Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 novembre 2022, n. 33823

Tributi, IRPEF, Trattamento di previdenza integrativa
aziendale, Prestazione liquidata in forma capitale, Regime fiscale

 

Rilevato che

 

1. M.R., dirigente E. in quiescenza, deducendo che
in data anteriore al 1993 aveva aderito al sistema di previdenza integrativa
aziendale (P.I.A.), che successivamente aveva trasferito la sua posizione al
Fondo E. il quale, in sede di liquidazione, aveva sottoposto la somma
corrispostagli alla tassazione propria del trattamento di fine rapporto mentre,
a suo dire, doveva essere trattata come reddito da capitale con aliquota al
12,50 per cento, agì davanti alla Commissione tributaria provinciale di Torino,
impugnando il diniego opposto alla sua istanza di rimborso.

La C.T.P. accolse la domanda e riconobbe il diritto
al rimborso delle trattenute operate, in misura eccedente il 12,50 per cento,
dal sostituto d’imposta in occasione della liquidazione, sotto forma di
capitale, del trattamento di previdenza integrativa aziendale.

2. Con sentenza n. 37/02/08, depositata il 19
settembre 2008, la C.T.R. del Piemonte confermò la sentenza di primo grado.

3. L’Agenzia delle entrate propose ricorso per la
cassazione della sentenza, denunciando violazione e falsa applicazione degli
artt. 13, comma 9, del d.lgs. n. 124 del 1993; 1, comma 5, del d.l. n. 669 del
1996, convertito in l. n. 30 del 1997; 6 della l. n. 482 del 1985; 16 e 17 del
d.P.R. n. 917 del 1986; 3, 4, 5, e 6 dell’accordo E.-Fndai del 16 aprile 1986 e
difetto di motivazione.

Il contribuente propose ricorso incidentale.

La Corte di cassazione, con ordinanza n. 30328 del
2011 depositata in data 30 dicembre 2011, accolse il ricorso dell’Agenzia e,
cassata la sentenza impugnata, rinviò la causa alla C.T.R. per una nuova
decisione, in considerazione del principio statuito dalle S.U. con la sentenza
n. 13642 del 22 giugno 2011, resa in controversia analoga, secondo la quale
<<in tema di fondi previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in
forma capitale ad un soggetto che risulti iscritto, in epoca antecedente
all’entrata in vigore del d. lgs. n. 124 del 1993, ad un fondo di previdenza
complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa
previdenziale prevalente, sono soggette al seguente trattamento tributario: a)
per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000, la prestazione è
assoggettata al regime di tassazione separata di cui agli artt. 16, comma 1
lett. a) e 17 del TUIR, solo per quanto riguarda la “sorte capitale”
corrispondente alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre alle somme
provenienti dalla liquidazione del c.d. rendimento si applica la ritenuta del
12,50%, prevista dall’art 6 della Legge n. 482 del 1985; b) per gli importi
maturati a decorrere dal 1 gennaio 2001 si applica interamente il regime di
tassazione separata di cui agli artt. 16, 1 lett. a) e 17 del TUIR>>.

La Corte ribadì che la ritenuta del 12,50 per cento,
prevista dall’art. 6 della l. n. 482 del 1985, dovesse essere applicata solo
sulle somme provenienti dalla liquidazione del cd. rendimento, per tale dovendo
intendersi, in base al citato arresto delle S.U., <<il rendimento netto
imputabile alla gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale
accantonato>>, rimettendo quindi alla C.T.R. i necessari accertamenti.

3. La C.T.R., con la sentenza oggi impugnata, in
sede di rinvio, parzialmente riformando la sentenza di primo grado, confermò il
rimborso disposto dai primi giudici nella minor somma di euro 121.745,18,
avendo il contribuente rinunciato a parte della domanda.

