Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 novembre 2022, n. 35225

Licenziamento, Riduzione dell’attività, Redistribuzione
delle mansioni tra il personale in servizio, Impossibilità di diversa
adibizione del lavoratore, Legittimità

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Milano per quanto qui
ancora interessa ha confermato la legittimità del licenziamento intimato con
lettera del 26 giugno 2017 a A.M.d.N. s.a.s. di N.N.C. & C. e motivato
dalla soppressione del posto di lavoro con ripartizione delle mansioni tra gli
altri dipendenti ed i soci al fine di conseguire un calo dei costi ed un
miglioramento dei profitti.

2. Il giudice di secondo grado ha accertato che le
ragioni poste a fondamento del licenziamento erano state adeguatamente e
sufficientemente esposte nella comunicazione, erano risultate provate nel corso
dell’istruttoria svolta e non erano pretestuose.

3. Quanto alla esistenza di posizioni alternative
nelle quali collocare il lavoratore in adempimento dell’obbligo di repechage ed
alla eccepita violazione dei criteri di scelta, la Corte territoriale ha
ritenuto che effettivamente la posizione lavorativa del M. (pizzaiolo) era
unica, che nessuno era stato assunto per essere adibito a quelle mansioni. Le
altre mansioni, di preparazione del caffè al banco del bar e di carico e
scarico dei rifornimenti, erano del tutto accessorie e svolte in maniera
saltuari, perciò, non erano decisive ai fini della verifica dell’adempimento
datoriale all’obbligo di repechage.

4. Per la cassazione della sentenza propone ricorso
A.M. affidato ad un unico motivo al quale resiste N. s.a.s. di N.N.C. & C.
con controricorso ulteriormente illustrato da memoria. Il Procuratore Generale
ha concluso per il rigetto del ricorso ed il ricorrente ha depositato memoria
illustrativa.

 

Ragioni della decisione

 

5. Con un unico motivo di ricorso è denunciata la
violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1, 3 e 5 della legge n. 604
del 1966 e ss.mm . e si deduce che il giudice di appello avrebbe
erroneamente ritenuto assolto l’onere datoriale di provare l’impossibilità di
riutilizzare il lavoratore in altre mansioni tenuto conto del fatto che nel
corso dell’istruttoria era emerso che il lavoratore, rimasto assente per
malattia per un periodo, al suo rientro era stato adibito allo svolgimento di
mansioni diverse da quelle di pizzaiolo in precedenza svolte. Deduce che
pertanto la società avrebbe dovuto dimostrare che non vi erano altre mansioni,
neppure inferiori, dove collocarlo e dimostrare perché aveva scelto di
liberarsi proprio di lui. Sostiene che era onere della datrice di lavoro
dimostrare che non vi erano posizioni, neppure con riguardo a mansioni
inferiori alle quali era stato in maniera promiscua comunque adibito, cui assegnare
il lavoratore. Inoltre, non essendo stata soppresse le mansioni ma piuttosto
ridotto il personale per una ottimizzazione dei costi, la società avrebbe
dovuto procedere ad una valutazione comparativa dei diversi lavoratori per
addivenire alla scelta di quello da licenziare. Al contrario la Corte di merito
ha confuso la riduzione di personale operata con una soppressione della
posizione lavorativa ed è così incorsa nella violazione di legge denunciata.

6. Il ricorso non può essere accolto.

6.1. In tema di licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare
quali siano i posti disponibili in azienda ai fini del “repéchage”,
gravando la prova della impossibilità di ricollocamento sul datore di lavoro, tuttavia,
una volta accertata, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti,
tale impossibilità, la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l’esistenza
di una posizione lavorativa disponibile vale a corroborare il descritto quadro
probatorio (Cass. 23/05/2018 n. 12794)

6.2. Pertanto, se in linea teorica è vero che
soppressa la posizione lavorativa e redistribuite le mansioni svolte se
residuano altre mansioni pure assegnate al ricorrente in passato queste possono
costituire il contesto nel quale ricollocare il lavoratore, va tuttavia
rilevato che nel caso in esame la Corte di appello, con accertamento di fatto a
lei riservato ed in questa sede incensurabile, ha accertato che la posizione
lavorativa dell’odierno ricorrente era stata soppressa e le mansioni erano
state redistribuite tra i soci. Tale accertamento, peraltro, è stato effettuato
tenendo specificatamente conto delle caratteristiche della società datrice di
lavoro, un’attività produttiva estremamente semplice e gestita in ambito
familiare. La Corte poi si è fatta carico di verificare che le altre mansioni
indicate erano assolutamente residuali e comunque erano state affidate
all’odierno ricorrente in maniera saltuaria e occasionale. Infine ha verificato
che non vi erano state nuove assunzioni successivamente al licenziamento del M.
e di conseguenza ha ritenuto confermata la dedotta riduzione dell’attività per
far fronte al calo dei costi e per conseguire un miglioramento dei profitti. In
definitiva il giudice di appello all’esito di un accertamento di fatto in
questa sede incensurabile ha, in adesione ai principi affermati da questa
Corte, ravvisato il giustificato motivo oggettivo di licenziamento
nell’andamento economico negativo dell’azienda che aveva comportato la
soppressione del posto di lavoro e che le ragioni addotte dal datore di lavoro
a sostegno della modifica organizzativa da lui attuata avevano effettivamente
inciso, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta
dal lavoratore licenziato.

In sostanza è stato riscontrato che effettivamente
la soppressione del posto era stata determinata da una diversa redistribuzione
delle mansioni tra il personale in servizio mentre correttamente è stata
ritenuta irrilevante la circostanza che l’obiettivo perseguito
dall’imprenditore (da ravvisare nella necessità di far fronte a situazioni
economiche sfavorevoli e conseguire una migliore efficienza ed un incremento
della produttività) non era affatto risultata pretestuosa o carente di veridicità
(cfr. Cass.14/02/2020 n. 3819). Si tratta di
un accertamento di fatto non censurabile cui è seguita una corretta sussunzione
nella fattispecie astratta del giustificato motivo oggettivo dettata dalla
norma con corretta valutazione anche delle possibilità concrete di diversa
adibizione del lavoratore.

6.3. E’ infondata la domanda di condanna del
ricorrente al risarcimento del danno ai sensi dell’art.
96 c.p.c. posto che per quanto concerne l’art.
96 comma 1 c.p.c. è necessario che nel formulare la domanda si alleghi e
provi, anche solo in via presuntiva, un danno che poi può essere liquidato
anche d’ufficio e nella specie nulla risulta allegato.

Quanto alla previsione di cui al comma 3 dell’art. 96 c.p.c. rileva il Collegio che non ne
sussistono i presupposti. Va qui ribadito che la condanna al pagamento della
somma equitativamente determinata, ai sensi del terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., aggiunto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, presuppone
l’accertamento della mala fede o colpa grave della parte soccombente, non solo
perché la relativa previsione è inserita nella disciplina della responsabilità
aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che si
rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile (cfr. Cass. 31/10/2016
n. 22120).

7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e
le spese, liquidate in dispositivo, vanno poste a carico del ricorrente
soccombente. Ai sensi dell’art. 13
comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto poi della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del
ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R.,
se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità che si liquidano in € 3.000,00 per compensi
professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli
accessori dovuti per legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R.,
se dovuto.

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