Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 novembre 2022, n. 34976
Mobbing, Nesso causale tra malattia psichica e attività
lavorativa, Superlavoro, Svolgimento della prestazione con modalità ed in un
contesto indebitamente stressogeno, Accertamento
Rilevato che
1. la Corte d’Appello di Napoli ha riformato la
sentenza del Tribunale della stessa città che aveva ritenuto fondata la domanda
di risarcimento del danno per mobbing proposta da D.C., dipendente di livello
D5 dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari della Provincia di Napoli (di
seguito, IACP);
1.1 la Corte territoriale muoveva dalla premessa
che, avendo il Tribunale pronunciato con riferimento al periodo dal novembre
2002 al luglio 2004, in assenza di appello incidentale della lavoratrice si
dovesse ritenere maturato, per il periodo precedente, un giudicato interno;
da ciò la Corte territoriale traeva la conseguenza
che la domanda nei confronti dell’INAIL potesse trovare inquadramento soltanto
nell’ambito del regime di cui al d.lgs. n. 38/2000 ma riteneva al contempo che,
data la pluralità di prestazioni (indennizzo o rendita) conseguenti
all’applicazione di tale disciplina, la mera insistenza sul ristoro dei danni
subiti anche nei confronti dell’ente di previdenza fosse inidonea a consentire
una pronuncia nel merito per quanto riguardava il sistema assicurativo
pubblico;
quanto alle domande nei riguardi del datore di
lavoro, la Corte d’Appello riteneva di disaminare anche il periodo coperto dal
giudicato interno da essa ravvisato al fine di meglio chiarire le dinamiche del
rapporto lavorativo ed in proposito riteneva che non fosse emersa «alcuna
univoca prova» circa l’insostenibilità dei carichi di lavoro lamentata dalla C.
e, valorizzando alcuni elementi (svolgimento del lavoro su “settimana
corta”, assenza di lamentele da parte della dipendente che era subentrata
alla ricorrente nel medesimo servizio; assenza di menzione del sovraccarico
nelle ultime domande di trasferimento avanzate dalla C.; suddivisione del
lavoro in “gruppi”) riteneva non emergesse dagli atti alcuna prova di
una intenzionale volontà lesiva da parte dell’ente;
1.2 la Corte aggiungeva poi che fosse comprensibile,
ma non esorbitasse da aspetti fisiologici della gestione dei rapporti
lavorativi, il fatto che alla fine del 2000 in occasione della riunione del
collegio sindacale dell’ente si fossero fatti elogi ad un collega della C.,
operante nel suo medesimo settore e non a lei, così come non decisivo era un
periodo di attribuzioni lavorative di differenti attività, essendosi trattato
di episodio della durata di pochi giorni e culminato comunque con il
ristabilimento in tempi brevissimi di compiti propri del profilo professionale
della ricorrente;
ancora non vessatoria era ritenuta dalla Corte
territoriale l’apertura nei riguardi della C. di un procedimento disciplinare,
per il mancato salvataggio di alcuni dati informativi, in quanto il
procedimento era stato poi archiviato senza pratiche conseguenze, così come
veniva ritenuta non «campata in aria ed esorbitante dai limiti della
ragionevolezza» la pretesa della Dirigente degli Affari Generali, nel marzo
2004, di avere accesso all’intero protocollo informatico cui era preposta la
C., cui era seguita una analitica ed esplicita motivazione della sottrazione
alla ricorrente di tale responsabilità, con mantenimento della sola produzione
e conservazione del protocollo;
aggiungeva ancora la Corte territoriale che il
periodo di “freddezza” di rapporti seguito a quest’ultimo episodio
era durato per un tempo limitato ed era stato accompagnato da assenze dal
lavoro della C. per vari motivi: la Corte rilevava altresì la mancanza di
pregiudizi nelle schede di valutazione della dipendente, avendo ella riportato
sia valutazioni alte (per il particolare disagio e rilevanza degli incarichi),
medie (prestazione generale) e bassa soltanto con riferimento a professionalità
