Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 novembre 2022, n. 35224

Lavoro, Cessione di ramo di azienda, Interposizione fittizia
di società, Intermediazione vietata di manodopera, Accertamento,
Insussistenza

Rilevato che

 

Con sentenza n. 4574 del 2021, la Corte d’appello di
Roma ha confermato la decisione del locale Tribunale che aveva respinto le
domande formulate da L.D.G., volte all’accertamento di una interposizione
fittizia delle società G.T. s.r.l., B.T.a.E. s.r.l. e la C.P. S.p.A., dell’effettivo
svolgimento della propria attività lavorativa alle dipendenze di quest’ultima,
dell’illegittimità del licenziamento intimato dalla G.T. il 2 maggio 2013, con
conseguente richiesta di condanna al pagamento dell’indennità risarcitoria pari
a 24 mensilità della retribuzione globale di fatto, nonché al pagamento di euro
4.330,70, a titolo di TFR e di 14ma mensilità, mai corrisposte;

in particolare, la Corte ha ritenuto, sulla base
della documentazione prodotta, non ravvisarsi gli estremi della intermediazione
vietata di manodopera, rilevando, in base al principio di non contestazione,
doversi reputare documentalmente provata la ricorrenza di una lecita cessione
di ramo di azienda e la conseguente imputabilità dell’attività lavorativa non a
quella che era stata addotta come interponente, bensì, partitamente, a tutte le
società coinvolte nella operazione economica considerata;

per la cassazione della sentenza propone ricorso
assistito da memoria L.D.G., affidandolo a quattro motivi;

resiste, con controricorso assistito da memoria, la
C.P. S.p.A.

 

Considerato che

 

Con il primo motivo di ricorso si denunzia la
violazione e falsa applicazione degli artt. 115,
416 comma 2 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ.;

deduce parte ricorrente, nella sostanza, l’error in
procedendo commesso dalla Corte territoriale, per aver fatto erronea
applicazione del principio di non contestazione, ritenendo decisiva la mancata
contestazione, da parte della ricorrente, della circostanza che
l’amministratore della società asseritamene interponente fosse, in realtà,
altresì dipendente delle società interposte;

con il secondo motivo si allega la violazione e
falsa applicazione dell’art. 437 comma 2 cod. proc.
civ., nonché dell’art. 421 cod. proc. civ.,
in relazione alla produzione in appello di un documento decisivo;

con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa
applicazione degli artt. 27, 28,
29, D.Lgs. n. 276 del 2003 in relazione anche agli accertamenti effettuati
in seno al procedimento penale concernente i crimini ambientali commessi –
nella gestione del campeggio presso cui era impiegata la ricorrente dagli
amministratori della società controricorrente;

con il quarto motivo si denunzia la violazione e
falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., e
dell’art. 421 cod. proc. civ., in relazione
alla mancata ammissione di qualsiasi mezzo istruttorio richiesto;

il primo motivo è infondato;

non v’è dubbio (cfr., sul punto, Cass. n. 21403 del
2022) che il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. ha ad oggetto fatti storici
sottesi a domande ed eccezioni e, segnatamente, esso non può riguardare le
conclusioni ricostruttive desumibili dalla valutazione di documenti (Cass. n.
35037 del 2021; Cass. n. 6172 del 2020);

nondimeno, l’argomentazione nodale da cui muove la
Corte territoriale, prima di condividere l’iter argomentativo del giudice di
primo grado, è l’assenza di qualsivoglia elemento probatorio a sostegno della
lamentata interposizione fittizia;

nella specie, infatti, il giudice prende le mosse
dall’unica allegazione contenuta nel ricorso introduttivo concernente la
circostanza che l’amministratore della società appellata avesse sempre gestito
il rapporto con la lavoratrice, anche quando lo stesso era svolto formalmente
alle dipendenze di altre società;

tale allegazione è stata ritenuta dalla Corte
insufficiente a comprovare che l’effettivo destinatario della prestazione fosse
la C., a fronte dell’altra circostanza, risultante documentalmente, che
l’amministratore della società, asseritamente interponente, era legato da un
rapporto di lavoro di carattere subordinato con le società bulgare,
asseritamente interposte, sicché i suoi poteri di direzione e organizzazione
dell’attività lavorativa della ricorrente ben potevano essere stati esercitati
non già in qualità di amministratore (e nell’interesse) della C., bensì in
forza del rapporto di lavoro che lo legava alle società asseritamente
interposte (e, dunque nel loro interesse);

