Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 novembre 2022, n. 33892

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Cameriera,
Obbligo di repechage, Violazione, Esclusione

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza in data 18 aprile 2019, la Corte
d’Appello di Brescia ha confermato la decisione di primo grado che aveva
respinto la domanda proposta da A. M., volta ad ottenere che venisse dichiarata
l’illegittimità e/o l’inefficacia e/o l’invalidità del licenziamento intimatole
dalla società A. s.r.l. con condanna della convenuta al pagamento di una
indennità risarcitoria da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità ai sensi
dell’art. 3, co. 1, D. Lgs. n. 23 del 2015.

Aveva dedotto, in particolare, la ricorrente, di
essere stata assunta da A. s.r.l. il 16 settembre 2015 con contratto a tempo
determinato, poi convertito, il 6 marzo 2016, in contratto a tempo
indeterminato, per svolgere le mansioni di cameriera ai piani, secondo la
declaratoria del CCNL, Turismo, presso l’Hotel E. di Desenzano, aggiungendo di
essere stata licenziata per giustificato motivo oggettivo in data 25 febbraio
2017 ma che il licenziamento doveva reputarsi illegittimo in guanto la società
non si trovava in una situazione di crisi né aveva esigenze di contenimento dei
costi.

2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso,
assistito da memoria, A. M. affidandolo a tre motivi.

2.1. Resiste, con controricorso, la A. s.r.l.

 

Considerato in diritto

 

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la
violazione e falsa applicazione della 1. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5, della I.
n. 300 del 1970, come novellata dalla legge n. 92 del 2012 e degli artt. 1175,
1375 e 2697 cod. civ. allegandosi la violazione dell’obbligo di repechage;

Con il secondo motivo si allega la violazione
dell’onere della prova con riferimento all’obbligo di repechage, sotto il
profilo dell’art. 5 L n. 604 del 1966 e 2697 cod. civ..

Con il terzo motivo si censura la decisione
impugnata per violazione e falsa applicazione – degli artt. 1175 e 1375 cod.
civ., della legge n. 223 del 1991, art. 5, alla luce della legge n. 104 del
192, della Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 e della
Direttiva 2000/78/CE, in relazione all’art. 360 co. 1, n. 3, cod. proc. civ..

Tutti e tre i motivi, da esaminarsi congiuntamente
per l’intima connessione, oltre ad essere inammissibilmente formulati in modo
promiscuo, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e
sussunzione delle censure, denunciando violazioni di legge e vizi di
motivazione senza che nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di
impugnazione risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o
dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità (v.,
in particolare, sul punto, Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 17931 del 2013;
Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 20355 del 2008; Cass. n. 9470 del 2008), nella
sostanza, contestano l’accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine
alla ritenuta legittimità del licenziamento.

Relativamente alla denunziata violazione dell’art.
2697 cod. civ., va osservato che, per consolidata giurisprudenza di legittimità
(ex plurimis, Cass. n. 18092 del 2020), la doglianza relativa alla violazione
del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. è configurabile soltanto nell’ipotesi
in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da
quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma e che
tale ipotesi non ricorre nel caso di specie.

In via di premessa, giova ribadire che, in tema di licenziamento
per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del
recesso, che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva e
all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una migliore
efficienza gestionale ovvero a un incremento di redditività, determinino un
effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di
un’individuata posizione lavorativa: non essendo la scelta imprenditoriale, che
abbia comportato la soppressione del posto di lavoro, sindacabile nei suoi
profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost.
(Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201; Cass. 3 maggio 2017, n. 10699); sempre che,
s’intende, dette ragioni incidano, in termini di causa efficiente, sulla posizione
lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato, soltanto così non risultando il
recesso pretestuoso (Cass. 29099 del 2019; Cass. 28 marzo 2019, n. 8661).

Quanto all’onere di repechage, in caso di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo a causa della soppressione del
posto cui era addetto il lavoratore, il datore ha l’onere di provare non solo
che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro
analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche,
in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al
dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in
mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale (Cass. 13 agosto
2008, n. 21579; Cass. 8 marzo 2016, n. 4509; Cass. 6 dicembre 2018, n. 31653).

L’art. 2103 c.c. deve, infatti, essere interpretato
alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire
un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e di quello del lavoratore
al mantenimento del posto, in coerenza con la ratio di numerosi interventi
normativi, quali l’art. 7, quinto comma d. lg. 151/2001, l’art. 1, settimo
comma L. 68/1999, l’art. 4, undicesimo comma d.lg. 223/1991 anche come da
ultimo riformulato dall’art. 3, secondo comma d.Ig. 81/2015: senza necessità,
ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, di
un patto di demansionamento o di una richiesta del lavoratore in tal senso
anteriore o contemporanea al licenziamento, essendo onere del datore di lavoro,
in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al
dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con
il suo bagaglio professionale (Cass. 19 novembre 2015, n. 23698).

La Corte territoriale ha esattamente applicato i su
enunciati principi di diritto, in base ad accertamento in fatto congruente con
le scrutinate risultanze di effettiva soppressione del posto del lavoratore per
incontestata esternalizzazione della sua attività, dallo stesso espressamente
riconosciuta e di inesistenza di posti disponibili del livello
dell’inquadramento considerato, mentre non risulta oggetto di contestazione
l’offerta di mansione inferiore.

D’altro canto, occorre considerare che il presente giudizio
di cassazione, ratione temporis, è soggetto non solo alla nuova disciplina di
cui all’art. 360, co. 1, n. 5, cod. proc. civ., in base alla quale, le sentenze
possono essere impugnate per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio
che è stato oggetto di discussione fra le parti”, ma anche a quella di cui
all’art. 348 ult. cc) . cod. proc. civ., secondo cui il vizio in questione non
può essere proposto con il ricorso per cessazione avverso la sentenza d’appello
che confermi la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato
ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado, ossia
non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d, doppia conforme (v.
sul punto, Cass, n. 4223 del 2016; Cass. n. 23021 del 2014).