e disponibilità, valutazione spiegabile in ragione della non particolarmente
intensa presenza in servizio, pur giustificata dalla malattia;
sulla base di tutto ciò la Corte escludeva che anche
in questa ultima fase del rapporto di lavoro fossero emersi comportamenti
persecutori o vessatori o comunque contrastanti con gli obblighi di cui
all’art. 2087 c.c., da parte dell’ente e nei riguardi della ricorrente;
1.3 la Corte di merito riteneva infine comunque
insussistente il nesso causale tra la dedotta malattia psichica e l’attività
lavorativa svolta, rimarcando come il Tribunale avesse superato gli esiti –
sfavorevoli alla C. – della c.t.u. svolta in primo grado, sulla base di un documento
ASL neppure sottoposto al contraddittorio;
2. D.C. ha proposto ricorso per cassazione sulla
base di otto motivi, cui hanno opposto difese lo IACP e l’INAIL, ciascuna con
proprio controricorso; la C. e lo IACP hanno depositato memoria;
Considerato che
1. il primo motivo denuncia la violazione e falsa
applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) degli artt. 434, 342 e 346 c.p.c. e
contesta il mancato accoglimento dell’eccezione preliminare di inammissibilità
dell’appello, per inadeguatezza della formulazione dell’atto di gravame;
analogamente, il secondo motivo denuncia la
violazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 2909 c.c. e 100 c.p.c., sostenendo
il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado nella parte in cui essa
aveva accertato il comportamento datoriale omissivo rispetto all’adozione delle
cautele necessarie ai sensi dell’art. 2087 c.c., per mancanza di specifica
impugnazione sul punto; secondo questa S.C. «gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel
testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del
2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di
inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti
contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze,
affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti
le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di
particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di
decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della
permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di
appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a
critica vincolata» (Cass., S.U., 16 novembre 2017, n. 27199);
su tale premessa, basta fare riferimento al
riepilogo del contenuto dell’appello operato dalla sentenza qui impugnata per
rendere evidente la ricorrenza dei presupposti minimi utili all’introduzione
del gravame;
si fa infatti riferimento all’erronea valutazione
delle risultanze istruttorie (con critiche desumibili anche dal controricorso,
nella parte in cui esso riporta il contenuto dell’appello), l’assenza di
comportamento persecutorio e comunque tale da essere «sussumibile nella
violazione degli obblighi di cui all’art. 2087 c.c.», oltre all’assenza di
danno in collegamento causale con le condizioni lavorative della C.;
questi ultimi profili escludono a propria volta che
si possa ritenere non impugnata la sentenza di primo grado sotto il profilo
appunto dell’inidoneità delle condizioni di lavoro; di qui il rigetto dei primi
due motivi di ricorso;
2. il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione
e falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c., dell’art. 2909 c.c., 13 d. lgs. n.
38/2000 e degli artt. 1 e 10 d.p.r. n. 1124/1965 (art. 360 n. 3 c.p.c.) ed esso
si articola in una duplice e convergente prospettazione finalizzata a censurare
sia l’assunto della Corte territoriale in ordine alla formazione di un
giudicato interno, sia l’assunto relativo ad una inidonea formulazione della domanda
giudiziale nei confronti dell’INAIL;
il quarto motivo assume la violazione e falsa
applicazione dei principi di diritto in tema di giudizi di mobbing e dell’art.
2729 c.c., in relazione all’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c., lamentando
essenzialmente l’esame atomistico dei diversi episodi denunciati in causa;
il quinto motivo è formulato ai sensi dell’art. 360
n. 5 c.p.c. ed assume l’omesso esame dei fatti avvenuti fino all’anno 2002 e
riguardanti la denuncia del sovraccarico di lavoro, con particolare riferimento
al contenuto della risposta alla richiesta di trasferimento del 7.10.1999,
censurando poi anche le valutazioni svolte dalla Corte territoriale sui fatti
successivi al 2002;
il sesto motivo assume ancora l’omesso esame di
fatti decisivi con riferimento alle vicende successive ed in particolare al
sopravvenire di una c.t.u. nel giudizio di impugnazione del (parimenti
sopravvenuto) licenziamento della C., con la quale si riteneva sussistere il
nesso causale tra i fatti avvenuti nell’ambiente di lavoro e la patologia
psichica insorta, adducendosi poi gli analoghi i riscontri derivanti dalla
certificazione ASL già valorizzata dal Tribunale e corroborando il tutto
attraverso il richiamo alla propria perizia di parte;
profili questi ultimi che sono poi alla base anche
del settimo motivo, di taglio procedurale, in cui si lamenta il non essersi
disposta nuova c.t.u. o un confronto con l’ausiliario al fine di sottoporre al
medesimo quanto risultante dalla certificazione ASL; l’ottavo motivo adduce
infine la violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost. e 132 n. 4
c.p.c. per contraddittorietà, perplessità od obiettiva non comprensibilità
della motivazione;
3. i suddetti motivi, da esaminare congiuntamente
per la loro connessione logica, sono fondati, nei termini in cui si va a dire;
4. l’assunto della Corte territoriale in ordine al
determinarsi di un giudicato interno per il periodo anteriore al novembre 2002
non è corretto;
è pacifico che, nonostante la denuncia dei fatti
lesivi facesse risalire gli stessi ad epoca anteriore, il Tribunale abbia
esaminato soltanto il periodo successivo;
è tuttavia evidente che, a fronte della deduzione di
un complessivo comportamento quale fondamento di un diritto risarcitorio, non
si possa ritenere che il giudicato si formi su una sola porzione fattuale, in
quanto il giudicato ha per oggetto diritti e non fatti; pertanto, a introdurre
in appello il tema riguardante i fatti anteriori al novembre 2002 era del tutto
sufficiente l’insistenza su di essi da parte dell’allora appellata;
è poi vero che la Corte d’Appello, pur ritenendo il
giudicato interno, ha esaminato anche vari fatti anteriori al novembre 2002 «al
fine di meglio chiarire le dinamiche», muovendo peraltro sulla base di un
assunto in ordine al fatto che «dagli atti non emerge alcuna univoca prova
circa la insostenibilità» del carico di lavoro, da cui si desume che l’onere
probatorio veniva integralmente addossato sul lavoratore;
tuttavia, ritiene il collegio che, a fronte
dell’errore procedurale, la causa vada rimessa al giudice del rinvio per un
completo e diretto esame delle vicende lavorative anteriori al 2002, non
limitato ad una delucidazione rispetto ai fatti successivi e con applicazione
corretta degli assetti probatori, tenuto conto che in tema di c.d. “superlavoro”,
deve ritenersi che l’allegazione compiuta e precisa dello svolgimento della
prestazione secondo le modalità nocive onera il datore di comprovare il
regolare adempimento all’obbligo di garantire la sicurezza del lavoro, di cui
all’art. 2087 c.c., secondo i principi generali in tema di responsabilità
contrattuale (Cass., S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533; ma v. anche, per il
principio, Cass. 6 marzo 2006, n. 4766);
5. d’altra parte, con riferimento al nesso causale
denegato dalla Corte territoriale, coglie nel segno la censura, di cui
all’ottavo motivo, in ordine all’assenza di una reale motivazione al riguardo
una volta che si legga quella censura nella logica di cui ai precedenti sesto e
settimo motivo;
il Tribunale, a fronte di una c.t.u. sfavorevole sul
punto alla lavoratrice, aveva infatti accolto la domanda, valorizzando la
certificazione ASL con cui si attestava il nesso di causalità tra la situazione
lavorativa e la patologia insorta; la Corte d’Appello, dopo avere richiamato
gli esiti della c.t.u., rispetto a tale certificazione ASL ha censurato il
primo giudice per non avere «stimolato alcun contraddittorio con il qualificato
ed esperto ausiliare già nominato … anche al fine di verificare … con il
predetto la effettiva portata ed in ogni caso la rilevanza degli elementi presi
in considerazione nella predetta certificazione»; a ciò nulla è aggiunto e
quindi la Corte d’Appello ha finito per limitarsi ad una critica procedurale,
senza poi esaminare, pur essendo giudice del fatto, proprio quel documento e
così intercettando un difetto motivazionale palese, perché in definitiva non si
