Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 novembre 2022, n. 33639

Demansionamento, Mobbing, Responsabilità del datore, Danno
differenziale, Diritto al risarcimento

Fatti di causa

 

1. Con sentenza dell’8 novembre 2013, il Tribunale
di Palermo, adito da G.T. che aveva convenuto la datrice di lavoro S. Spa,
rigettò la domanda del lavoratore volta a sanzionare il comportamento
asseritamente mobbizzante della società “in ragione della carenza di prova
riguardo la dedotta strategia dolosa” e ritenuta, invece, “la prova del
demansionamento del lavoratore a partire dal 2006”, condannò la S. Spa al
risarcimento del solo danno patrimoniale per un totale di euro 40.800,00.

Il Tribunale respinse anche la richiesta di
risarcimento del danno biologico e del danno esistenziale e morale, avuto
riguardo, per il primo, “alla pregiudiziale copertura pubblica apprestata
dall’Inail, non evocato in giudizio”, e, per il secondo, “al connotato proprio
di danno differenziale, non adeguatamente dedotto dalla parte che non aveva
specificato in quale misura l’indennizzo assicurativo garantito dall’Istituto
non era in grado di ristorare il pregiudizio alla sfera relazionale e
soggettiva dell’assicurato”.

2. Interposto gravame da entrambe le parti, la Corte
di Appello di Palermo, con la sentenza qui impugnata, ha rideterminato in
complessivi euro 48.450,00 il risarcimento del danno patrimoniale dovuto dalla
società, confermando per il resto la pronuncia di primo grado.

La Corte, conformemente al primo giudice, ha escluso
in fatto l’esistenza, allegata dall’attore, “di una macchinazione dolosa
finalizzata all’emarginazione del lavoratore nel proprio ambiente di lavoro”.

Parimenti ha, tuttavia, confermato la
“sottoutilizzazione del T.”, lasciato in larga parte inoperoso, con la conseguente
responsabilità contrattuale del datore di lavoro e l’obbligo a risarcire il
danno come innanzi quantificato.

Quanto ai motivi di gravame del lavoratore avverso
“il diniego delle voci di danno non patrimoniale”, la Corte territoriale ha
affermato che “la liquidazione dell’indennizzo a carico dell’Inail si configura
come una vera e propria condicio iuris della domanda risarcitoria in difetto
della quale il danneggiato non può agire nei confronti del responsabile
civile”, mentre nella specie non vi era traccia che il ricorrente avesse
avanzato richiesta all’Istituto.

La Corte ha aggiunto che “la lettura del ricorso di
primo grado non offre, al di là di una labiale petizione, una compiuta
illustrazione ed allegazione dei connotati di specificità del danno alla
persona – configurabili negli aspetti di peculiare penosità, di durata della
malattia, di sofferenze psichiche apprezzabili – che avrebbero potuto
giustificare la richiesta del cd. danno differenziale”.

3. Per la cassazione di tale decisione ha proposto
ricorso il Sig. T., affidando l’impugnazione a quattro motivi; la società ha
resistito con controricorso.

4. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

 

Ragioni della decisione

 

1. I motivi di ricorso possono essere come di
seguito sintetizzati:

1.1. con il primo si denuncia la violazione e la
falsa applicazione dell’art. 13
d.lgs. n. 38 del 2000 e degli artt. 1 e 3 DPR n. 1124 del 1965 per
avere la Corte territoriale escluso “la possibilità di un’azione diretta nei
confronti del datore di lavoro per il ristoro del danno biologico, e comunque
dei danni non patrimoniali, conseguenti una malattia psico-somatica, quale è
quella per la quale il T. ha agito”;

1.2. col secondo mezzo si denuncia ancora la
violazione dell’art. 13 del d.lgs.
n. 38 del 2000, unitamente all’art. 10 del DPR n. 1124 del 1965,
sostenendo diffusamente la legittimazione passiva del datore di lavoro per il
risarcimento del danno cd. differenziale;