In particolare, evidenziò che il sistema di
previdenza integrativa aziendale (P.I.A.) era una forma previdenziale interna,
le cui somme erano oggetto di un vincolo di destinazione; per cui, all’epoca
dei fatti, tali forme pensionistiche non erano obbligate a ricorrere ad una
gestione assicurativa e la gestione delle risorse era affidata al datore di
lavoro che poteva investire all’interno della propria attività economica, pur
nel vincolo di erogazione della prestazione; così inquadrata la questione,
proseguì la C.T.R., dall’attestazione rilasciata dall’E. risultavano i
contributi a carico del dirigente e quelli a carico dell’azienda nonché la
somma finale conseguita, per cui la differenza tra quest’ultima e i primi non
era altro che il rendimento derivante dall’impiego del capitale all’interno
dell’azienda, individuando pertanto in tale somma la base imponibile da tassare
in misura agevolata, dovendosi ricondurre il riferimento al mercato, di cui
alla decisione della Suprema Corte, all’impiego del capitale per ottenere un
rendimento non essendo rilevante se ottenuto dal datore di lavoro o da
investimenti esterni all’azienda.

4. Contro tale decisione ha proposto ricorso
l’Agenzia delle entrate, con un solo motivo.

Gli eredi di M.R. hanno depositato controricorso.

Il ricorso è stato fissato per la camera di
consiglio del 27 ottobre 2022, ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e
380-bis 1, cod. proc. civ., il primo come modificato ed il secondo introdotto
dal d.l. 31/08/2016, n. 168, conv. in legge 25/10/2016, n. 197, per la quale i
controricorrenti hanno depositato memoria.

 

Considerato che

 

1. L’Agenzia censura la sentenza impugnata con unico
motivo di ricorso, con cui deduce la violazione o falsa applicazione del
combinato disposto degli artt. 1, comma 2, del d.lgs. 31/12/1992, n. 546, 384
cod. proc. civ. e 2697 e seguenti cod. civ., sotto il profilo dell’art. 360,
primo comma, n. 4, cod. proc. civ..

In particolare, il primo motivo esprime diverse
censure.

In primo luogo, l’Agenzia deduce che il giudice del
rinvio abbia trascurato il principio di diritto enunciato dall’ordinanza di
rinvio della Cassazione, secondo cui l’aliquota del 12,50 per cento poteva
trovare applicazione limitatamente alla somma liquidata a titolo di cd.
rendimento; il <<rendimento>> era da intendersi come somma erogata
a titolo di rendita finanziaria e maturata fino al 31 dicembre 2000 e
precisamente la somma derivante dagli investimenti sul mercato del capitale
accantonato e non la quota meramente residuale rispetto alla somma versata a
titolo di contributo, come chiarito anche dalla successiva giurisprudenza di
legittimità.

L’ufficio finanziario aggiunge che, in realtà, nella
fattispecie concreta non esisteva alcun rendimento nel senso indicato dalla
sentenza di rinvio, perché il fondo P.I.A. non era un fondo interno con
accantonamento a bilancio dell’E. e non aveva mai svolto, né poteva svolgere,
attività di investimento sui mercati finanziari, con la necessaria conseguenza
che nessun rendimento derivante da tale investimento fosse ipotizzabile.

In terzo luogo, essa deduce che i giudici della
C.T.R., non ponendo in essere le indagini che erano stati chiamati a svolgere,
si siano limitati a recepire acriticamente la tesi di parte, in base alla
certificazione prodotta dalla stessa, che invece non provava affatto che le
risorse accantonate dall’E. fossero state effettivamente investite nel mercato
ma si limitava a indicare un importo complessivo, qualificato arbitrariamente
come rendimento, della cui provenienza non forniva alcuna spiegazione.

1. 2. Il controricorrente eccepisce e deduce: a) che
il motivo di ricorso sia inammissibile in quanto mira ad una revisione degli
accertamenti in fatto operati dalla C.T.R.; b) che sussista piena prova del
rendimento netto sul quale operare la tassazione del 12,50 per cento, in
considerazione della mancata contestazione operata dall’ufficio e della
certificazione dell’E. rilasciata dal dottor P.B., dotato di tutti i poteri al
riguardo; c) la infondatezza del motivo poiché quando le Sezioni Unite hanno
fatto riferimento al rendimento netto imputabile alla gestione sul mercato del
capitale accantonato, da parte del fondo, hanno inteso riferirsi alla
fattispecie FondE., ove c’era un fondo pensione complementare a tutti gli
effetti, e non alla diversa fattispecie del P.I.A., come emergerebbe dal
riferimento, nella stessa sentenza, all’oggetto della tassazione agevolata nel
<<rendimento di polizza>>; d) che il rendimento non sia
individuabile in quello tratto dall’investimento nel mercato finanziario e si
debba individuare nella differenza pari al rendimento di polizza, cioè alla
differenza tra capitale versato e capitale erogato.

