto trascorrere un certo lasso di tempo prima di azionare il
diritto nascente dalla sentenza che disponeva la reintegrazione, in quanto
l’art. 18 St. lav., nel testo applicabile ratione temporis, antecedente alla
modifica introdotta dalla legge n. 92/2012, non prevedeva alcun onere specifico
a carico del lavoratore di mettere a disposizione del datore di lavoro le
proprie energie lavorative, risultando comunque tale messa a disposizione già
contenuta nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado; b) la eccezione
di risoluzione per mutuo consenso era infondata non essendo a tal fine
concludente, in assenza di altre circostanze significative, il solo lasso di
tempo fatto trascorrere dalla lavoratrice prima di attivarsi giudizialmente; c)
era corretta la statuizione di prime cure di rigetto della richiesta di
acquisire informazioni dall’INPS in merito allo svolgimento di altra attività
lavorativa da parte della S., al fine della verifica dell’aliunde perceptum,
stante la genericità della istanza in oggetto, avente carattere meramente
esplorativo; d) la denunzia di omesso esame della eccezione di ingiustificato
arricchimento era da respingere in quanto la relativa fondatezza non poteva che
essere valutata sulla scorta di elementi di fatto non acquisiti al processo in
conseguenza della inammissibilità del mezzi istruttori conseguenti alla
condotta processuale della C.; e) la impossibilità sopravvenuta della
prestazione, prospettata in riferimento al provvedimento di sequestro
giudiziario dell’azienda nel periodo dal 9.3.2004 al 10.5.2012, era
inammissibile in quanto avrebbe dovuto essere coltivata nel giudizio di
impugnativa di licenziamento dalla sentenza che aveva disposto la reintegrazione
della lavoratrice nel posto di lavoro; in quel giudizio, infatti, la convenuta
datrice di lavoro aveva eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva
con riferimento al provvedimento di sequestro, all’epoca già in essere;
costituiva pertanto onere della C.,al fine di avvalersi di tale circostanza
impugnare la statuizione di rigetto sul punto, come, viceversa, non avvenuto;

3. per la cassazione della decisione ha proposto
ricorso G.C. sulla base di tre motivi; la parte intimata ha resistito con controricorso;

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo di ricorso parte ricorrente
deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1176, 1227, 1372, 1375
cod. civ., dell’art. 2 Cost. e degli artt. 112 e 421 cod. proc. civ. nonché
illogica, contraddittoria e/o insufficiente motivazione, censurando la sentenza
impugnata per avere escluso la estinzione del rapporto di lavoro per mutuo
consenso. Richiama a sostegno dell’assunto una serie di circostanze di fatto
(in particolare il tempo trascorso tra il provvedimento giudiziale che
disponeva la reintegrazione e la condanna all’indennità risarcitoria e la sua
messa in esecuzione) che assume rivelatrici del concreto disinteresse della S.
al ripristino del rapporto di lavoro; in questa prospettiva si duole del
mancato accoglimento della istanza di esibizione all’INPS della documentazione
riferita alla posizione lavorativa della dipendente, onde accertare la
percezione medio tempore di altri redditi da lavoro; contesta, infine
l’accertamento della sentenza impugnata che aveva escluso nella condotta della
lavoratrice la violazione dei principi di correttezza e buona fede;

2. con il secondo motivo di ricorso deduce errata
applicazione e/o violazione dell’art. 1256 cod. civ., degli artt. 112, 115 e
116 cod. proc. civ. nonché nullità della sentenza per omessa pronunzia sulla
parte della domanda intesa a far valere la impossibilità assoluta della
prestazione con riferimento al periodo nel quale l’azienda, la cui titolarità
era contesa, era stata sottoposta a sequestro giudiziale, nonché illogica,
contraddittoria e insufficiente motivazione circa un punto decisivo della
controversia; lamenta che la Corte distrettuale non aveva trattato la specifica
questione, che assume ritualmente sollevata, relativa alla esistenza di
impedimenti non imputabili, configuranti impossibilità assoluta della
prestazione, anche successivi alla formazione del titolo esecutivo ; la Corte
di merito, inoltre, in violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. aveva
omesso di fondare il proprio convincimento sui fatti impeditivi della
prestazione, fatti compiutamente e ritualmente documentati;