1.3. il terzo motivo denuncia la “violazione e falsa
applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. con riferimento ai testi D. e V.”,
criticando la sentenza impugnata per avere escluso “la allegata macchinazione
dolosa finalizzata all’emarginazione del lavoratore nel proprio ambiente di
lavoro” ed invitando questa Corte a cassare la pronuncia impugnata e rinviare
ad altro giudice “che proceda ad una nuova organica e complessiva valutazione
dei vari elementi probatori acquisiti”;

1.4. con l’ultimo motivo si denuncia la violazione
degli artt. 2 Cost. e 2103 c.c. per avere la sentenza impugnata negato
il “diritto del lavoratore ad essere risarcito dei danni tutti non patrimoniali
di cui al demansionamento subito”.

2. Il primo, il secondo e il quarto motivo, da
valutare congiuntamente per la loro reciproca connessione, sono fondati nei
sensi espressi dalla motivazione che segue.

Preliminarmente deve essere respinta l’eccezione,
sollevata dalla controricorrente, di “inammissibilità del ricorso per carenza
di interesse ad agire in considerazione della mancata impugnazione del capo di
sentenza relativo alla mancata allegazione e prova dei danni non patrimoniali
asseritamente subiti”, atteso che specificamente nel quarto motivo di ricorso
si impugna il passo di sentenza di secondo grado che si riferisce alle
allegazioni concernenti il danno non patrimoniale e si richiama “l’integrale
contenuto del ricorso di primo grado, dal cui complessivo contenuto appaiono
chiare le allegazioni spese e le domande complessivamente articolate,
ricomprendenti la richiesta di risarcimento dei danni tutti non patrimoniali
subiti”.

2.1. In tema di reciproca interferenza delle regole
che presiedono il sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni
sul lavoro e le malattie professionali con le azioni di risarcimento del danno
promosse dal lavoratore colpito da eventi cagionati dall’espletamento
dell’attività lavorativa, sono stati affermati da questa Corte taluni principi
che costituiscono oramai ius receptum e vanno qui richiamati e ribaditi.

2.1.1. Ai sensi dell’art. 10, comma 1, D.P.R. n. 1124
del 1965, l’assicurazione obbligatoria prevista dal decreto citato esonera
il datore di lavoro dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro e
le malattie professionali, nell’ambito dei rischi coperti dall’assicurazione,
con i suoi limiti oggettivi e soggettivi, per cui laddove la copertura
assicurativa non interviene per mancanza di presupposti, l’esonero non opera;
in tali casi, per il risarcimento dei danni convenzionalmente definiti
“complementari”, vigono le regole generali del diritto comune
previste in caso di inadempimento contrattuale (principio ribadito da questa
Corte, sulla scorta di Corte cost. n. 356 del 1991,
più volte: Cass. n. 1114 del 2002; Cass. n. 16250 del 2003; Cass. n. 8386 del
2006; Cass. n. 10834 del 2010; Cass. n. 9166 del 2017).

2.1.2. L’esonero del datore di lavoro non opera
anche quando ricorre il meccanismo previsto dai commi dell’art. 10 citato successivi al
primo, allorquando venga accertato che i fatti da cui deriva l’infortunio o la
malattia “costituiscano reato sotto il profilo dell’elemento soggettivo e
oggettivo” (così Corte cost. n. 102 del 1981),
per cui la responsabilità permane “per la parte che eccede le indennità
liquidate” dall’INAIL ed il risarcimento “è dovuto” dal datore
di lavoro. Di qui la nozione di danno cd. “differenziale”, inteso
come quella parte di risarcimento che eccede l’importo dell’indennizzo coperto
dall’assicurazione obbligatoria e che resta a carico del datore di lavoro ove
il fatto sia riconducibile ad un reato perseguibile d’ufficio; parallelamente
l’art. 11 del D.P.R. n. 1124
del 1965, nella ricorrenza del medesimo presupposto, consente all’INAIL di
agire in regresso nei confronti del datore di lavoro “per le somme pagate
a titolo di indennità” (cfr. Cass. n. 9166 del 2017).