Conseguentemente, non possono trovare ingresso nel
presente giudizio di legittimità tutte quelle censure che attengono alla
ricostruzione della vicenda storica come operata dai giudici di merito, anche
in ordine alla tempestività della procedura disciplinare, e che lamentano una
errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo della critica alla
valutazione giudiziale delle risultanze di causa, sia perché formulate in modo
difforme rispetto ai principi enunciati da Cass. SS.UU. n. 8053 del 2014, che ha
rigorosamente interpretato il novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. limitando
la scrutinabilità al c.d. “minimo costituzionale”, sia nella parte in
cui attingono questioni di fatto in cui la sentenza di appello ha confermato la
pronuncia di primo grado.

Nel caso di specie, ciò che parte ricorrente
contesta è, sostanzialmente, l’assunzione, nei tre mesi successivi al
licenziamento, di altra lavoratrice, con mansioni di aiuto – Cuoca (sebbene con
contratto a tempo determinato), mansioni che assume corrispondenti a quelle di
cameriera ai piani da lei espletate.

In via di premessa, occorre ribadire (come ancora
recentemente da: Cass. n. 6948 del 2019; Cass. 25 ottobre 2018, n. 27094) che,
qualora la riorganizzazione imprenditoriale sia modulata non già sulla
soppressione tout court della posizione lavorativa, ma, piuttosto, sulla
riduzione di personale in una porzione dell’ambito organizzativo, si pone una
questione (invece inconferente nella diversa ipotesi di soppressione di
posizione lavorativa: Cass. 7 giugno 2017, n. 14178) di valutazione comparativa
tra lavoratori di pari livello, interessati dalla riduzione ed occupati in
posizione di piena fungibilità (Cass. 21 dicembre 2016, n. 26467; Cass. 14
giugno 2007 n. 13876; Cass. 3 aprile 2006, n. 7752). E che essa deve essere
compiuta nel rispetto del principio di correttezza e buona fede
nell’individuare il dipendente da licenziare (Class. 13 ottobre 2015, n. 20508;
Cass. 11 giugno 2004 n. 11124): anche attingendo ai criteri indicati dall’art.
5 della I. 223/1991, quale standard idoneo ad assicurare una scelta conforme a
tale canone, non potendo tuttavia escludersi l’utilizzabilità di altri criteri,
purché non arbitrari, improntati a razionalità e graduazione delle posizioni
dei lavoratori interessati (Cass. 28 marzo 2011, n. 7046; Cass. 7 dicembre
2016, n. 25192).

Nel caso di specie, tuttavia, risulta integralmente
esternalizzato il settore pulizie mentre non si comprende in che modo possano
essere reputate fungibili le mansioni di aiuto — cuoca e quelle di addetta alla
pulizia ai piani affidate alla ricorrente, in assenza di qualsivoglia idonea
allegazione al riguardo.

Giova premettere, in merito, che hanno precisato le
Sezioni Unite di questa Corte (Cass. n. 34469 del 27/12/2019), non solo che
sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c. p. c., le
censure afferenti a domande di cui non vi sia compiuta riproduzione nel
ricorso, ma anche quelle fondate su atti e documenti del giudizio di merito
qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza
riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali
indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza
dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta
presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero
ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di
parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità.

D’altra parte, è consolidato il principio secondo
cui i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità,
dall’art. 366, comma c. p. c., un. 3, 4 e 6, devono essere assolti
necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti,
come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente
specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando
precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in
giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o
indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale
fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il
contenuto nel ricorso (ex Cass. n. 29093 del 13/1 1 / 20 18).

Occorre, poi, considerare che, come affermato in
sede di legittimità, (Cfr., Cass. n. 6255 del 2019) nel giudizio di cassazione,
l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi – imposto, a pena di
improcedibilità del ricorso, dall’art. 369, comma 2, n. 4, c. p. c. – può dirsi
soddisfatto solo con la produzione del testo integrale del contratto
collettivo, adempimento rispondente alla funzione nornofilattica della Corte di
cassazione necessario per l’applicazione del canone ermeneutico previsto dall’art.
1363 c. c.; né, a tal fine, può considerarsi sufficiente il mero richiamo, in
calce al ricorso, all’intero fascicolo di parte del giudizio di merito, ove
manchi una puntuale indicazione del documento nell’elenco degli atti.

Nessun elemento è stato addotto da parte ricorrente
da cui possa evincersi la lamentata lesione in termini di assunzione di profilo
sostanzialmente sovrapponibile al proprio anche se a tempo determinato, talchè
deve concludersi per l’inammissibilità di tale profilo di censura che si
estende, altresì, alla genericamente indicata disparita di trattamento in
considerazione dell’applicazione della legge n. 104 del 1992 per l’invalidità,
anch’essa genericamente allegata, da cui risulterebbe affetta la ricorrente. In
assenza di puntuali allegazioni di segno contrario, in violazione di quanto
stabilito dall’art. 366 cod. proc. civ., deve, quindi, escludersi qualsivoglia
violazione dei principi antidiscriminatori dettati dalla Direttiva 2000/78/CE,
nonché dell’invocata Convenzione delle Nazioni Unite oltre che i principi di
buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ.

Alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il
ricorso va respinto.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate
come in dispositivo.

Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.
1 – bis dell’ articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente
alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite,
che liquida in complessivi euo 3000,00 per compensi € 200,00 per esborsi, oltre
spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1
quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a
norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

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