Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 novembre 2022, n. 33428
Informatore scientifico, Demansionamento, Tecnopatia da
costrittività organizzativa, Straining, Risarcimento del danno
Rilevato che
1.la Corte d’Appello di Genova ha riformato la sentenza
del Tribunale di La Spezia e respinto tutte le domande proposte da T.M. contro
I.F.B. (I.F.B.S.) s.r.l., di cui era stato dipendente da marzo 1985 al 30
aprile 2014 quale Informatore scientifico del farmaco, e condannato il medesimo
alla restituzione delle somme corrisposte in forza della sentenza di primo
grado, nonché alla rifusione delle spese di lite ed al pagamento delle spese
della CTU espletata in primo grado;
2.il Tribunale spezzino, infatti, svolta ampia
istruttoria testimoniale e tecnica, accertata la sussistenza di grave
demansionamento e di comportamenti mobbizzanti in danno dell’informatore a
decorrere da settembre 2012, in parziale accoglimento del ricorso aveva
condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno biologico temporaneo
(€ 8.400), del danno biologico permanente (€ 27.244), del danno alla dignità ed
all’immagine personali e professionali (€ 50.253,84 lordi), oltre rimborso
delle spese mediche sostenute (€ 2.788,31) ed accessori;
3.la Corte genovese, in accoglimento dell’appello
principale della società, ha ritenuto che il Tribunale avesse assegnato
rilevanza eccessiva alle attività di carattere commerciale svolte
dall’originario ricorrente ai fini dell’accertamento del demansionamento, sulla
base dell’analisi delle attività dell’informatore tecnico-scientifico come
descritte dalla contrattazione collettiva (ricomprendenti l’adempimento di
necessità aziendali nell’area di pertinenza) in rapporto al contratto di lavoro
(in cui erano previste anche la raccolta di informazioni scientifiche e di
mercato ed il collegamento con grossisti, farmacie, case di cura, cliniche,
ecc.), tenuto anche conto del fatto che tali mansioni erano state contestate
solo con il ricorso introduttivo dopo quasi 30 anni di attività e del fatto che
tutti gli informatori dipendenti della medesima società svolgevano informazione
scientifica sui farmaci ed anche attività di carattere promozionale; ha
ritenuto che le problematiche emerse con la nuova capo-area non fossero
oggettivamente lesive della reputazione del ricorrente e che la situazione
lavorativa, caratterizzata da normali dinamiche conflittuali, fosse stata
vissuta dal ricorrente con la soggettiva percezione di essere vessato e
denigrato dal proprio superiore; ha conseguentemente ritenuto assorbito
l’appello incidentale del lavoratore diretto all’accertamento dell’interruzione
del rapporto di lavoro alla fine del periodo di comporto per fatto e colpa del
datore di lavoro, al connesso risarcimento dei danni, ad una liquidazione dei
danni riconosciuti in misura maggiore e per ulteriori voci;
4. avverso la predetta sentenza propone ricorso per
cassazione T.M., affidato a 3 motivi, cui resiste con controricorso la società;
Considerato che
1. con il primo motivo parte ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. in relazione all’art. 2103
c.c. e all’art. 122 d. lgs. 24/4/2006, n. 219 (ai sensi dell’art. 360, n. 3
c.p.c.), per non avere la Corte di merito interpretato il contratto individuale
e collettivo alla luce del divieto di comparaggio, reato previsto dal T.U.
delle leggi sanitarie (art. 170 R.D. 1235/1934), divieto reso ancora più
stringente dalle modifiche normative del 1992 e del 2006;
2. con il secondo, violazione dell’art. 2103 c.c. in
relazione all’art. 170 R.D. 27/7/1934, n. 1265, agli artt. 119, 123 e 126 d.
lgs. 219/2006 ed alle Linee Guida dell’AIFA 20/4/2006 alle quali fa rinvio il
suddetto d. lgs., e dell’art. 2087 c.c. per la conseguente costrittività
organizzativa (ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c.), per avere la sentenza
impugnata errato nel ritenere conforme alla professionalità del ricorrente
l’essere sottoposto alla direzione marketing e a ragioni commerciali;
3.i due motivi, da trattare congiuntamente in quanto
entrambi collegati alla valutazione del lamentato demansionamento diversamente
operata nei due gradi di merito, sono fondati per quanto di ragione;
4. la Corte d’Appello, a differenza del Tribunale,
ha ricondotto all’area della percezione soggettiva la situazione lavorativa per
cui è causa, venutasi a modificare da settembre 2012;
5. nel procedere a tale sussunzione, non ha,
tuttavia tenuto conto, della rilevanza del fattore organizzativo – e delle
connesse possibili situazioni di costrittività organizzativa – all’interno del
perimetro rappresentato dal complessivo dovere di tutela della salute, anche
psichica del lavoratore, ai sensi dell’obbligo datoriale di protezione di cui
all’art. 2087 c.c., in interazione con il diritto del lavoratore alle mansioni
corrispondenti all’inquadramento di cui all’art. 2103 c.c.;
6.il riconoscimento della rilevanza in tale ambito
di tecnopatie da costrittività organizzativa è rinvenibile nella circolare
INAIL n. 71 del 17 dicembre 2003, intitolata “Disturbi psichici da
costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia
professionale. Modalità di trattazione delle pratiche”, con individuazione
delle malattie derivanti da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro e
riconduzione nei meccanismi propri della malattia professionale non tabellata,
e nel D.M. 27 aprile 2004, adottato dal Ministero del lavoro, con il quale sono
state inserite tra le malattie di possibile origine lavorativa per le quali è
obbligatoria la denuncia ai sensi e per gli effetti dell’art. 139 del d.P.R. n.