2.1.3. E’ escluso “che le prestazioni
eventualmente erogate dall’INAIL esauriscano di per sé e a priori il ristoro
del danno patito dal lavoratore infortunato od ammalato” (principio
affermato a partire da Cass. n. 777 del 2015, con molte successive conformi,
tra cui: Cass. n. 13689 del 2015; Cass. n. 3074
del 2016; Cass. n. 9112 del 2019).

Con la conseguenza che il lavoratore potrà
richiedere al datore di lavoro il risarcimento del danno cd.
“differenziale”, allegando in fatto circostanze che possano integrare
gli estremi di un reato perseguibile d’ufficio, ed il giudice, accertata in via
incidentale autonoma l’illecito di rilievo penale, potrà liquidare la somma
dovuta dal datore, detraendo dal complessivo valore monetario del danno
civilistico, calcolato secondo i criteri comuni, quanto indennizzabile
dall’INAIL, con una operazione di scomputo che deve essere effettuata ex officio
ed anche se l’Istituto non abbia in concreto provveduto all’indennizzo (Cass.
n. 9166 del 2017; successive conformi: Cass. n. 13819 del 2017; Cass. n. 20932
del 2018; da ultimo, Cass. n. 22021 del 2022).

2.1.4. Il giudice di merito, dopo aver calcolato il
danno civilistico, deve procedere alla comparazione di tale danno con
l’indennizzo erogato dall’Inail secondo il criterio delle poste omogenee,
tenendo presente che detto indennizzo, oltre al danno patrimoniale, ristora
unicamente il danno biologico permanente e non gli altri pregiudizi che
compongono la nozione pur unitaria di danno non patrimoniale (Cass. n. 1322 del 2015; Cass. n. 20807 del 2016).
Pertanto, occorre dapprima distinguere il danno non patrimoniale dal danno
patrimoniale, comparando quest’ultimo alla quota INAIL rapportata alla
retribuzione e alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato;
successivamente, con riferimento al danno non patrimoniale, dall’importo
liquidato a titolo di danno civilistico vanno espunte le voci escluse dalla
copertura assicurativa (danno morale e danno biologico temporaneo) per poi
detrarre dall’importo così ricavato il valore capitale della sola quota della
rendita INAIL destinata a ristorare il danno biologico permanente (Cass. n. 9112 del 2019; v. pure Cass. n. 8580 del
2019).

2.1.5. Tutti i richiamati principi sono stati
confermati anche da Cass. n. 12041 del 2020,
la quale ha aggiunto che la disciplina prevista dagli artt. 10 e 11 del d.P.R. n. 1124
del 1965 deve essere interpretata nel senso che l’accertamento incidentale
in sede civile del fatto che costituisce reato, sia nel caso di azione proposta
dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno
cd. differenziale, sia nel caso dell’azione di regresso proposta dall’Inail,
deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità
contrattuale, anche in ordine all’elemento soggettivo della colpa ed al nesso
causale fra fatto ed evento dannoso.

2.2. Tanto esposto in diritto, la sentenza impugnata
deve essere cassata in relazione alle censure proposte con i motivi in esame in
quanto erra laddove ritiene la liquidazione dell’indennizzo a carico dell’INAIL
come condicio iuris per la proposizione della domanda risarcitoria nei
confronti del datore di lavoro e, pur ritenendo l’illecito datoriale
rappresentato dal demansionamento inflitto al lavoratore, non procede all’accertamento
e alla liquidazione dei danni non patrimoniali sulla base dei principi di
diritto innanzi richiamati.

2.2.1. Non può neanche essere condiviso il rilievo
della Corte di Appello per il quale il ricorso di primo grado introduttivo del
giudizio non avrebbe illustrato ed allegato compiutamente i “connotati di
specificità del danno alla persona che avrebbero potuto giustificare la
richiesta di cd. danno differenziale”.

