In caso di licenziamento nullo per mancato superamento del periodo di comporto, il lavoratore ha diritto alla reintegrazione c.d. debole anche se occupato in una piccola azienda.
Nota a Cass. 16 settembre 2022, n. 27334
Francesco Belmonte
Il licenziamento nullo, intimato in violazione dell’art. 2110, co. 2, c.c., comporta quale conseguenza, sotto la vigenza dell’art. 18 Stat. Lav. (come modificato dalla L. n. 92/2012), l’applicazione in favore del lavoratore della reintegrazione c.d. debole, disciplinata, secondo un regime sanzionatorio speciale, dal co. 7 dell’art. 18 che, a sua volta, rinvia al co. 4, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro.
Così si è pronunciata la Corte di Cassazione 16 settembre 2022, n. 27334, in relazione ad una fattispecie concernente le conseguenze sanzionatorie legate ad un licenziamento illegittimo intimato ad una lavoratrice per erroneo superamento del periodo di comporto (erano stati conteggiati giorni di assenza dovuti ad infortunio sul lavoro attribuito alla responsabilità del datore di lavoro) impiegata in un’azienda con meno di quindici dipendenti.
In primo grado, il Tribunale di Reggio Emilia ha riconosciuto alla lavoratrice la reintegrazione c.d. attenuata; diversamente, in sede d’Appello, i giudici distrettuali (App. Bologna n. 511/2019) hanno ritenuto applicabile al caso di specie la più blanda tutela c.d. obbligatoria di cui all’art. 8, L. n. 604/1966.
La Cassazione, investita della questione, fonda le sue argomentazioni aderendo ai principi espressi dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 12568/2018, chiamata a dirimere il contrasto giurisprudenziale tra i giudici di legittimità, inerente alle conseguenze sanzionatorie del licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, co. 2, c.c.
In particolare, la Corte ha stabilito chiaramente che “il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, co. 2, c.c.” (Cass. S.U. n. 12568/2018, annotata in q. sito da M.N. BETTINI).
Le Sezioni Unite, nell’interpretare l’art. 2110, co. 2, c. c., ne hanno sottolineato il carattere di norma imperativa in combinata lettura con l’art. 1418 c. c. in quanto finalizzata all’esigenza di tutela della salute, il cui valore è sicuramente prioritario all’interno dell’ordinamento – atteso che l’art. 32 Cost. lo definisce come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” – così come lo è quello del lavoro (artt. 1, co. 1, 4, 35 e ss. Cost.).
A parere dei giudici, il contrasto interpretativo, risolto dalle Sezioni Unite, tra la tesi della nullità del recesso oppure della sua temporanea inefficacia, è “probabilmente all’origine della mancanza di una elaborazione giurisprudenziale specifica sul regime di tutela applicabile”, “in presenza dei requisiti oggettivi (di tipo dimensionale) e soggettivi (relativi all’attività svolta dal datore di lavoro) costituenti presupposti normativi della tutela c.d. reale”.
In relazione ai rapporti di lavoro assistiti dalla tutela c.d. obbligatoria (art. 8, L. n. 604/1966), la Cassazione, con orientamento costante, ha osservato come gli effetti del licenziamento dichiarato nullo (v. Cass. n. 15093/2009: licenziamento nullo per illiceità del motivo; Cass. n. 9549/1995: licenziamento nullo perché intimato in violazione del divieto di licenziamento per le lavoratrici madri; Cass. n. 2856/1979: licenziamento per rappresaglia, ante disciplina dell’art. 3, L. n. 108/1990) non sono disciplinati, in via di estensione analogica, dalla normativa dettata dall’art. 8, L. n. 604/1966, recando quest’ultima esclusivamente la disciplina per la diversa ipotesi dell’annullamento del licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, bensì secondo il regime delle nullità di diritto comune di cui all’art. 1418 c.c. (v. da ultimo Cass. n. 19661/2019).
La legge n. 92/2012, nel modificare l’art. 18 Stat. Lav., ha raggruppato nel primo comma le fattispecie di nullità del licenziamento, dettando per esse una disciplina unitaria (c.d. tutela reale forte).
