Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 novembre 2022, n. 32378
Cessione illegittima di ramo di azienda, Lavoratrice
collocata in CIGS, Ripristino del rapporto con la cedente, Diritto alle
retribuzioni non erogate, Detraibilità dell’aliunde perceptum, Esclusione
Rilevato che
1. La Corte di appello di Napoli ha confermato la
sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato l’opposizione
proposta da T.I. s.p.a. avverso il decreto con il quale A.M. le aveva ingiunto
il pagamento della somma di 1.835,15 per retribuzione del mese di gennaio 2013
non erogata alla lavoratrice che aveva ottenuto una sentenza con la quale era
stata accertata la nullità della cessione di ramo di azienda da T.I. s.p.a. a
T. s.p.a. con diritto al ripristino del rapporto con la cedente ed alle
retribuzioni maturate e non erogate.
2. Per quanto ancora interessa il giudice di appello
ha ritenuto che le somme percepite dalla lavoratrice collocata in CIGS.; dalla
società cessionario non fossero scomputabili da quelle dovute a titolo di
retribuzioni omesse da parte della cedente in quanto la pretesa risarcitoria
azionata sorge dall’inadempimento datoriale a ricostituire il rapporto a
seguito di accertamento dell’inefficacia della cessione di ramo di azienda con
la lavoratrice ceduta.
3. Per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso T.I. s.p.a. affidato ad un unico motivo. Resiste con tempestivo
controricorso A.M..
Considerato che
4. Con l’unico motivo di ricorso è denunciata la
violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1206,
1207, 1217, 1223, 1256, 1453 e 1463 cod. civ.
censurando la sentenza impugnata per non avere detratto dal dovuto le somme
erogate alla lavoratrice in conseguenza del suo collocamento in CIG da parte
della società cessionaria.
5. Va premesso che secondo la più recente
giurisprudenza della Cassazione, seguita alla sentenza delle sezioni unite del
07/02/2018 n. 2990, si è ritenuto che in caso di dichiarazione di inefficacia
della cessione di un ramo di azienda, il lavoratore illegittimamente ceduto ha
diritto al ripristino de iure e de facto del rapporto di lavoro con il datore
di lavoro cedente e al pagamento da parte di quest’ultimo delle retribuzioni
nelle more maturate e non pagate a fronte della messa a disposizione delle
energie lavorative da parte del lavoratore.
5.1. È stato chiarito che le retribuzioni percepite
dal lavoratore durante la illecita cessione dallo pseudo cessionario non
possono essere detratte da quanto dovuto dal cedente, in quanto i rapporti di
lavoro che si sono venuti ad instaurare per effetto della illecita cessione
sono due e diversi. Soltanto un legittimo trasferimento d’azienda comporta la
continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi
elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti
di cui all’art. 2112 c.c. che, in deroga all’art. 1406 c.c., consente la sostituzione del
contraente senza il consenso del ceduto (cfr. per tutte Cass. 3 luglio 2019 n.
17785).
5.2. L’unicità del rapporto viene meno qualora, come
appunto nel caso di specie, il trasferimento sia dichiarato invalido, stante
l’instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già,
e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore “continui”
di fatto a lavorare (Cass. 31 aprile 2020, n. 7977 (ndr: Cass. 21 aprile 2020, n. 7977)). E questo perché
i rapporti di lavoro sono due (uno, de iure, ripristinato nei confronti
dell’originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni
maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l’altro, di fatto, nei
confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore della
prestazione lavorativa), a fronte di una prestazione solo apparentemente unica:
posto che, accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto
con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo
d’azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve n’è un’altra giuridicamente
resa in favore dell’originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è
stato de iure (anche se non de facto, per il rifiuto ingiustificato del
predetto) ripristinato, non meno rilevante sul piano del diritto (Cass. 28 settembre 2021, n. 26262; Cass. 31
aprile 2020, n. 7977 (ndr: Cass. 21 aprile
2020, n. 7977); Cass. 28 febbraio 2019, n. 5998; in senso conforme, tra le
altre: Cass. 18 febbraio 2014, n. 13485; Cass.
