In caso di cessione non valida, il rapporto prosegue con il cedente anche se il lavoratore ha concordato con la cessionaria un incentivo all’esodo e ha iniziato a percepire la pensione di anzianità.

Nota a Cass., ord., 4 ottobre 2022, n. 28824

Fabrizio Girolami

In caso di trasferimento di ramo d’azienda, ove sia accertata l’invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 c. c.), il trasferimento non si compie e il rapporto di lavoro resta nella titolarità dell’originario cedente.

È il principio ribadito dalla Corte di Cassazione, sez. lav., con ordinanza 4 ottobre 2022, n. 28824, in linea di continuità con l’orientamento già consolidato (cfr., tra le altre, Cass. S.U. n. 2990/2018; Cass. n. 21161/2019; Cass. n. 23352/2020; Cass. n. 39948/2021; Cass. n. 12750/2022).

Nel caso di specie, un lavoratore, a seguito di declaratoria giudiziale di nullità della cessione del contratto di lavoro alla cessionaria, aveva chiesto al Tribunale di Torino la condanna del cedente al risarcimento del danno (pari al trattamento economico che lo stesso avrebbe dovuto percepire come dipendente, in ragione della prosecuzione del rapporto di lavoro), ottenendo pronuncia favorevole.

La Corte d’Appello di Torino, con sentenza n. 614/2018, aveva riformato la decisione di primo grado, rigettando la pretesa del lavoratore, rilevando che lo stesso aveva stipulato con la cessionaria un accordo transattivo in base al quale aveva accettato l’erogazione di un incentivo all’esodo (con contestuale accordo di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro) avendo raggiunto i requisiti pensionistici e iniziato a percepire la pensione di anzianità dal competente Istituto previdenziale.

La Cassazione ha accolto il ricorso del lavoratore (cassando la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione) – sulla base delle seguenti considerazioni:

  • soltanto un legittimo trasferimento d’azienda “comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resti unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi; circostanza, quest’ultima, che ricorre solo in presenza dei presupposti di cui all’art. 2112 cod. civ. che, in deroga all’art. 1406 c.c., consente la sostituzione del contraente senza consenso del ceduto”;
  • l’unicità del rapporto viene invece meno qualora, come nella vicenda di specie, il trasferimento sia stato dichiarato invalido. Nel caso in cui, dunque, venga accertata l’invalidità della cessione, il rapporto “con il destinatario della stessa non può che considerarsi instaurato in via di mero fatto con l’esito che le vicende risolutive dell’ultimo rapporto sono inidonee ad incidere sul rapporto giuridico tuttora esistente con il cedente”. In tale ipotesi, dunque, il trasferimento “non si compie e il rapporto di lavoro resta nella titolarità dell’originario cedente”;
  • in sostanza, in caso di cessione di ramo d’azienda – ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 c.c. – le retribuzioni “in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa”;
  • inoltre, con riguardo all’intervenuta risoluzione consensuale del rapporto con la cessionaria, l’accordo transattivo con il terzo cessionario è da considerare “res inter alios acta”. Né, per altro verso, è condivisibile l’argomentazione secondo cui, avendo rassegnato le dimissioni presso la cessionaria, il lavoratore avrebbe fatto cessare quello stesso e unico rapporto lavorativo che prima aveva con il cedente. Tale assunto è basato, difatti, sull’erronea supposizione dell’esistenza – fra cedente, cessionario e lavoratori ceduti – di “un inscindibile rapporto plurisoggettivo” che, invece, deve ritenersi escluso;
  • né, infine, l’avvenuto conseguimento della “pensione di anzianità” integra una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, atteso che la disciplina legale dell’incompatibilità (totale o parziale) tra trattamento pensionistico e percezione di un reddito da lavoro dipendente si colloca sul diverso piano del rapporto previdenziale (determinando la sospensione dell’erogazione della prestazione pensionistica o il diritto dell’ente previdenziale alla ripetizione delle somme indebitamente erogate), ma non comporta l’invalidità del rapporto di lavoro. Invero, il diritto a pensione “discende dai verificarsi dei requisiti di età e di contribuzione stabiliti dalla legge e non si pone di per sé come causa di risoluzione del rapporto di lavoro, sicché le utilità economiche, che il lavoratore illegittimamente licenziato ne ritrae, dipendono da fatti giuridici estranei al potere di recesso del datore di lavoro, non sono in alcun modo causalmente ricollegabili al licenziamento illegittimamente subito”.
Cessione di ramo d’azienda nullo, il rapporto permane in capo al cedente
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