In tale rilievo si scorge l’adesione a rigorose
opinioni dottrinali, seguite anche da giurisprudenza di merito, secondo cui la
domanda di danno differenziale, ai fini dell’accoglimento, dovrebbe contenere
non solo una puntuale e formale qualificazione dei fatti in termini di
illiceità penale ma anche la specifica deduzione del preteso quantum in termini
differenziali rispetto all’indennizzo INAIL, liquidato o liquidabile.

Questa Corte ha, invece, statuito (v., in
particolare, Cass. n. 9166/2017 cit.) che, ai fini dell’accertamento del danno
differenziale, è sufficiente che siano dedotte in fatto dal lavoratore
circostanze che possano integrare gli estremi di un reato perseguibile
d’ufficio, sottolineando che anche la violazione delle regole di cui all’art. 2087 c.c., norma di cautela avente carattere
generale, è idonea a concretare la responsabilità penale (Corte cost. n. 74 del 1981; Cass. n. 1579 del 2000). Spetterà poi al giudice
il compito di qualificare giuridicamente i fatti e sussumerli nell’alveo della
fattispecie penalistica, accertando autonomamente ed in via incidentale la
sussistenza del reato. Inoltre la richiesta del lavoratore di risarcimento dei
danni, patrimoniali e non, derivanti dall’inadempimento datoriale, è idonea a
fondare un petitum rispetto al quale il giudice dovrà applicare il meccanismo
legale previsto dall’art. 10
d.P.R. n. 1124/65, pur dove non sia specificata la superiorità del danno
civilistico in confronto all’indennizzo, atteso che, rappresentando il
differenziale normalmente un minus rispetto al danno integrale preteso, non può
essere considerata incompleta al punto da essere rigettata una domanda in cui
si richieda l’intero danno. In proposito è opportuno rammentare la
giurisprudenza di questa Corte che, in materia di azioni di risarcimento del
danno, pone in rilievo non la qualificazione formale ma la natura e le
caratteristiche del pregiudizio stesso (v. Cass. n. 12236 del 2012). Inoltre è
stato affermato più volte che la domanda di risarcimento del danno non
patrimoniale è una domanda di carattere onnicomprensivo e che l’unitarietà del
diritto al risarcimento e la normale non frazionabilità del giudizio di
liquidazione comportano che, quando un soggetto agisca in giudizio per chiedere
il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del
convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate
da quella condotta; ne consegue che, laddove nell’atto introduttivo siano indicate
specifiche voci di danno, a tale specificazione deve darsi valore meramente
esemplificativo dei vari profili di pregiudizio dei quali si intenda ottenere
il ristoro, a meno che non si possa ragionevolmente ricavarne la volontà di
escludere dal petitum le voci non menzionate (Cass. n. 22514 del 2014; Cass. n.
23147 del 2013; Cass. n. 3718 del 2012; Cass. n. 17879 del 2011; Cass. n. 26505
del 2009).

2.2.2. Di recente, rispetto ad analoga pronuncia
della medesima Corte palermitana, è stata ritenuta “intrinsecamente
contraddittoria, date le premesse poste dalla stessa Corte di merito, la
successiva affermazione secondo cui mancherebbero nella domanda elementi atti a
giustificare la richiesta di danno differenziale, in quanto, se neppure si è
ritenuto di esaminare, per la preclusione ritenuta ingiustificatamente
esistente, se fosse liquidabile un indennizzo INAIL ed a quanto sarebbe
ammontato e per quali voci, non si vede come si possa poi argomentare
sull’assenza, nei danni lamentati da chi agisce, di tratti idonei a fondare un
quantum differenziale, trattandosi di ragionamento astratto rispetto a
fattispecie che postula invece un calcolo in concreto del danno civilistico e
quindi una detrazione, secondo i parametri propri del settore (criterio delle
c.d. poste omogenee: Cass. 2 aprile 2019, n. 9112)
delle somme dovute o pagate dall’ente” (in termini: Cass. n. 19182 del 2022).

