Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 29 novembre 2022, n. 35109

Licenziamento, Dipendente ARAP, Applicabilità del rito Fornero, Rimedio esperibile avverso il
provvedimento conclusivo della fase sommaria, Reclamo, Inammissibilità

 

Svolgimento del processo

 

B.M. ha esposto che:

era stato assunto dall’ARAP dapprima a termine e,
poi, a tempo indeterminato a decorrere dal 10 dicembre 2002;

con delibera n. 165 del 2013 era stato inquadrato
nel profilo Q, posizione economica Q1;

la delibera n. 165 del 2013 era stata in seguito
annullata e, contro tale decisione, aveva proposto ricorso;

dal 2016 l’ARAP aveva iniziato una procedura di
licenziamento collettivo, alla quale aveva rinunciato con riferimento ai
dirigenti;

con lettera del 30 giugno 2017, l’ARAP, sul
presupposto che egli fosse inquadrato nella categoria C, gli aveva comunicato
l’intenzione di procedere al suo licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, ove non avesse accettato un demansionamento dalla categoria C a
quella B2;

non avendo aderito alla proposta di demansionamento,
il licenziamento era stato intimato.

B.M. ha impugnato presso il Tribunale di Vasto il
menzionato licenziamento chiedendo che fosse dichiarato illegittimo, con
condanna di controparte alla reintegra nel posto di lavoro, al risarcimento del
danno e alla regolarizzazione della sua posizione contributiva.

Il Tribunale di Vasto, nel contraddittorio delle
parti, con ordinanza del 10 aprile 2019 pronunciata ex art. 1, comma 48, della legge n. 92
del 2012, ha respinto il suo ricorso.

B.M. ha impugnato tale ordinanza con reclamo che il
Tribunale di Vasto, in composizione collegiale, ha dichiarato inammissibile con
provvedimento del 1 luglio 2019.

B.M. ha proposto appello che la Corte d’appello di
L’Aquila, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 162 del 2020, ha
rigettato.

B.M. ha proposto ricorso per cassazione sulla base
di due motivi.

L’ARAP ha resistito con controricorso.

Il ricorrente ha depositato memorie.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo B.M. lamenta la violazione e
falsa applicazione del d.l. n. 18 del 2020,
conv. dalla legge n. 27 del 2020, e del successivo
d.l. n. 28 del 2020, nonché dell’art. 6 CEDU, dell’art. 429 c.p.c. e degli artt.
2, 3, 24, 27 e 111 Cost. in
quanto la corte territoriale non avrebbe consentito alle parti ed ai loro
difensori di partecipare alla discussione da remoto tramite l’APP TEAMS.

Inoltre, egli contesta il fatto che il giudice di
secondo grado abbia considerato non sindacabile la qualificazione del rito
operata nel corso del processo di prime cure, nonostante il rito c.d. Fornero non fosse applicabile.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la
violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 48, della legge n. 92
del 2012 e la sua inapplicabilità ad un rapporto tra ente pubblico e
pubblico dipendente, nonché l’insussistenza della qualificazione del rito da
parte sua.

Le due doglianze possono essere trattate
congiuntamente, stante la stretta connessione, e sono infondate.

Ai sensi dell’art. 83, comma 6, d.l. n. 18 del
2020, conv. dalla legge n. 27 del 2020,
nel testo ratione temporis applicabile, “Per contrastare l’emergenza
epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento
dell’attività giudiziaria, per il periodo compreso tra il 12 maggio e il 31
luglio 2020 i capi degli uffici giudiziari, sentiti l’autorità sanitaria
regionale, per il tramite del Presidente della Giunta della Regione, e il
Consiglio dell’ordine degli avvocati, adottano le misure organizzative, anche
relative alla trattazione degli affari giudiziari, necessarie per consentire il
rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della
salute, anche d’intesa con le Regioni, dal Dipartimento della funzione pubblica
della Presidenza del Consiglio dei ministri, dal Ministero della giustizia e
delle prescrizioni adottate in materia con decreti del Presidente del Consiglio
dei ministri, al fine di evitare assembramenti all’interno dell’ufficio
giudiziario e contatti ravvicinati tra le persone. Per gli uffici diversi dalla
Corte suprema di cassazione e dalla Procura generale presso la Corte di
cassazione, le misure sono adottate d’intesa con il Presidente della Corte
d’appello e con il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte
d’appello dei rispettivi distretti”.

Il successivo comma 7 del citato art. 83, nel testo ratione
temporis applicabile, dispone, alla lettera h), che “Per assicurare le finalità
di cui al comma 6, i capi degli uffici giudiziari possono adottare le seguenti
misure:

(…)

h) lo svolgimento delle udienze civili che non
richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante
lo scambio e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole
istanze e conclusioni, e la successiva adozione fuori udienza del provvedimento
del giudice”.

Nella presente controversia, l’udienza oggetto del
contendere è stata tenuta il 14 maggio 2020.

Le disposizioni menzionate consentono, quindi, di
derogare alle previsioni del codice di rito, come l’art.
429 c.p.c., richiamato dal ricorrente, “Per contrastare l’emergenza
epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento
dell’attività giudiziaria”.

Pertanto, l’udienza di discussione orale in presenza
o la partecipazione dei difensori e delle parti tramite strumenti telematici
possono essere evitate, a condizione che non sia richiesta la presenza di
soggetti diversi dai difensori delle parti e purché siano garantiti lo scambio
e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e
conclusioni.

Sostiene il ricorrente che la partecipazione sua e
di controparte sarebbe stata necessaria per procedere al tentativo di
conciliazione.

Peraltro, si rileva che tale partecipazione
rappresenta una possibilità per gli interessati, ma non è necessaria ai fini
dello svolgimento dell’udienza.

In particolare, non è prospettabile una violazione
dell’art. 6 CEDU (e dei vari
parametri costituzionali riportati nel ricorso), atteso che la normativa citata
garantisce appieno il diritto di difesa, ben potendo le parti depositare note
scritte, e che l’esclusione dell’udienza in presenza o da remoto è limitata ad
un periodo circoscritto, in ragione di un accadimento obiettivo (l’epidemia
COVID) e per la tutela della salute collettiva e unicamente per i procedimenti
ai quali possono partecipare i soli difensori.

In ordine alla parte della doglianza concernente la
qualificazione del rito, si rileva che, nel rito
c.d. Fornero, il giudizio di primo grado è unico a composizione bifasica,
con una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più
rapida tutela al lavoratore, ed una seconda fase a cognizione piena che, della
precedente, costituisce prosecuzione, sicché l’unico rimedio esperibile avverso
il provvedimento conclusivo della fase sommaria, anche quando in mero rito, è
il ricorso in opposizione previsto dall’art. 1, comma 51, della legge n. 92
del 2012, e non il reclamo che, ove proposto, va dichiarato inammissibile (Cass., Sez. L, n. 2364 del 3 febbraio 2020).

Nella specie, il Tribunale di Vasto ha rilevato, in
primo grado, proprio l’irritualità del rimedio scelto dal lavoratore, il quale
aveva presentato, contro la prima ordinanza del giudice unico dello stesso
ufficio giudiziario, un ordinario reclamo al Collegio e non il necessario
ricorso in opposizione.

Ne deriva l’irrilevanza, quindi, di ogni
contestazione quanto all’applicabilità, nella specie, del rito c.d. Fornero.

3. Il ricorso è respinto.

Le spese di lite seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate come in
dispositivo.

Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi
dell’art. 1, comma 17, legge n.
228 del 2012, che ha aggiunto il comma
1 quater all’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, dell’obbligo, per parte
ricorrente, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto,
trattandosi di ricorso per cassazione la cui notifica si è perfezionata dopo la
data del 30 gennaio 2013 (Cass., Sez. 6-3, n. 14515 del 10 luglio 2015).

 

P.Q.M.

 

– Rigetta il ricorso;

– Condanna parte ricorrente a rifondere le spese del
giudizio di legittimità, che liquida in € 5.000,00 per compenso ed € 200,00 per
esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%;

– Dà atto che sussiste l’obbligo, per parte ricorrente,
ai sensi dell’art. 1, comma 17,
legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del d.P.R.
n. 115 del 2002, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se
dovuto.

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