1124/1965, anche (Lista II – gruppo 7) le “malattie psicosomatiche da
disfunzioni dell’organizzazione del lavoro”;
7.tali atti, com’è noto, sono stati annullati dal
Giudice amministrativo (vedi: Consiglio di Stato, Sez. VI, 17 marzo 2009, n.
1576) ma, principalmente facendo riferimento alla sentenza della Corte
costituzionale n. 179 del 1988, questa Corte ha manifestato la tendenza a
considerare l’art. 2087 c.c. – in combinazione con gli artt. 32 e 41 Cost. –
come uno strumento volto a tutelare la salute del lavoratore nell’ambiente di
lavoro da tutti i possibili rischi, anche prima dell’entrata in vigore
dell’art. art. 28, comma 1, del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 che contiene
l’espressa consacrazione in via legislativa della ricomprensione nella tutela
antinfortunistica dei rischi collegati allo stress lavoro-correlato, nel più
ampio e indistinto genus dei rischi di natura psico-sociale, definito secondo
il richiamo all’Accordo Europeo dell’8 ottobre 2004, recepito in Italia
dall’Accordo Interconfederale del 9 giugno 2008;
8. secondo gli orientamenti maturati nel suindicato
percorso interpretativo questa Corte (come risulta da Cass. n. 15580/2022 –
punto 4.1 della motivazione), è pervenuta alle seguenti conclusioni:
– è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra
l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti
pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello
soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21
maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684), e ciò a prescindere
dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta
connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti
astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente
inquadrabile nell’ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione
intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di
lavoro o di chi per lui è ragione di violazione dell’art. 2087 c.c.;
– è configurabile lo straining quando vi siano
comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente,
anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n.
18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844), ma
anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il
mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori
(Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291), anche qui, al di là delle denominazioni,
lungo la falsariga della responsabilità dolosa o anche colposa del datore di
lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva
della salute ancora secondo il paradigma di cui all’art. 2087 c.c.;
– peraltro, le nozioni di mobbing e straining hanno
natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici, e
servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con
l’art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli
ambienti di lavoro (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291 e altre);
– quindi, è comunque configurabile la responsabilità
datoriale a fronte di un mero inadempimento — imputabile anche solo per colpa –
che si ponga in nesso causale con un danno alla salute (ad es. applicazione di
plurime sanzioni illegittime: Cass. 20 giugno 2018, n. 16256; comportamenti che
in concreto determinino svilimento professionale: Cass. 20 aprile 2018, n.
9901), e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti
a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 c.c.);
– si resta invece al di fuori della responsabilità
ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente
usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 29 gennaio 2013, n.
3028) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi
consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio
2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972);
9. specificamente in materia di straining, è stato
precisato che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema
antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia
del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di
correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di
lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i
diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni
lavorative stressogene (cd. straining), e a tal fine il giudice del merito, pur
se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli
episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a
valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità,
frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto –
possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più
tenue danno (Cass. n. 3291/2016; v. anche Cass. n. 18164/2018);
10.alla luce delle presenti osservazioni, in
accoglimento per quanto ragione dei primi due motivi di ricorso, la causa deve
essere cassata con rinvio per il riesame nel merito della domanda risarcitoria
del lavoratore, tenendo conto, in diritto, del principio per cui rientra
nell’obbligo datoriale di protezione di cui all’art. 2087 c.c., in interazione
con il diritto del lavoratore alle mansioni corrispondenti all’inquadramento di
cui all’art. 2103 c.c., la tutela contro le tecnopatie da costrittività
organizzativa, potendosi configurare lo straining quando vi siano comportamenti
stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, o anche nel
caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di
un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, quale
condizione di lavoro lesiva della salute;
11.è invece inammissibile per difetto di specificità
il terzo motivo, con il quale parte ricorrente deduce violazione degli artt.
112 e 277 c.p.c. e nullità della sentenza (ai sensi dell’art. 360, n. 3 e 4,
c.p.c.), per avere erroneamente la Corte respinto le domande di risarcimento
dei danni costituenti uno sviluppo di quelle originarie, oggetto di appello
incidentale;
12.in tema di ricorso per cassazione, l’esercizio
del potere di esame diretto degli atti del giudizio di merito, riconosciuto alla
S.C. ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone
l’ammissibilità del motivo, ossia che la parte riporti in ricorso, nel rispetto
del principio di autosufficienza, gli elementi ed i riferimenti che consentono
di individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio suddetto,
così da consentire alla Corte di effettuare il controllo sul corretto
svolgimento dell'”iter” processuale senza compiere generali verifiche
degli atti (Cass. n. 23834/2019; v. anche Cass. n. 2771/2017, n. 342/2021);
13.al giudice del rinvio, che si individua nella
medesima Corte d’Appello di Genova in diversa composizione, è demandata anche
la regolazione delle spese del presente giudizio di Cassazione;
P.Q.M.
Accoglie per quanto di ragione il primo e secondo
motivo di ricorso, inammissibile il terzo.
Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi
accolti e rinvia alla Corte d’Appello di Genova in diversa composizione, anche
per le spese.