Con la riscrittura dell’art. 18, in particolare, le ipotesi precedentemente assoggettate al regime delle nullità di diritto comune sono state ricondotte nella previsione dell’art. 18, co. 1, in forza della clausola che dispone l’applicazione della tutela reale piena, oltre che nelle fattispecie tipizzate dalla norma, anche negli “altri casi di nullità previsti dalla legge” e “quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro”.
Il licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110, co. 2, c. c., viziato da nullità in base all’orientamento delle Sezioni Unite, non rientra nell’ art, 18, co. 1, Stat. Lav., ma è contemplato nel comma 7 che, nel primo periodo, stabilisce: “Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68 per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile”.
Il problema interpretativo posto dalla fattispecie in esame “è reso particolarmente complesso sia dalla collocazione sistematica nel comma 7, anziché nel comma 1 dell’art. 18, delle conseguenze del licenziamento nullo per mancato superamento del periodo di comporto e sia dal contenuto del comma 8, dell’art. 18 nella versione del 2012”, che destina l’applicazione del rimedio in forma specifica (ad eccezione dei casi di nullità contemplati nel comma 1 dell’art. 18) solo a quei licenziamenti intimati nelle grandi imprese.
Proprio in ragione del requisito dimensionale dell’azienda in cui era impiegata la lavoratrice, la Corte d’Appello non ha ritenuto applicabile alla fattispecie in questione la tutela reintegratoria, bensì la disciplina di cui all’art. 8, L. n. 604/1966.
Diversamente per la Cassazione, «costituisce affermazione costante … che l’art. 8 della legge 604 disciplini unicamente le conseguenze del licenziamento illegittimo perché intimato in difetto di giusta causa o giustificato motivo. La legge 604 ha espressamente previsto, nell’art. 4, ipotesi di nullità del licenziamento ma, altrettanto espressamente, ha limitato la tutela cd. obbligatoria di cui all’art. 8 ai casi in cui “non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo”» (Cass. n. 19661/2019, cit.).
Se si ritenesse applicabile il regime delle nullità di diritto comune oppure la tutela reale “piena”, “si creerebbe un’evidente irragionevolezza nel sistema ed una disarmonia nel regime delle tutele per il caso di licenziamento”, in quanto in entrambe le ipotesi si avrebbe una tutela più forte di quella garantita per i lavoratori impiegati nelle grandi imprese dai co. 7 e 4 dell’art. 18, che limitano a dodici mensilità il risarcimento del danno.
In merito, le S.U. hanno rilevato che il licenziamento in violazione dell’art. 2110, co. 2, c. c., «pur rientrando tra gli “altri casi di nullità previsti dalla legge” di cui al comma 1, è inserito nel comma 7 soltanto quoad poenam, al fine cioè della applicazione del rimedio meno rigoroso quale è la tutela reintegratoria attenuata».
“Deve ritenersi che la disciplina derogatoria dettata dal comma 7, rispetto alla disciplina generale di cui al primo comma dell’art. 18, attenga unicamente alle conseguenze sanzionatorie del licenziamento … che resta qualificabile come nullo e non annullabile.”
In altri termini, “la commistione, all’interno del comma 7, di fattispecie di licenziamento nullo e di licenziamento annullabile e l’espresso rinvio alla disciplina di cui al quarto comma, relativa alla annullabilità del licenziamento, non intaccano la natura giuridica del vizio del recesso per mancato superamento del comporto che deve ritenersi virtualmente incluso nella previsione dell’art. 18, comma 1, eccetto che per il rimedio ripristinatorio individuato, ex lege, nei commi 7 e 4.”
In ragione di quanto argomentato, la Corte afferma che la fattispecie di recesso in questione resta assoggettata alla disciplina generale del licenziamento nullo, le cui conseguenze sono indifferenti al numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro, poiché “la categoria giuridica della nullità, in quanto volta alla protezione di beni di rilievo costituzionale, è di applicazione generale e non consente diverse articolazioni”.
Ciò comporta l’irrilevanza del criterio selettivo basato sulle dimensioni aziendali, il quale, “se può giustificare livelli diversi di tutela in ipotesi di licenziamento annullabile (v. Corte Cost. n. 81/69 e n. 55/74), non può legittimare una diversificazione delle conseguenze del licenziamento nullo.”