più chiaramente, il Collegio ha ritenuto che – a
fronte di quanto emergeva dall’estratto contributivo di M.C. di V. –
Amministratore della C.P. (da cui la ricorrente aveva affermato di esser sempre
stata diretta) – documento “dal quale si desume l’esistenza di un rapporto
di lavoro subordinato tra il C. e le società asseritamente interposte” –
la lavoratrice non avesse offerto la prova – su di lei gravante – di elementi
idonei a confermare l’assunto della riferibilità delle sue prestazioni
direttamente alla C.;

in tal senso va pure letta l’ulteriore affermazione
della Corte, con riguardo all’altra documentazione allegata dalla società (che
non viene, tuttavia, individuata nello specifico) “sulla quale il
procuratore non ha speso alcun argomento a confutazione”;

in altri termini, la Corte territoriale ha escluso
l’interposizione fittizia di manodopera sul presupposto della assenza di prova
positiva della interposizione ed alla luce della mancata contestazione relativa
alla coincidenza della persona fisica dell’Amministratore della società C.P. e
l’espletamento di attività lavorativa di carattere subordinato da parte del C.
in favore delle società asseritamente interposte;

solo dopo aver ritenuto insussistente questa prova
la Corte ha, poi, considerato vieppiù confermativa di una operazione lecita la
produzione dei contratti concernenti l’affitto di ramo di azienda alle società
asseritamente interposte, concernente il villaggio turistico C.C.C., luogo
presso il quale la ricorrente aveva lavorato, nonché del rilascio ad esse delle
concessioni di esercizio;

il peculiare rilievo attribuito a tali circostanze
ha indotto, conseguentemente, la Corte a non consentire la produzione
documentale richiesta da parte ricorrente – sulla cui idoneità a dimostrare
l’assente interposizione non sarebbe comunque consentito pronunziarsi in questa
sede, trattandosi di questione di merito, sottratta al sindacato di legittimità
– onde dimostrare la circostanza, rimasta appunto indimostrata, dell’unicità
del centro di interesse;

d’altro canto, quanto al secondo motivo, lo stesso
deve reputarsi infondato non confrontandosi con la ratio decidendi; trattasi,
infatti, di documento non decisivo: la Corte territoriale, confermando sul
punto la sentenza di primo grado, ha escluso che la lavoratrice avesse fornito
la prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la società
convenuta ma, anzi, ha dato rilievo ad elementi dei quali si evince che il C.
fosse un effettivo lavoratore subordinato della società interposta;

quanto al terzo motivo, con cui si allega la
violazione degli articoli 27,
28,29, decreto legislativo numero 276/2003, il motivo si caratterizza per
l’assoluta genericità: non specifica, invero, quale affermazione della Corte
territoriale sarebbe in contrasto con le norme di legge indicate; gli
accertamenti del giudizio penale sono del tutto privi di decisività nel
giudizio considerato ma, inoltre, hanno formato oggetto di esame da parte della
Corte;

con riguardo, infine, alla denunziata violazione
dell’articolo 2697 cod. civ., va osservato che,
per consolidata giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Cass. n. 18092 del
2020) la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. è configurabile soltanto
nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una
parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da
quella norma e che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie ove il motivo si
palesa inammissibile perché non trascrive quali sarebbero le prove che non sono
state ammesse sicché non se ne può vantare la decisività.

Conclusivamente, deve osservarsi che nel suo ricorso
la parte omette di indicare quali sono i fatti decisivi che, ove fossero stati
valutati, avrebbero condotto ad un esito diverso della controversia;

all’uopo, non può ritenersi decisiva la mail che
descrive una situazione non incompatibile con la presenza di un rapporto
genuino;

la sentenza penale di cui si parla non è trascritta
neppure nei suoi aspetti salienti, giacché l’unico brano riportato è del tutto
privo di decisività, facendo riferimento peraltro ad altro soggetto, ossia a
M.C.;

alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso
deve essere respinto;

le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate
come in dispositivo;

sussistono i presupposti processuali per il
versamento, dalla parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1-bis dell’articolo 13 comma 1
quater del d.P.R. n. 115 del 2002 (ndr: del comma 1-bis
dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002), se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente
alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite,
che liquida in complessivi euro 4000,00 per compensi e 200,00 per esborsi,
oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1-bis dello stesso articolo 13
(ndr: del comma 1-bis dello stesso articolo 13), se dovuto.

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