Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 novembre 2022, n. 34031
Cessazione del rapporto di lavoro, Tentativo obbligatorio di
conciliazione, Intervento del Fondo di Garanzia, Versamento di differenze sul
TFR e di altri crediti da lavoro
Fatti di causa
Si controverte della possibilità di includere tra le
ultime tre mensilità della retribuzione, indennizzabili dal Fondo di garanzia
gestito dall’INPS ai sensi del D.
Lgs. n. 80 del 1992, art. 2, comma 1, (nella specie la mensilità di luglio
2002), quella dall’anno antecedente alla richiesta con cui A.B. ha attivato,
nei confronti del datore di lavoro inadempiente, il tentativo obbligatorio di
conciliazione dinanzi alla Direzione Provinciale del lavoro prima
dell’instaurazione del relativo giudizio.
Con ricorso depositato presso il Tribunale di
Brescia, A.B. aveva convenuto in giudizio l’INPS quale gestore del Fondo di
Garanzia per ottenere il versamento di differenze sul TFR e di altri crediti da
lavoro diversi dal TFR ex art.
2 D.L.gs 92/80. In via amministrativa, l’INPS aveva accolto la domanda
limitatamente al TFR, ritenendo che il restante credito non fosse coperto dalla
garanzia del Fondo in quanto non rientrava nei dodici mesi precedenti i termini
indicati dall’art. 2 comma 1
d.lgs. 80/1992. In particolare, il dies a quo a ritroso non poteva
individuarsi nella data in cui era stato promosso il tentativo di conciliazione
data la natura precontenziosa e non giurisdizionale dello stesso tentativo.
Il ricorrente, già dipendente della C.M.G.d.D.M. dal
1° al 31 luglio 2002, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, aveva promosso
istanza di conciliazione ex art. 410 c.p.c. in
data 23 giugno 2003 (con esito negativo per mancata presentazione del datore di
lavoro), successivamente (7 ottobre 2003) aveva adito l’autorità giudiziaria al
fine di ottenere la condanna della datrice di lavoro al pagamento della
mensilità non erogata. Il Tribunale accoglieva la domanda (con sentenza del 3
ottobre 2007) ma rimaneva infruttuosa l’esecuzione forzata della sentenza.
Il lavoratore, respinta la domanda proposta all’INPS
Fondo di garanzia, aveva quindi adito il Tribunale di Brescia che rigettava la
domanda, ritenendo che non potesse essere presa in considerazione la data di
deposito dell’istanza del tentativo di conciliazione in quanto il termine dei
12 mesi delimita l’ambito di operatività della garanzia e non è quindi soggetto
alle regole della prescrizione e della sua interruzione. La Corte territoriale
di Brescia, su impugnazione di B.A., ha rigettato il gravame condividendo la
sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Brescia
ricorre B.A. con un motivo, illustrato da successiva memoria.
Resiste l’INPS con controricorso e successiva
memoria.
Ragioni della decisione
Con l’unico motivo di ricorso, proposto con
riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) c.p.c.,
parte ricorrente lamenta la violazione degli artt. 1 e 2 D.Igs. 27 gennaio 1992
n. 80 in combinato disposto con gli artt. 410,
412 e 412 bis
c.p.c., per non avere la Corte territoriale tenuto conto della ratio
sottesa alla L. 297/1982 direttamente fondata
sulla Direttiva CEE 987/80; la normativa
europea, infatti, avrebbe come scopo quello di riavvicinare le legislazioni
degli Stati membri ed anche di garantire che gli organismi preposti assicurino
il rispetto dei diritti non soddisfatti dei lavoratori subordinati (relativi
alla retribuzione del periodo situato prima di una determinata data).
Il ricorrente evidenzia la finalità del complesso
normativo -comunitario e nazionale- di garantire ai lavoratori una tutela
concreta ed effettiva a fronte di una situazione evidentemente critica e
richiama, a tal fine, l’insegnamento di Cassazione. Sez. IV n. 1178 del 2099 e
della sentenza della CGUE 10 luglio 1997 C-373/1995,
sottolineando come la normativa europea richieda che il Fondo debba soddisfare
il requisito dell’effettività della tutela, che nel caso di specie non sarebbe
stato garantito né dal provvedimento dell’INPS, né delle autorità giudiziarie
adite; sul punto richiama Cass. Sez. IV n. 1209/2008,
Cass. n. 22011/2008, Cass. n.1106/1999, Cass. n. 1885/2005, Cass. n. 7395/2008, per
ribadire la sua necessità di un’interpretazione della legge italiana conforme
al diritto europeo e che affermi il principio secondo il quale il termine dei
dodici mesi decorrente a ritroso dalla data di inizio dell’esecuzione forzata
ex art. 1, comma 1, lettera b)
del d.lgs. 80/1992, deve essere calcolato senza tenere conto del lasso di
tempo intercorso tra la data di proposizione dell’atto di iniziativa volto a
far valere in giudizio i crediti del lavoratore, siccome necessario per la
precostituzione del titolo esecutivo e, quindi, per dare inizio all’esecuzione
forzata, e la data di formazione del titolo esecutivo. Ovviamente, alla
condizione che le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte
insufficienti a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata.
Quindi, i dodici mesi nell’ambito dei quali la
tutela deve essere garantita devono decorrere dalla data dell’istanza di
conciliazione che ha dato impulso al percorso di riscossione giudiziaria,
trattandosi di condizione di procedibilità della domanda espressamente prevista
dall’art. 412 bis c.p.c. vigente ratione
temporis e che aveva superato anche il vaglio di costituzionalità (Corte Cost. n. 276 del 2000); ciò costituirebbe la
prova che il lavoratore si è attivato e non ha lasciato decorrere il tempo
restando inerte, mentre sarebbe del tutto irragionevole non considerare come
termine a quo a ritroso dell’arco temporale in oggetto la richiesta di
tentativo di conciliazione.
Il ricorso è fondato.
La questione proposta, sebbene già abbia formato
oggetto di alcune pronunce di questa Corte di cassazione (Cass. n. 16249 del 2020, Cass. n. 38521 del 2021,
Cass. n. 41248 del 2021; Cass. n. 4041 del 2022), richiede un intervento
nomofilattico in quanto l’orientamento costituito dalle ultime tre decisioni,
risulta essersi formato in relazione ad una lettura della sentenza n. 16249 del 2020 che qui va corretta.
Tale sentenza, è fondamentale rilevare, ha avuto ad
oggetto la questione del corretto calcolo del periodo dei dodici mesi di cui si
è detto, in relazione ad una fattispecie in cui il tentativo di conciliazione
era stato sì proposto nei confronti del datore di lavoro,” ma non aveva
avuto alcun seguito a cagione dell’intervenuto suo fallimento e dell’estinzione
del relativo giudizio, neanche riassunto nei termini di legge” (vd. punto
4 in parte finale).
Si trattava, in altri termini, di una fattispecie in
cui era mancato, per inattività del lavoratore successiva alla presentazione
del tentativo di conciliazione obbligatorio, un qualsiasi accertamento
giudiziale del credito di lavoro in ordine al quale si chiedeva la tutela
previdenziale direttamente al Fondo, in mancanza anche di accertamento dei
credito in sede fallimentare.
In tale ipotesi, posta la chiusura del fallimento
prima dell’accertamento del passivo ed il conseguente ritorno del datore di
lavoro in bonis, già Cassazione n. 1886 del 2020
(più volte richiamata in adesione da Cass. 16249
del 2020) ha precisato che dalla disposizione di cui alla L. n. 297 del 1982, art. 2 <
[…] emerge chiaramente che il legislatore ha ancorato l’intervento del Fondo
alla ricorrenza di due distinte ed alternative ipotesi: da un lato, la verifica
del credito del lavoratore mediante l’insinuazione al passivo del fallimento
del datore di lavoro (art. 2,
commi 2 ss.); dall’altro lato, qualora il datore di lavoro non sia soggetto
alle disposizioni della legge fallimentare, il previo esperimento
dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito, da cui risulti
l’insufficienza, totale o parziale, delle garanzie patrimoniali del datore di
lavoro stesso (art. 2, comma
5)>. Dunque, è onere del lavoratore che intende ricorrere alla garanzia del
Fondo procurarsi un titolo esecutivo e promuovere la conseguente azione esecutiva
nei confronti della società, ovvero, a seguito della sua cancellazione, nei
confronti dei soci, i quali avrebbero risposto dei debiti sociali nei limiti di
quanto riscosso a seguito della liquidazione (così Cass.
S.U. n. 6070 del 2013)>.
Si è sottolineato che, in questi casi, il previo
esperimento di un’azione volta a conseguire un titolo esecutivo nei confronti
del datore di lavoro insolvente, costituisce piuttosto un presupposto
letteralmente e logicamente necessario, giacché, da un punto di vista
sistematico, l’accertamento giurisdizionale ovvero la sua consacrazione in un
titolo esecutivo conseguito nei confronti del datore di lavoro rappresentano la
modalità necessaria per l’individuazione della misura stessa dell’intervento
solidaristico del Fondo di garanzia, essendo l’ente previdenziale terzo
rispetto al rapporto di lavoro inter partes ed essendo nondimeno la sua
obbligazione modulata sui crediti maturati in costanza di rapporto di lavoro.
Se, dunque, l’iniziativa del lavoratore non ha
determinato il formarsi di un titolo esecutivo, l’atto con il quale tale
iniziativa si è concretizzata non assume in sostanza rilevanza ai fini del
computo dell’arco temporale di dodici mesi richiesti dal citato art. 2 d.lgs. n. 80 del 1992.
Tale conclusione poggia sulla considerazione (vd. Cass. n. 15415 del 2009) secondo cui
l’apposizione del periodo di riferimento, dodici mesi decorrenti a ritroso
dalla data di inizio dell’esecuzione, ha lo scopo, non solo di indurre
l’interessato ad agire sollecitamente, così agevolando la verifica del diritto
alla tutela da parte del Fondo di garanzia obbligato, ma soprattutto ai fini
del nesso tra retribuzioni non pagate ed insolvenza.
Infatti, secondo la pronuncia appena citata, la
misura in esame costituisce l’attuazione della direttiva
80/987/CEE sulla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza
del datore di lavoro, ed < […] è diretta a garantire, non già il generico
inadempimento da parte del datore dell’obbligazione retributiva, ma unicamente
quello che deriva dalla insolvenza del datore: solo in questo caso si consente
l’intervento del terzo, ossia dell’organismo di garanzia, che si sostituisce,
nei limiti del massimale prefissato, al datore obbligato che risulta insolvente
>.
In tale senso, è imprescindibile la determinazione
di un nesso temporale tra credito lavorativo insoddisfatto e insolvenza, contemplando
la disposizione di cui all’art.
2 cit. una presunzione ex lege per cui le retribuzioni si considerano non
pagate a causa dello stato di insolvenza, quando siano collocate temporalmente
nell’anno antecedente all’insolvenza medesima. Al contrario, ove il credito
retributivo si collochi temporalmente in periodo remoto rispetto a quello della
insolvenza, il Fondo di garanzia non ha titolo per intervenire, escludendosi
che per i diritti insorti in epoca anteriore al periodo di riferimento annuale
prefissato, l’inadempimento sia dovuto all’insolvenza.
Il dies a quo da computare a ritroso non riguarda la
data in cui la insolvenza viene accertata (tramite la verifica dell’esisto
infruttuoso dell’azione esecutiva individuale, ovvero, nei casi di fallimento,
tramite l’apertura del procedimento medesimo) ma la data, più prossima, in cui
viene proposta la domanda (cfr. Cass. n. 1885/2005,
che richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia).
La ratio è che non devono andare a detrimento del
lavoratore i tempi lunghi del procedimento concorsuale o di quello esecutivo
individuale, tuttavia, attraverso questo meccanismo, il credito retributivo non
pagato può collocarsi, temporalmente, in un momento addirittura anteriore
all’anno rispetto al momento in cui si constata la effettiva esistenza
dell’insolvenza.
Fatte queste precisazioni, va osservato che le
conclusioni cui è giunta Cass. n. 16249 del 2021
(ndr: Cass. n. 16249 del 2020) non possono estendersi alla presente
fattispecie, la quale riguarda il diverso caso in cui l’iniziativa del
lavoratore ha condotto alla consacrazione di un titolo esecutivo ed alla
consequenziale procedura, rimasta infruttuosa.
In questo caso, l’iniziativa del lavoratore va
apprezzata nel suo completo dispiegarsi attribuendo rilevanza innanzi tutto al
primo degli atti necessari al conseguimento del detto titolo esecutivo e dunque
al tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c., che, ai sensi dell’art. 412 bis c.p.c. vigente ratione temporis
(trattandosi di articolo aggiunto dall’art. 39, D.Lgs. 31 marzo 1998, n.
80 e poi abrogato dall’art.
31, comma 16, L. 4 novembre 2010, n. 183.), costituiva condizione di
procedibilità rispetto al giudizio di accertamento del credito e di condanna
del datore di lavoro.
Questa Corte (Cassazione
civile sez. lav., 01/07/2013, n.16452) ha affermato che l’imposizione di
tale condizione dì procedibilità, durante la vigenza della disposizione in
esame, costituiva deroga rispetto alla latitudine del diritto di agire in
giudizio ai sensi dell’art. 24 Cost., con
conseguente rilievo ai fini della necessaria interpretazione restrittiva e
senza mai dubitare dunque della effettiva incidenza sull’azione giudiziaria del
ricorrente.
Peraltro, la rilevanza della richiesta di
espletamento della condizione di procedibilità, ai fini della delimitazione
dell’arco temporale dei dodici mesi al cui interno si deve collocare
l’inadempimento datoriale secondo le previsioni dell’art. 2 d.lgs. n. 80 del 1992,
costituendo un filtro di accesso alla tutela giudiziaria, si risolve in
attività obbligata per il lavoratore che miri a precostituire il titolo
esecutivo e non risente della soluzione data alla questione della natura
processuale o meno del relativo procedimento (sulla quale si è espressa Cassazione civile sez. lav., 18/10/2011, n.21483
che, negando tale natura processuale, ha escluso gli effetti sospensivi della
prescrizione durante la sua pendenza).
Tale ultima pronuncia ha rimarcato che la richiesta
di tentativo di conciliazione non può confondersi con la relativa domanda
giudiziale, di cui produce unicamente l’effetto interruttivo della prescrizione
(nei termini di cui si tratta), ma non anche gli altri (numerosi) effetti
sostanziali, né quelli processuali.
In definitiva, nel caso di specie, il lavoratore ha
attivato la richiesta di espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione
ai sensi degli artt. 410 e 412 bis c.p.c.(in
data 23 giugno 2003 (con esito negativo per mancata presentazione del datore di
lavoro) e successivamente (7 ottobre 2003) ha iniziato il procedimento
giudiziario, con deposito del relativo ricorso, tutto nel rispetto del termine
annuale entro l’anno dalla cessazione del rapporto di lavoro (31 luglio 2002).
Alla sentenza di condanna nei confronti della datrice di lavoro (del 3 ottobre
2007) sono seguite le attività funzionali alla realizzazione dei diritti
tutelati esposte in ricorso, al fine di assolvere l’onere di agire in
executivis secondo l’ordinaria diligenza ai sensi del D. Lgs. n. 80 del 1992, art. 2.
La sentenza impugnata non si è attenuta al principio
sopra esposto, secondo cui < la richiesta di tentativo obbligatorio di
conciliazione (alla quale sia seguito il giudizio che ha condotto al formarsi
di un titolo infruttuosamente eseguito dal lavoratore) va considerato quale
dies a quo nel calcolo a ritroso del periodo di dodici mesi al cui interno
devono collocarsi le retribuzioni non corrisposte rilevanti per consentire
l’intervento del Fondo di garanzia>, per cui va cassata e la causa va
rinviata alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione, che
esaminerà la fattispecie facendone applicazione. Il giudice del rinvio
provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e
rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di
Brescia in diversa composizione.