3. con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente
deduce errata applicazione e/o violazione degli artt. 1227, 2033, 2041 e 2042
cod. civ. e dell’art. 6 CEDU, dell’art. 112 cod. proc. civ., denunziando
nullità della sentenza per omessa pronunzia sulla parte della domanda della
ricorrente con cui la stessa aveva sostenuto ricorrere in suo pregiudizio i
presupposti dell’arricchimento senza causa a vantaggio della Silano, nonché
illogica, contraddittoria e insufficiente motivazione circa un punto decisivo
della controversia;

4. il primo motivo di ricorso è inammissibile in
tutte le censure articolate;

4.1. secondo risalente giurisprudenza di legittimità
mai smentita nel corso degli anni e autorevolmente ribadita da Cass. Sez. Un.
n. 21691/2016, l’accertamento della sussistenza di una concorde volontà delle
parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale costituisce
apprezzamento di merito che, se immune da vizi logici e giuridici e
adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità (v. Cass. n.
1037/1968, Cass. n. 2302/1953). Tale accertamento, sostanziandosi in un
giudizio di fatto del giudice di merito, risulta pertanto sindacabile in sede di
legittimità nei limiti in cui un tale apprezzamento di merito può esserlo in
base alle rigorose regole imposte dalla disciplina del vizio che – secondo i
dettami dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., tempo per tempo vigente-
può colpire la ricostruzione di ogni vicenda storica che preceda il contenzioso
giudiziale (v. Cass. n. 13660/2018, Cass. n. 29781/2017). Nello specifico, alla
luce dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. nel testo applicabile ratione
temporis, si richiedeva da parte dell’odierna ricorrente la deduzione di omesso
esame di un fatto, inteso in senso di fatto storico- fenomenico, di rilevanza
decisiva, risultante dalla sentenza o dagli atti di causa ed evocato nel
rispetto delle prescrizioni dettate dall’art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc.
civ. (ex plurimis Cass. Sez. Un. n. 8053/2014); parte ricorrente si è sottratta
a tale onere in quanto nel censurare l’accertamento di fatto alla base del
decisum ha fatto riferimento a circostanze prive di decisività ed in larga
parte rifluenti nel tema del lasso di tempo trascorso tra la formazione del
titolo esecutivo (nell’anno 2009) e l’epoca della iniziativa giudiziale della
lavoratrice (anno 2013) per reclamare le retribuzioni maturate dal
licenziamento, distanza temporale espressamente presa in considerazione dalla
sentenza impugnata e ritenuta non concludente nel senso prospettato dalla C.;
né la valutazione del giudice di merito che esclude che al lasso di tempo
trascorso possa conferirsi il significato negoziale di volontà risolutiva del
rapporto di lavoro è censurabile sotto il profilo dell’assoluta illogicità di
motivazione; come precisato dalla giurisprudenza di legittimità che in
particolare con riguardo al contratto a termine si è misurata con il tema della
possibile inferenza presuntiva da collegare all’inerzia protratta del
lavoratore nel far valere la nullità del termine, per ritenere estinto il
rapporto si richiede una volontà risolutiva certa e chiara, non desumibile dal
mero decorso del tempo ( v. tra le altre, Cass. n. 22489/2016, Cass. 9583/2011,
Cass n. 17070/2002);

4.2. analoghe considerazioni valgono in relazione
alla doglianza che investe l’accertamento della insussistenza di profili di
contrarietà a correttezza e buona fede della condotta della lavoratrice,
accertamento riservato al giudizio di fatto del giudice di merito ed
incrinabile solo dalla deduzione di omesso esame di fatto controverso e
decisivo, nei rigorosi termini sopra precisati, fatto neppure formalmente
indicato dalla odierna ricorrente che affida le proprie doglianze alla
prospettazione di un diverso ed a sé più favorevole apprezzamento di
determinate circostanze; tale modalità di articolazione della censura è
intrinsecamente inidonea ad inficiare la statuizione sul punto posto che è
compito istituzionalmente demandato al giudice del merito selezionare gli
elementi certi da cui “risalire” al fatto ignorato (art. 2727 cod.
civ.) che presentino una positività parziale o anche solo potenziale di
efficacia probatoria e l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi
presuntivi a consentire illazioni che ne discendono secondo il criterio dell’id
quod plerumque accidit sottratto al controllo di legittimità (in termini, Cass.
n. 16831/ 2003; Cass. n. 26022/ 2011, Cass. n. 12002/ 2017), salvo che esso non
si presenti intrinsecamente implausibile tanto da risultare meramente
apparente, ipotesi non sussistente nello specifico;