7 settembre 2016, n. 17736; Cass. 30 gennaio 2018, n. 2281).
5.3. Conseguentemente al dipendente spetta la
retribuzione tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia
se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi
confronti (Cass. 23 novembre 2006, n. 24886; Cass.
23 luglio 2008, n. 20316; Cass. 21 aprile
2020, 7977; Cass. 3 luglio 2019, n. 1.7784;
Cass. 7 agosto 2019, n. 21158).
5.3. Qualora il datore di lavoro abbia operato un
trasferimento di (ramo di) azienda dichiarato illegittimo ed abbia rifiutato il
ripristino del rapporto senza una giustificazione, non sono detraibili dalle
somme dovute al lavoratore dal datore cedente, quanto il lavoratore stesso
abbia percepito, nello stesso periodo, anche a titolo di retribuzione, per
l’attività prestata alle dipendenze dell’imprenditore già cessionario, ma non
più tale; e ciò, perché, in tale ipotesi, permane in capo allo stesso il
diritto di ricevere le somme ad esso spettanti da parte del datore cedente, a
titolo di retribuzione e non di risarcimento per la qual cosa, non trova
applicazione il principio della compensatio lucri cum damno, su cui si fonda la
detraibilità dell’aliunde perceptum dal risarcimento, poiché, appunto, è stato
escluso che la richiesta di pagamento del lavoratore abbia titolo risarcitorio
(Cass. 16 giugno 2021 n. 17187).
5.4. Nel caso in esame, incontroversa e non più
riproposta la questione dell’esistenza di un giudicato sulla inefficacia della
cessione di ramo di azienda la questione è circoscritta alla detraibilità o
meno delle somme percepite dalla lavoratrice collocata in C.I.G. dalla
cessionaria.
5.5. La natura retributiva della somma dovuta in
conseguenza della inefficacia della cessione di ramo, e come tale chiesta con
il decreto ingiuntivo, comporta che nessuna somma può essere detratta a titolo di
aliunde perceptum non trovando per quanto detto applicazione il principio della
compensatio lucri cum damno, su cui si fonda invece la detraibilità
dell’aliunde perceptum dal risarcimento.
5.6. Va comunque rilevato che le somme percepite dal
lavoratore in relazione alla c.i.g.s., alla indennità di mobilità e a titolo di
trattamento pensionistico hanno indiscutibilmente natura previdenziale (cfr.
fra le tante Cass. 6665/2000 in relazione alla
CIGS; Cass. 14973/2001 e Cass. 5009/2004 in
ordine alla indennità di mobilità; Cass.
13871/2007 in ordine al trattamento pensionistico).
5.7. Deve considerarsi che non qualsiasi reddito
percepito dal lavoratore rileva ai fini dell’ aliunde perceptum, bensì solo
quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa (e
tale non è quello derivante da prestazioni previdenziali che, oltre tutto,
discendono dal verificarsi dei requisiti a tal fine stabiliti dalla legge).
Tali proventi non possono considerarsi
definitivamente acquisiti al patrimonio del lavoratore, essendo ripetibili
dall’ente previdenziale allorché vengano a cadere i presupposti per la sua
erogazione (cfr. Cass. 16/03/2009 n. 6342, 01/06/2004 n. 10531, 08/06/1998 n. 5629).
6. In conclusione, per le ragioni esposte, il
ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, da distrarsi in favore
degli avvocati che se ne sono dichiarati anticipatari, seguono la soccombenza e
sono liquidate in dispositivo. Sussistono poi i presupposti processuali per il
versamento da parte della società ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso a norma
del comma 1 bis dell’art.13 d. P.R.
n. 115/2002;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità che si liquidano in € 700,00 per compensi
professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli
accessori dovuti per legge. Spese da distrarsi in favore degli avvocati E.M.C.
e F.C. che se ne sono dichiarati antistatari.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R.,
se dovuto.