percepisce su quale base logica sia stato completamento pretermesso l’esame di
un documento di provenienza pubblica che si era espresso proprio sull’oggetto
del contendere, con difettosità ancor più significativa ove si tenga conto che,
al di là delle critiche del perito di parte alla c.t.u. svolta in questa causa,
era agli atti anche la c.t.u. svolta in altro giudizio ed in cui si concludeva
in senso favorevole rispetto al predetto nesso causale;
6. l’accoglimento delle censure riguardanti la
questione sugli anni anteriori al 2002 comporta in sé la caducazione
dell’impianto motivazionale impostato dalla Corte territoriale rispetto alla
posizione INAIL e fondato infine sull’assunto che, se quella rilevante era una
pretesa successiva al 2002, si sarebbe dovuto precisare nella domanda il tipo
di petitum rivendicato; al di là di ciò è peraltro evidente che la domanda di
«ristoro», se riguardata nei confronti dell’ente assicuratore, non poteva che
fare riferimento alle prestazioni pecuniarie tipicamente rivenienti, nell’uno o
nell’altro regime della copertura INAIL; d’altra parte, la questione della
copertura INAIL, come rileva la stessa ricorrente nella propria memoria finale,
non può che essere comunque rilevante nella presente causa, in quanto, verso il
datore di lavoro, il danno rivendicabile è solo quello differenziale (o
complementare), sicché quanto erogabile a tale titolo rileva a prescindere
dalla formulazione e dagli esiti della domanda verso il predetto ente, in
quanto il corrispondente importo va inevitabilmente detratto, secondo le
opportune modalità di calcolo (Cass. 2 aprile 2019, n. 9112), dal quantum
risarcitorio complessivamente in ipotesi calcolato a fini civilistici (Cass. 14
giugno 2022, n. 19182; Cass. 19 giugno 2020, n. 12041; Cass. 31 maggio 2017, n.
13819);
7. vanno tuttavia svolte ulteriori precisazioni;
7.1. secondo gli orientamenti maturati presso questa
S.C. si può ritenere che:
– è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra
l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti
pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello
soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21
maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684) e ciò a prescindere
dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta
connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti
astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente
inquadrabile nell’ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione
intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di
lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell’art. 2087 c.c.
e quindi di responsabilità contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui
all’art. 1225 c.c. per il caso di dolo;
– è configurabile lo straining, quando vi siano
comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente,
anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n.
18164);
– al di là di denominazioni destinate ad avere più
che altro valenza sociologica, è poi illegittimo che il datore di lavoro
consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di
danno alla salute dei lavoratori (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291), lungo la
falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente
tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè
nociva, ancora secondo il paradigma di cui all’art. 2087 c.c.;
– è comunque configurabile la responsabilità
datoriale a fronte di un mero inadempimento – imputabile anche solo per colpa –
che si ponga in nesso causale con un danno alla salute del dipendente (ad es.
applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass. 20 giugno 2018, n. 16256;
comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale: Cass. 20
aprile 2018, n. 9901) e ciò secondo le regole generali sugli obblighi
risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 c.c.);
– si resta invece al di fuori della responsabilità
ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente
pericolosa o usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 29 gennaio
2013, n. 3028; Cass. 25 gennaio 2021, n. 1509) o tutto si riduca a meri disagi
o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non
risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre
2008, n. 26972) e questa S.C. ha del resto già ritenuto che le condizioni
ordinariamente usuranti dal punto di vista psichico (Cass. 3028/2013 cit. e,
prima Cass. 21 ottobre 1997, n. 10361), per effetto della ricorrenza di
contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico, per quanto possano
eventualmente costituire fondamento per la tutela assicurativa pubblica (d.p.r.
n. 1124/1965 e d. lgs. n. 38/2000, nelle forme della c.d. “costrittività
organizzativa”), non sono in sé ragione di responsabilità datoriale, se appunto
non si ravvisino gli estremi della colpa comunque insiti nel disposto dell’art.