4.3. la censura che investe il rigetto della istanza
di acquisizione presso l’INPS di informazioni relative alla posizione
contributiva della S. è inammissibile venendo in rilievo l’esercizio di un
potere svincolato da ogni onere di motivazione, non sindacabile in sede di
legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione, trattandosi
di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova dei
fatti non possa in alcun modo essere acquisita con altri mezzi e l’iniziativa
della parte istante non abbia finalità esplorativa ( Cass. n. 27412/2021, Cass.
n. 24188/2013), come evidente nel caso di specie;

5. il secondo motivo di ricorso è in parte infondato
ed in parte inammissibile;

5.1. la deduzione di omessa pronunzia sulla parte di
domanda intesa a far valere la impossibilità della prestazione a carico della
datrice non si confronta con la sentenza di appello che tale tema ha
specificamente affrontato rilevando la preclusione determinata dal giudicato
formatosi sul punto in relazione alla decisione sulla impugnativa di
licenziamento (v. sentenza, pag. 4 secondo capoverso); quanto poi alle
circostanze successive alla formazione del titolo giudiziale posto in
esecuzione, che secondo parte ricorrente configurerebbero fattori ostativi
all’adempimento riconducibili all’ambito dell’impossibilità sopravvenuta, la
relativa deduzione risulta inammissibile in quanto non sorretta dall’autosufficiente
riferimento agli atti e documenti di causa, come prescritto al fine della
dimostrazione della rituale e tempestiva allegazione di tali circostanze
nell’ambito del giudizio di merito e della dimostrazione del modo in cui le
stesse potevano ritenersi acquisite al giudizio, mediante trascrizione della
relativa risultanza, in conformità del disposto dell’art. 366, comma 1, n 6
cod. proc. civ.; le considerazioni che precedono assorbono la necessità di
esame della censura che denunzia violazione e falsa applicazione degli art. 115
e 116 cod. proc. civ. dovendo evidenziarsi che in tema di ricorso per
cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115
e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale
istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché
si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non
dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o
abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove
legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza
apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass.
n. 122972019, Cass. n. 27.000/2016), questioni estranee alle censure in esame,
per come concretamente articolate;

6. il terzo motivo di ricorso è infondato in quanto
la Corte di merito si è espressamente pronunziata sulla domanda di
ingiustificato arricchimento rigettandola per difetto di elementi acquisibili
al processo che ne attestassero la fondatezza; in tal modo, sia pure
implicitamente, ha mostrato di valorizzare la circostanza rappresentata dalla
carenza di prova della esistenza di redditi da lavoro nel periodo oggetto di
pretesa, redditi la cui dimostrazione era stata affidata dall’odierna
ricorrente alla richiesta di acquisizione di informazioni presso l’INPS,
istanza respinta per il suo carattere meramente esplorativo; quanto ora
osservato assorbe la necessità di esame delle ulteriori censure articolate in
punto di violazione di norma di diritto mentre la deduzione di vizio
motivazionale è inammissibile in quanto non conforme all’attuale configurazione
dell’art. 360, comma 1 n. 5 cod. proc. civ., al quale non sono (più)
riconducibili le doglianze intese a far valere la insufficienza e
contraddittorietà di motivazione mentre deve escludersi la illogicità di
motivazione, in quanto l’approdo della Corte di merito è del tutto coerente con
la rilevata carenza di elementi di fatto rivelatori di illegittimo
arricchimento;

7. al rigetto del ricorso consegue il regolamento
delle spese di lite secondo soccombenza;

8. sussistono i presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del
comma 1 bis dell’ art.13 d. P.R. n. 115/2002;

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla
rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi
professionali, € 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del
15% e accessori come per legge. Con distrazione.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art.13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 ottobre 2022, n. 31863
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: