Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 novembre 2022, n. 35237
Lavoro, Mobbing, Risarcimento del danno biologico, esistenziale e morale, Danno non patrimoniale, Vizio di motivazione, Rigetto
Rilevato che
1. con sentenza del 29 novembre 2016, la Corte di appello di Bari, in parziale accoglimento dell’appello del Comune di Sannicandro di Bari e in parziale riforma dell’impugnata sentenza, condannava quest’ultimo al risarcimento del danno biologico riportato da M.L.G. per effetto delle accertate condotte di mobbing subite nel periodo dal maggio 2001 all’aprile 2002, quantificato in euro 30.000, così riducendo la somma già attribuita allo stesso titolo in primo grado;
2. la Corte rilevava che era presente un disegno unitario finalizzato alla marginalizzazione della G. – inquadrata nella categoria C come istruttore amministrativo dell’ufficio tributi – idoneo a integrare il fenomeno del mobbing e che, invece, doveva essere ridotto l’importo indicato in sede di liquidazione del danno dal giudice di primo grado tenendo conto di tutte le componenti del risarcimento unitariamente determinato e avendo riguardo agli esiti della perizia disposta nella fase di gravame e alla più ridotta valutazione del danno biologico, nella misura del 12%, anziché del 15% come rilevato dal consulente d’ufficio di prime cure;
al contempo, la Corte di merito rigettava l’appello incidentale della G. volto al riconoscimento del danno esistenziale;
osservava, in particolare, che la patologia della lavoratrice (i.e., «disturbo dell’adattamento con umore depresso e ansia») finiva per manifestarsi «nel mutamento delle abitudini di vita, nella fragilità dello stato emotivo e in un diverso modo di relazionarsi con il mondo esterno», di guisa che un’autonoma liquidazione del danno esistenziale rispetto al biologico avrebbe potuto determinare il rischio di «un’inaccettabile duplicazione di poste risarcitorie»;
peraltro la G. non aveva provato il danno esistenziale in parola, ossia «le evenienze lesive che erano scaturite sul piano della vita di relazione, della quotidianità e dell’esistenza»;
3. di tale decisione chiede la cassazione M.L.G., affidando l’impugnazione a due motivi, cui ha opposto difese, con controricorso, il Comune di Sannicandro di Bari; entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
Considerato che
1. con il primo motivo si denuncia (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.) violazione e falsa applicazione degli artt. 2059, 2697 cod. civ. e 115 cod proc. civ.;
la Corte territoriale non si sarebbe avveduta che il danno esistenziale all’integrità dinamico-relazionale dell’esistenza, quello biologico all’integrità psico-fisica medicalmente accertabile e quello morale all’integrità e serenità interiori sarebbero voci autonome di danno che vanno pienamente ristorate senza che ciò determini, come ritenuto dal giudice d’appello, alcuna indebita “duplicazione” di poste risarcitorie; né valeva assumere, come erroneamente osservato dalla corte di merito, che difettasse qui la prova «delle evenienze lesive scaturite alla vita di relazione», tale evidenza probatoria potendo, in realtà, evincersi da un complesso di elementi presuntivi primariamente consistenti nella «compromissione significativa del funzionamento sociale» rilevata dallo stesso c.t.u. nella perizia medico-legale;
2. il motivo non può trovare accoglimento;
invero, l’ordinamento riconosce la categoria del danno patrimoniale (art. 1223 cod. civ.) e quella del danno non patrimoniale (artt. 2059 cod. civ., 185 cod. pen.), e, a partire dall’interpretazione affermata dalle c.d. “sentenze di San Martino” del 2008 (segnatamente, v. Cass., SS.UU., n. 26972 del 2008), il danno non patrimoniale costituisce una categoria di danno unitaria, che ricomprende in sé tutte le possibili componenti di pregiudizio non aventi rilievo patrimoniale (tra le tante, Cass. n. 4043 del 2013; Cass. n. 15491 del 2014; Cass. n. 3505 del 2016), da liquidare, dunque, in modo omnicomprensivo, evitando duplicazioni risarcitorie (Cass. n. 9320 del 2015; Cass. n. 16992 del 2015);
la natura unitaria della categoria non va intesa nel senso di escludere la possibilità di rilevare, all’interno di essa, le diverse componenti che la formano, componenti riconosciute dalle stesse Sezioni Unite; ed infatti, la nozione di danno biologico, quale lesione alla salute, comprende, secondo i criteri civilistici, la lesione medico legale (ossia la perdita anatomica o funzionale), il danno dinamico-relazionale (sia nei suoi aspetti ordinari, comuni a qualunque persona con la medesima invalidità, sia in quelli peculiari, specifici del caso concreto), e tutti i conseguenti pregiudizi che la lesione produce sulle attività quotidiane, personali e relazionali (cfr., da ultimo, su tale nozione, Cass. n. 7513 e n. 23469 del 2018);
inoltre, secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 9006 del 2022, Cass. n. 23469 del 2018, Cass. n. 901 del 2018, Cass. n. 7513 del 2018; Cass. n. 23469 del 2018), in presenza di un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, anche personalizzato, e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi (definibili come danni morali) che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione); parimenti il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di beni-interessi diversi dalla salute ma costituzionalmente tutelati può essere liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore);
tuttavia, una volta riconosciuta in diritto la risarcibilità del danno morale quale posta autonoma del danno non patrimoniale, distinta dal danno biologico e dalla sua personalizzazione, l’accertamento in concreto della sussistenza di un tale tipo di danno, così come di tutti i conseguenti pregiudizi che la lesione produce sulle attività quotidiane, personali e relazionali, compete al giudice del merito e si traduce inevitabilmente in una quaestio facti che, come ogni altra, può essere sindacata non sotto la prospettiva dell’error in iudicando bensì nei ristretti limiti posti dal novellato art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite nn. 8053 e 8054 del 2014 (in questo senso cfr. Cass. 22 novembre 2019, n. 30578);
ciò premesso, la Corte territoriale non ha affatto disconosciuto in diritto che la lesione del diritto alla salute possa determinare ulteriori danni morali o relazionali rispetto a quelli ordinariamente riconosciuti come danno biologico, già ricompresi nella liquidazione operata, ma ha espressamente escluso che per la G. fosse ravvisabile in concreto un pregiudizio ulteriore o diverso, anche in relazione al preteso danno esistenziale, per cui «in mancanza di specifica prova di un danno aggiuntivo (o di una differente voce autonoma)» ha ritenuto congrua la liquidazione effettuata perché «il danno esistenziale appare riconducibile se non sovrapponibile allo stesso danno biologico patito dalla vittima»;
in tal senso è, infatti, l’inequivocabile precisazione secondo cui il «disturbo dell’adattamento con umore depresso e ansia» finiva, appunto, per manifestarsi «nel mutamento delle abitudini di vita, nella fragilità dello stato emotivo e in un diverso modo di relazionarsi con il mondo esterno»;
ebbene, la ricorrente chiede a questa Corte un diverso apprezzamento di circostanze di fatto, con particolare riferimento alle posizioni espresse nelle consulenze tecniche espletate, pretendendo in tal guisa un sindacato palesemente estraneo al presente giudizio di legittimità;
3. con il secondo motivo deduce, ex art. 360 n. 3 e n. 4 cod. proc. civ., violazione dell’art. 132 n. 4 cod. proc. civ. per omessa o apparente motivazione; laddove si è adeguata alla seconda c.t.u. medica disposta in fase di gravame, rideterminando la stima del danno biologico in peius rispetto alla perizia espletata in primo grado, la corte di merito avrebbe dovuto, a riguardo, puntualmente motivare e non recepire acriticamente le conclusioni dell’ausiliario da essa nominato;
4. il motivo va disatteso;
questa Corte ha avuto modo di chiarire che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge;
ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (cfr. Cass. n. 18059 del 2019; Cass. n. 19547 del 2017);
ed è stato altresì affermato che, pur non avendo le valutazioni tecniche efficacia vincolante per il giudice, egli tuttavia può legittimamente disattenderle soltanto attraverso una valutazione critica, che sia ancorata alle risultanze processuali e risulti congruamente e logicamente motivata, dovendo indicare gli elementi di cui si è avvalso per ritenere erronei gli argomenti sui quali il consulente si è basato, ovvero gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logico-giuridici per addivenire alla decisione contrastante con il parere del c.t.u.;
qualora, poi, nel corso del giudizio di merito vengano espletate più consulenze tecniche, in tempi diversi e con difformi soluzioni prospettate, il giudice, ove voglia uniformarsi alla seconda consulenza, è tenuto a valutare le eventuali censure di parte e giustificare la propria preferenza, senza limitarsi ad un’acritica adesione ad essa (Cass. n. 19372 del 2021);
egli può, invece, discostarsi da entrambe le soluzioni solo dando adeguata giustificazione del suo convincimento, mediante l’enunciazione dei criteri probatori e degli elementi di valutazione specificamente seguiti, nonché, trattandosi di una questione meramente tecnica, fornendo adeguata dimostrazione di avere potuto risolvere, sulla base di corretti criteri e di cognizioni proprie, tutti i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione (cfr. Cass. n. 5148 del 2011 e, in termini, Cass. n. 19572 del 2013; Cass. n. 13770 del 2018);
tanto premesso, si osserva che la Corte territoriale ha scrupolosamente applicato i principi sopra richiamati i) motivando adeguatamente in ordine ad entrambe le c.t.u., di primo e di secondo grado; ii) chiarendo le ragioni del rinnovo della perizia (“il c.t.p. del Comune dr. Simplicio aveva presentato sue osservazioni precisando che la paziente era già affetta da tale disturbo psichico in data precedente a quella dei fatti di causa e a tali osservazioni non sono seguiti i chiarimenti da parte del c.t.u. nominato dal Tribunale”) e condividendo l’apprezzamento del secondo perito d’ufficio, prof. C., in ordine all’assenza, in epoca pregressa ai fatti di causa, di «disturbi mentali veri e propri»; iii) sottolineando altresì che la minor valutazione del danno biologico del prof. C., al 12% anziché al 15°h come rilevato in prime cure dal prof. B., era in realtà dipesa, decorsi alcuni anni tra la prima e la seconda perizia, «dall’andamento assunto dall’affezione che si è presentata in maniera ridotta quando alla G. sono state riconosciute mansioni lavorative corrispondenti alle sue capacità e competenze»;
alla stregua di ciò, ben s’intende come la Corte di merito ha sviluppato un percorso argomentativo esente da censure o vizi logici attraverso il quale è stato dato conto delle ragioni per le quali le conclusioni del secondo c.t.u. -su cui, peraltro, la difesa della G. non consta abbia appuntato specifiche censure- venivano alfine sostanzialmente condivise;
tanto basta per la reiezione del motivo;
5. conclusivamente, il ricorso deve essere respinto; le spese del giudizio di legittimità sono regolate secondo soccombenza;
occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012 (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro € 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.