2. Le censure vanno esaminate congiuntamente e sono
fondate.

La disamina della questione postula, di necessità,
una sintetica

illustrazione del quadro giurisprudenziale di
riferimento in tema di regime fiscale delle prestazioni erogate dai fondi di
previdenza integrativa aziendale all’atto della cessazione del rapporto di
lavoro.

3. A decorrere dall’1 gennaio 1986 (in base al quarto
comma dell’art. 12 del CCNL del 16 maggio 1985, recepito dall’E.) venne
prevista a favore dei dirigenti E. la stipula di un’assicurazione sulla vita
con la previsione contrattuale dell’erogazione di una prestazione al momento
del collocamento a riposo.

Successivamente, sempre nel 1986, a seguito di
apposita richiesta delle rappresentanze sindacali dei dirigenti, tale
previsione venne modificata con l’accordo tra l’E. e la Federazione nazionale
dirigenti di aziende industriali (Fndai), in virtù del quale venne sostituito
il trattamento assicurativo di cui sopra con un rapporto di previdenza
pensionistica integrativa (c.d. P.I.A., ovvero Previdenza Integrativa
Aziendale) con prestazioni da erogare in forma di trattamento periodico (ciò
peraltro con efficacia retroattiva al 1° gennaio 1986).

Tale forma di previdenza venne però dismessa nel
1998 e i fondi accumulati trasferiti a FondE., Fondo di Previdenza integrativa
esterno, chiamato a gestire una forma di previdenza complementare a
capitalizzazione individuale, che dava diritto, ai dirigenti E. che vi avevano
aderito e che ne facevano richiesta al momento della cessazione del rapporto di
lavoro, alla liquidazione dell’intero capitale accumulato in luogo della
rendita vitalizia (Cass. 2/03/2018, n. 4941; Cass. 26/04/2017, n. 10285).

Quanto al regime fiscale di tale prestazione, alla
tesi dei contribuenti secondo cui il capitale richiesto, in quanto originato da
un contratto assicurativo, dovesse essere assoggettato alla ritenuta a titolo
di imposta nella misura del 12,50 per cento, ai sensi dell’art. 6 l.
26/09/1985, n. 482 (e ciò quantomeno sulla differenza tra l’ammontare del
capitale corrisposto e quello dei premi riscossi, ridotta del 2 per cento per
ogni anno successivo al decimo se il capitale era corrisposto dopo almeno dieci
anni dalla conclusione del contratto, ai sensi dell’art. 42, comma 4,
t.u.i.r.), si contrapponeva quella dell’Amministrazione finanziaria, secondo
cui, invece, l’erogazione in oggetto non poteva considerarsi come reddito di
capitale in dipendenza di un contratto assicurativo sulla vita, ma come reddito
di lavoro dipendente, soggetto a tassazione separata ai sensi degli artt. 16,
comma 1, lett. a), e 17 t.u.i.r..

4. Su tale materia intervennero le sentenze
«gemelle» delle Sezioni Unite (oltre alla già citata Cass., Sez. U., n. 13642
del 2011, le contestuali ed identiche sentenze distinte dai numeri da 13643 a
13653), le quali, statuendo proprio in ordine al fondo P.I.A. costituito
dall’E., enunciarono, a risoluzione di contrasto insorto tra le sezioni
semplici della Corte, il principio di diritto per il quale in tema di fondi
previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma capitale ad un
soggetto che risulti iscritto, in epoca antecedente all’entrata in vigore del
d.lgs. 21/04/1993, n. 124, ad un Fondo di previdenza complementare aziendale a
capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono
soggette al seguente trattamento tributario: a) per gli importi maturati fino
al 31 dicembre 2000, la prestazione è assoggettata al regime di tassazione
separata di cui agli artt. 16, primo comma, lett. a), e 17 del d.P.R.
22/12/1986, n. 917 (t.u.i.r.), solo per quanto riguarda la «sorta capitale»
corrispondente all’attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione del
rapporto di lavoro, mentre alle somme provenienti dalla liquidazione del
«rendimento netto» si applica la ritenuta del 12,50 per cento, prevista
dall’art. 6 della legge 26/09/1985, n. 482; b) per gli importi maturati a
decorrere dai 1 gennaio 2001 si applica interamente il regime di tassazione
separata di cui agli artt. 16, primo comma, lett. a), e 17 del t.u.i.r..