2.3. Una volta sgomberato il campo dalla tesi che
“la liquidazione dell’indennizzo a carico dell’INAIL configura una vera e
propria condicio iuris” preclusiva, appare opportuno al Collegio, per
completezza, evidenziare che, pur essendo stato escluso nel giudizio di fatto,
in entrambi i gradi di merito della presente controversia, l’esistenza “di una
macchinazione dolosa finalizzata all’emarginazione del lavoratore nel proprio
ambiente di lavoro”, nondimeno ciò non elide affatto la responsabilità del
datore di lavoro per i danni alla persona subiti dal lavoratore a causa di un
inadempimento degli obblighi datoriali, anche a titolo di mera colpa.

2.3.1. Come noto, le nozioni di mobbing, così come
quella di straining, hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma
rilevanza ai fini giuridici; nella sostanza servono soltanto per identificare
comportamenti che si pongono in contrasto con l’art.
2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli
ambienti di lavoro (cfr. Cass. n. 3291 del 2016;
Cass. n. 32257 del 2019).

Tuttavia, per comodità di sintesi espressiva, in
plurime decisioni di questa Corte si ricorre alla definizione di mobbing
lavorativo, di cui, però, analiticamente si indicano i tratti
individualizzanti: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti
o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio,
siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e
prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo
preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo
dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità
del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il
pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella
propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio
unificante di tutti i comportamenti lesivi (tra le altre: Cass. n. 28858 del
2008; Cass. n. 3785 del 2009; Cass. n. 18927 del 2012; Cass. n. 17698 del 2014;
Cass. n. 24029 del 2016; Cass. n. 12437 del 2018; Cass. n. 24883 del 2019; v. anche Corte cost. n. 359 del 2003).

L’elemento qualificante della fattispecie va
ricercato proprio nel soggettivo intento persecutorio che avvince la pluralità
delle condotte pregiudizievoli attuate nei confronti della vittima, a prescindere
dalla legittimità o illegittimità dei singoli atti (cfr. Cass. n. 26684 del 2017), “in quanto la concreta
connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti
astrattamente legittime” (così Cass. n. 16580 del
2022).

2.3.2. Anche laddove non si riscontri il carattere
della continuità e della pluralità delle azioni vessatorie (Cass. n. 18164 del 2018) o le stesse siano comunque
limitate nel numero (Cass. n. 7844 del 2018)
può comunque giustificarsi la pretesa risarcitoria ex art. 2087 c.c. nel caso in cui si accerti che le
condotte datoriali inadempienti risultino comunque produttive di danno
all’integrità psico-fisica del lavoratore.

E’ l’ipotesi qualificata anche in giurisprudenza –
con definizione mutuata dalla psicologia – come straining: una forma attenuata
di mobbing, nella quale non si riscontra la continuità delle azioni vessatorie,
in quanto la condotta nociva può realizzarsi anche con una unica azione isolata
o, comunque, con più azioni prive di continuità che determinino, con efficienza
causale, una situazione di stress lavorativo causa di gravi disturbi
psico-somatici o anche psico-fisici o psichici (per tutte, v. Cass. n. 3291 del 2016; più di recente v. Cass. n. 2676 del 2021, che ha, però, escluso il
cd. straining in presenza di “situazioni di amarezza”, causate dal cambio di
posizione lavorativa per processi di riorganizzazione e ristrutturazione che
abbiano coinvolto l’intera azienda, nonché Cass. n. 24339 del 2022, che non ha,
invece, ravvisato ragioni di responsabilità in un caso di divergenza
interpersonale sul luogo di lavoro che non configuri, come tale, una situazione
di nocività dell’ambiente lavorativo).

