Eventuali clausole elastiche nel part time non giustificano il calcolo della contribuzione sul minor orario stabilito con contratto individuale.
Nota a Cass. 11 ottobre 2022, n. 29718
Flavia Durval
La Corte di Cassazione (11 ottobre 2022, n. 29718, in linea con App. Roma n. 1892/2021) si pronuncia sulla invalidità delle clausole elastiche nel part time volte a legittimare lo svolgimento della prestazione per orari inferiori rispetto a quelli pattuiti nei contratti individuali, con conseguente “pretesa datoriale di calcolare la contribuzione su ore di lavoro asseritamente prestate in meno rispetto a quelle pattuite”. Secondo le deduzioni difensive aziendali, infatti, le “riduzioni” orarie – nonché, di riflesso, retributive e contributive – operate avrebbero trovato legittimazione nell’esercizio datoriale delle c.d. “clausole elastiche”, formalmente convenute, a livello “individuale”, nella fase costitutiva dei rapporti.
Nello specifico, i giudici ribadiscono che “la regola del c.d. minimale contributivo, che deriva dal principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto alle vicende dell’obbligazione retributiva, opera anche con riferimento all’orario di lavoro, che va parametrato a quello previsto dalla contrattazione collettiva, o dal contratto individuale, se superiore; ne deriva che la contribuzione è dovuta anche in caso di assenze o di sospensione concordata della prestazione – come anche di minore richiesta di fatto di prestazioni, (n.d.r.) – che non trovino giustificazione nella legge o nel contratto collettivo, bensì in un accordo tra le parti che derivi da una libera scelta del datore di lavoro” (v. anche Cass. n. 16859/2020 e Cass. n. 15120/2019, annotata in q. sito da K. PUNTILLO).
L’affermazione si pone in linea con quanto enunciato dalla Corte Costituzionale (20 luglio 1992, n. 342) secondo cui– “una retribuzione (…) imponibile non inferiore a quella minima (è) necessaria per l’assolvimento degli oneri contributivi e per la realizzazione delle finalità assicurative e previdenziali, (in quanto) se si dovesse prendere in considerazione una retribuzione imponibile inferiore, i contributi determinati in base ad essa risulterebbero tali da non poter in alcun modo soddisfare le suddette esigenze” (così, Cass. n. 21479/2020).
Com’è noto, in merito alla contribuzione previdenziale, l’art. 1, D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, dispone che la “base di calcolo” non può risultare inferiore “all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale”, mentre, l’art. 6, co.4, D.LGS. n. 81/2015 prevede che: “nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, le parti del contratto di lavoro a tempo parziale possono pattuire, per iscritto, clausole elastiche relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa ovvero relative alla variazione in aumento della sua durata”. In altri termini, quindi, la possibilità di pattuire individualmente clausole di flessibilità (nel rispetto di eventuali altre regole della contrattazione collettiva) riguarda le ricollocazioni dell’orario o le variazioni in aumento della sua durata, non le riduzioni di essa.
Nel senso che la “rigidità” normativa del part-time trova causa nel carattere essenziale, per il lavoratore, della programmabilità del tempo libero, che ne giustifica, dunque, la tendenziale immodificabilità dell’orario di lavoro (v. Cass. 31 marzo 2021, n. 8958).