Di tale principio ha fatto applicazione la Corte
nell’ordinanza con cui ha rinviato la causa alla C.T.R. del Piemonte,
specificando che per rendimento dovesse «intendersi, in base al citato arresto
delle S.U. n. 13642 del 2011, “il rendimento netto” imputabile alla
gestione sul mercato da parte del Fondo del capitale accantonato».

5. La successiva elaborazione pretoria si è
concentrata (anche per dissipare divergenti letture), in primo luogo, nella
definizione del concetto di «rendimento netto», individuato negli importi
rinvenienti dall’effettivo investimento sul mercato, da parte del fondo, del
capitale accantonato    (ex aliis, Cass.
29/12/2011, n. 29583; Cass. 12/01/2012, n. 280; Cass. 04/04/2012, n. 5376;
Cass. 25/05/2012, n. 8320; Cass. 27/03/2013, nn. 7724-7728; Cass. 22/05/2013,
nn. 12491-12496; Cass. 02/10/2013, n. 22492; Cass. 09/10/2013, n. 22950; Cass.
12/02/2014, n. 3132; Cass. 12/02/2014, n. 3136; Cass. 19/03/2014, n. 6380;
Cass. 09/04/2014, n. 8310; Cass. 04/02/2015, n. 1977; Cass. 22/05/2015, n.
10604; Cass. 13/01/2017, n. 720; Cass. 23/11/2020, n. 26543).

Più specificamente, si è ritenuto che integrino il
cd. rendimento netto «le somme derivanti dall’effettivo investimento del
capitale accantonato sul mercato, non anche quelle calcolate attraverso
l’adozione di riserve matematiche e di sistemi tecnico-attuariali di
capitalizzazione, al fine di garantire la copertura richiesta dalle prestazioni
previdenziali concordate» (così Cass. 26/04/2017, n. 10285; Cass. 18/10/2017,
n. 24525; Cass. 24/07/2018, n. 19621; Cass. 19/06/2018, n. 16116; Cass.
02/04/2018, n. 4943).

6. Sia in ricorso che in memoria il contribuente
sostiene che, però, per la P.I.A., il «rendimento» è il mero rendimento di
polizza cui si riferirebbe la sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 13643
del 2011; cita anche altri precedenti, tra cui Cass. 10/06/2016, n. 11941 e
Cass. 12/05/2017, n. 11836, in riferimento alla P.I.A., che riterrebbero
sufficiente una gestione matematico-attuariale nonché alcune decisioni più
remote, chiedendo anche la rimessione alle SS.UU. ai fini della composizione
del contrasto.

Questa Corte ha già rilevato, con numerosissime e
recenti decisioni (Cass. 28/03/2022, n. 9959; Cass. 29/11/2021, n. 37206; Cass.
21/10/2021, n. 29479; Cass. 19/07/2021, n. 20617; Cass. 1/06/2021, n. 15199;
Cass. 13/05/2021, n. 12860; Cass. 6/03/2019, n. 6514; Cass. 15/06/2018, n.
15853; Cass. 30/10/2018, n. 27585; Cass. 30/10/2018, n. 27610, in motivazione)
che non risulta fondata la tesi della necessità di una distinta considerazione
tra P.I.A. e F.E., ossia tra rendimenti degli accantonamenti operati prima del
1998 nel fondo denominato P.I.A. e rendimenti riferibili invece alla gestione
F.E. del periodo successivo, finalizzata a ritenere i primi comunque
assoggettabili al detto meccanismo, in ragione di una presunta natura
assicurativa della prestazione.