Dal punto di vista processuale, si è più volte
precisato che non può considerarsi preclusiva di una valutazione della condotta
come straining la prospettazione, nel ricorso di primo grado, di tale condotta
come mobbing, non sussistendo alcuna novità della questione, trattandosi
soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale (in tali
sensi le già citate Cass. n. 3291/2016; Cass. n. 7844/2018; Cass.
n. 18164/2018).

2.3.3. Può aggiungersi che, avuto riguardo ai rischi
collegati allo stress lavoro-correlato che il datore di lavoro è tenuto a
prevenire, vi è quale paramento normativo, fonte di un obbligo che rappresenta
ulteriore specificazione del più generale canone presidiato dall’art. 2087 c.c., l’art. 28 del T.U. n. 81 del 9 aprile
2008, in base al quale è compito del datore di lavoro la valutazione di
“tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi
quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui
anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti
dell’Accordo europeo dell’8 ottobre 2004 […]”. Accordo sottoscritto dalle
parti sociali a livello comunitario sullo “stress da lavoro”, definito come uno
“stato, che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o
sociali” che, in caso di “esposizione prolungata”, può “causare problemi di
salute” (par. 3) e che, pertanto, investe la “responsabilità dei datori di
lavoro […] obbligati per legge a tutelare la sicurezza e la salute dei
lavoratori” (par. 5).

2.3.4. In questa prospettiva di progressiva
rilevanza della dimensione organizzativa quale fattore di rischio per la salute
dei lavoratori si alimenta l’obbligazione di sicurezza gravante sul datore di
lavoro.

Nei più recenti arresti di questa Corte, si è
evidenziato che, al di là delle denominazioni, lungo la falsariga della
responsabilità dolosa o anche colposa del datore di lavoro che indebitamente
tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute secondo il
paradigma di cui all’art. 2087 c.c., è comunque
configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento —
imputabile anche solo per colpa – che si ponga in nesso causale con un danno
alla salute e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori
conseguenti a responsabilità contrattuale (artt.
1218 e 1223 c.c.); si resta invece al di
fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità
intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione
lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di
qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (in termini, Cass. n. 15159 del 2019; Cass. n. 16580 del 2022).

2.3.5. Pertanto, alla stregua di tutte le
argomentazioni esposte, nella controversia che ci occupa, anche dopo che è
stata esclusa una “macchinazione dolosa” nei confronti del Sig. T., essendo
stato, invece, acclarato che il lavoratore versava “in condizioni di
sostanziale inoperosità”, con progressivo “svuotamento” delle mansioni
affidate, il giudice del rinvio dovrà accertare se da tale condotta del datore
di lavoro, anche se colposa, siano causalmente derivati danni alla persona del
lavoratore a contenuto non patrimoniale e provvedere alla loro liquidazione.

3. Accolti i motivi sopra scrutinati, deve, invece,
essere dichiarato inammissibile il terzo mezzo, in quanto propone chiaramente
una diversa valutazione delle testimonianze esplicitamente evocate a sostegno
della censura, proponendo un sindacato che esorbita dai poteri concessi a
questa Corte di legittimità (da ultimo, sempre nel campo del risarcimento dei
danni asseritamente subiti a cause di condotte vessatorie e persecutorie patite
dal lavoratore, v. Cass. n. 27813 del 2021).

4. Conclusivamente, dichiarato inammissibile il
terzo motivo di ricorso, vanno accolti il primo, il secondo e il quarto nei
sensi espressi dalla presente motivazione, con cassazione della sentenza
impugnata in relazione alle censure ritenute fondate e rinvio al giudice
indicato in dispositivo che si uniformerà a quanto statuito e provvederà anche
alle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il primo, il secondo e il quarto motivo di
ricorso, dichiara inammissibile il terzo, cassa la sentenza impugnata in
relazione alle censure ritenute fondate e rinvia alla Corte di Appello di
Palermo, in diversa composizione, anche per le spese.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 novembre 2022, n. 33639
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