2087 c.c ed è evidente che, se il datore di lavoro abbia tenuto un
comportamento consono al contesto, per escludere il danno dovrebbe in realtà vietarsi
l’attività, il che non può essere se non quando la legge lo stabilisca (v.
anche Cass. 1509/2021, cit.);
7.2 tutto ciò, in relazione al caso di specie, al di
là della valutazione sul mobbing, comunque rimessa al giudice del rinvio in
ragione della più ampia platea fattuale ad esso sottoposta, permette alcune
precisazioni, nel solco di cui a Cass. 3291/2016, cit.; è vero infatti che,
rispetto a vari episodi (mancato elogio; assenza di esiti della contestazione
disciplinare; forte contrapposizione dialettica con la dirigente), la Corte
territoriale ha espresso una valutazione di non eccedenza dai margini
fisiologici della gestione dei rapporti lavorativi;
tuttavia, alla radice della causa e della cassazione
che si va a disporre vi è la valutazione di un aspetto, il c.d. superlavoro,
che certamente intercetta, almeno in astratto, un inadempimento datoriale ad
obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, rilevanti ai sensi
dell’art. 2087 c.c. (v., l’originaria Cass. 14 febbraio 1997, n. 8267 ed altre
successive; v. anche, in ambito di eccessi nella richiesta prestazionale
medica, Cass. 5 agosto 2020, n. 16711);
muovendo da ciò, è allora evidente che anche tutti i
successivi episodi, qualora si dovesse accertare che la scaturigine della
malattia della ricorrente si colloca in quella originaria dinamica impropria
del superlavoro, necessariamente dovrebbero ricevere a propria volta una nuova
valutazione, non potendosi ritenere la stessa cosa che comportamenti in sé non
illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, si manifestino
isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti,
contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità;
il che in qualche modo intercetta la denuncia –
contenuta nel ricorso per cassazione – di una necessaria valutazione
complessiva dell’accaduto, da ritenere ineludibile, sulla base di quanto sopra
detto, al fine di valutare la complessiva legittimità o meno, ai sensi
dell’art. 2087 c.c., dei comportamenti datoriali rispetto all’obbligo di evitare
lo svolgimento della prestazione con modalità ed in un contesto indebitamente
stressogeno;
7.3 in definitiva, la richiesta di prestazioni che
eccedano, sotto il profilo fisiopsichico, la portata naturalmente faticosa ed
usurante della prestazione, secondo le modalità proprie di ciascun ambito
lavorativo, costituisce inadempimento agli obblighi datoriali di cui all’art.
2087 c.c. e fonte di danno risarcibile, rispetto al quale possono avere altresì
rilievo, nel delineare la gravità concreta dell’accaduto, anche comportamenti
isolatamente non illegittimi, ma assunti nel medesimo contesto lavorativo e
tali, se valutati nella loro portata stressogena ed in connessione con i primi,
da contribuire a determinare il complessivo indebito danno alla sfera personale
del lavoratore;
8. il giudizio di cassazione va quindi definito con
il rigetto dei primi due motivi e l’accoglimento, nei sensi di cui sopra, dei
motivi dal terzo all’ottavo, rimettendosi al giudice del rinvio una nuova
valutazione dell’intera platea dei fatti denunciati dalla ricorrente, così come
sul nesso causale, secondo i principi e nella logica di quanto sopra detto;
P.Q.M.
Accoglie, nei sensi di cui in motivazione, i motivi
dal terzo all’ottavo, rigettati i primi due, cassa la sentenza impugnata in
relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa
composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di
legittimità.