Tali decisioni sono ormai nettamente prevalenti e
consolidate nella giurisprudenza di questa Corte (adde Cass. 29/12/2011, n.
29583; Cass. 12/01/2012, n. 280; Cass. 04/04/2012, n. 5376; Cass. 25/05/2012,
n. 8320; Cass. 27/03/2013, nn. 7724 – 7728; Cass. 22/05/2013, nn. 12491-12496;
Cass. 02/10/2013, n. 22492; Cass. 09/10/2013, n. 22950; Cass. 12/02/2014, n.
3132; Cass. 12/02/2014, n. 3136; Cass. 19/03/2014, n. 6380; Cass. 09/04/2014,
n. 8310; Cass. 04/02/2015, n. 1977; Cass. 22/05/2015, n. 10604; Cass.
13/01/2017, n. 720; Cass. 15/06/2018, n. 15853; Cass. 19/06/2018, n. 16116, che
ha anche evidenziato come tali considerazioni risultino confermate dalla
relazione n. 32/99 della Corte dei Conti – sezione del controllo sugli enti-
proprio sul bilancio consuntivo dell’E. relativo all’esercizio finanziario
1997; Cass. 12/07/2022, n. 22005).

6.1. Né la tesi dei controricorrenti può comunque
fondarsi sul ripetuto arresto delle Sezioni Unite, che invero descrivono il
fondo de quo in termini chiari e univoci, e senza alcuna distinzione rispetto
alle diverse configurazioni succedutesi nel tempo, quale «fondo di previdenza
complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa
previdenziale prevalente» le cui prestazioni sono composte «da una “sorte
capitale”, costituita dagli accantonamenti imputabili ai contributi versati
dal datore di lavoro (e in notevole minor misura dal lavoratore), e da un
“rendimento netto”, imputabile alla gestione sul mercato da parte del
fondo del capitale accantonato»; data tale premessa non può dubitarsi – anche
per la congiunzione «sicché» che lega i due periodi da nesso logico di
conseguenzialità – che il successivo riferimento testuale al «rendimento di
polizza (nella fattispecie P.I.A.)» abbia solo un valore
descrittivo/esemplificativo della parte dei capitali corrisposti eventualmente
tassabile nella misura del 12,50 per cento ai sensi dell’art. 6 l. n. 482 del
1985, fermo restando il requisito poco prima indicato perché un tale rendimento
possa effettivamente identificarsi, rappresentato dall’essere lo stesso
discendente dalla «gestione sul mercato del accantonato» (Cass. 1/06/2021, n.
15199; Cass. 23/11/2020, n. 26543; Cass. 15/06/2018, n. 15853).

7. Di recente, questa Corte ha poi ancora precisato
che il requisito del rendimento non va circoscritto ai soli (eventuali)
investimenti nel mercato finanziario (valori mobiliari, strumenti finanziari),
potendo assumere rilievo a tale scopo anche altri tipi di mercato (Cass.
07/11/2019, n. 28688; Cass. 03/05/2019, n. 11637; Cass. 18/04/2019, n. 10907).

Resta in ogni caso esclusa l’operatività della
minore tassazione rispetto alle somme versate dal contribuente a fondi
previdenziali che non abbiano mai investito sul mercato; del pari, non può
qualificarsi come «rendimento» quello corrispondente alla redditività sul
mercato dell’intero patrimonio E. (cioè il rapporto tra il margine operativo
lordo e il capitale investito), poiché tale coerenza rappresenta il risultato
di un predeterminato calcolo di matematica attuariale e non già il frutto
dell’investimento di accantonamenti sul libero mercato (Cass. 12/11/2019, n.
29205; Cass. 30/10/2018, n. 27610; Cass. 19/06/2018, n. 16116; Cass.
15/06/2018, n. 15853).

8. Dal punto di vista processuale, il contribuente
che impugna il rigetto dell’istanza di rimborso è attore in senso sostanziale;
come tale egli è onerato di provare il fondamento della pretesa azionata, cioè
è tenuto a dimostrare: se il fondo abbia impiegato sul mercato il capitale
accantonato; quale (e quanto) sia stato il rendimento di gestione conseguito da
tale impiego; in qual modo sia stata determinata l’assegnazione delle eventuali
plusvalenze alle singole quote individuali del fondo attribuite al dipendente,
onde individuare la parte dell’indennità ricevuta da ascrivere a rendimenti da
investimenti sul mercato (oltre alle pronunce citate sopra, vedi Cass.
23/11/2020, n. 26543; Cass. 18/11/2020, n. 26198; Cass. 02/04/2020, n. 7660;
Cass. 28/02/2020, n. 5494).

E, come ha espressamente precisato questa Corte,
siffatto onere probatorio non può ritenersi sufficientemente assolto tramite il
mero rinvio «al conteggio proveniente dall’E., prodotto dal contribuente, che
non contiene alcuna specificazione sui criteri utilizzati per la
quantificazione della voce rendimento, così da chiarire se si tratta
effettivamente di incremento della quota individuale del Fondo attribuita al
dipendente in forza di investimenti effettuati dal gestore sul mercato» (Cass.
20/10/2020, n. 22847; Cass. 26/03/2019, n. 8429; Cass. 16/03/2017, n. 13281;
Cass. 15/03/2017, n. 13278).

9. A tali principi non si è attenuto il giudice del
rinvio che ha ritenuto che all’epoca dei fatti le forme pensionistiche come la
P.I.A. non fossero obbligate a ricorrere alla gestione assicurativa e quindi la
gestione delle risorse poteva essere affidata al datore di lavoro che poteva
investirle anche all’interno della propria attività economica purché
rispettasse il vincolo di erogazione della prestazione, dando pertanto, al
termine di tale considerazione, rilevanza ad un’attestazione rilasciata dall’E.
dalla quale risultano i contributi a carico del dirigente dell’azienda e il
rendimento conseguito, individuato come differenza tra la somma versata e la
somma erogata.

Così facendo, la C.T.R. ha espressamente affermato
che le somme accantonate non erano investite sul mercato (il che invece – giova
ripeterlo – costituisce un indefettibile prius logico rispetto alla verifica
del rendimento di gestione) e identificato, ciononostante, il rendimento
nell’intera differenza tra capitale versato e capitale erogato, disattendendo
il vincolo imposto da questa Corte nella sentenza di cassazione con rinvio.

Sul punto occorre precisare, con riferimento alla
dedotta mancata contestazione da parte dell’Ufficio della natura e dell’entità
del rendimento indicato dalla contribuente, che occorre avere riguardo al
principio, già espresso nella specifica materia da questa Corte (cfr. Cass.
12/07/2022, n. 22005; Cass. 25/09/2019, n. 23870; Cass. 12/05/2016, n. 9732),
secondo cui «in tema di contenzioso tributario, il difetto di specifica
contestazione dei conteggi funzionali alla quantificazione del credito oggetto
della pretesa dell’attore- contribuente che abbia articolato istanza di
rimborso di un tributo, può avere rilievo solo quando si riferisca a fatti non
incompatibili con le ragioni della contestazione dell’an debeatur, poiché il
principio di non contestazione opera sul piano della prova e non contrasta né
supera il diverso principio per cui la mancata presa di posizione sul tema
introdotto dal contribuente non restringe il thema decidendum ai soli motivi
contestati se sia stato chiesto il rigetto dell’intera domanda».

Nel caso in esame, come evincibile dagli atti del
giudizio, l’Ufficio ha sin dall’inizio negato in radice l’esistenza stessa del
preteso diritto del contribuente al rimborso e, quindi, l’esistenza dei presupposti
dell’applicabilità dell’aliquota del 12,50 per cento alla fattispecie; nel che
è chiaramente ricompresa anche la contestazione circa la natura e l’eventuale
ammontare del preteso rendimento.

10. La sentenza impugnata deve essere pertanto
cassata perché non si è attenuta ai principi indicati da questa Corte nella
sentenza di cassazione con rinvio.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di
fatto, la causa può essere decisa nel merito con il rigetto dell’originario
ricorso del contribuente.

In effetti risulta ammesso che le somme accantonate
dai fondi P.I.A. e F.E. non sono state mai investite nel mercato finanziario o
di riferimento e la circostanza è confermata dalla stessa C.T.R.

Pertanto, il ricorso dell’Agenzia è fondato, e,
cassata la sentenza impugnata, la causa deve essere decisa nel merito con il
rigetto della domanda di rimborso.

11. Ne segue la condanna dei controricorrenti al
pagamento delle spese di lite del giudizio di legittimità, nella misura
liquidata in dispositivo, con compensazione delle spese dei gradi di merito in
considerazione della evoluzione giurisprudenziale intervenuta sulla vicenda.

 

P.Q.M.

 

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e,
decidendo nel merito, rigetta il ricorso; condanna D.J. e R.G. al pagamento delle
spese di lite del giudizio di legittimità in favore dell’Agenzia delle entrate,
che liquida in euro 6.000,00, oltre spese prenotate a debito; compensa le spese
dei gradi di merito.

 

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