Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 novembre 2022, n. 35035
Lavoro, Licenziamento collettivo, Licenziamento di lavoratore invalido, Rito c.d. Fornero, Cessione di ramo d’azienda, Quota di riserva ex art. 3 della Legge n. 68/1999, Sospensione degli obblighi occupazionali, Indennità di mobilità
Rilevato che
1. Il Tribunale di Civitavecchia – all’esito dell’ opposizione proposta dalla C.A.I. s.p.a. (CAI s.p.a.) e da A.S.A.I. s.p.a. (SAI s.p.a.) e da C.P. avverso l’ordinanza dello stesso Tribunale che aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro con la lavoratrice e le aveva condannate al pagamento dell’indennità risarcitoria pari a dodici mesi dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita – dichiarò illegittimo il licenziamento intimato da SAI s.p.a. condannò la società convenuta a reintegrare la P. ed a corrisponderle una indennità che quantificò in dodici mensilità di retribuzione ed accertò la responsabilità solidale di entrambe le società per tutte le obbligazioni maturate in seguito alla reintegrazione.
2. La Corte di appello di Roma, investita del reclamo da parte di entrambe le società, li ha respinti confermando la sentenza impugnata.
2.1. In particolare, ha ritenuto che la domanda proposta nei confronti di A.S. s.p.a. rientrasse nel perimetro del rito c.d. Fornero atteso che tale rito si applica anche alle domande aventi ad oggetto l’accertamento della natura a tempo pieno di un rapporto part-time ovvero del diritto ad una determinata qualifica proposte contestualmente all’impugnazione del licenziamento laddove siano idonee a qualificare il rapporto di lavoro o a individuare elementi di fatto e di diritto che possano influenzare l’esito della domanda di impugnazione del licenziamento.
2.2. Ha poi ritenuto che nessuna decadenza dall’azione giudiziaria fosse maturata osservando che era chiesto proprio l’accertamento della efficacia della cessione di ramo d’azienda tanto che era stata chiesta la reintegrazione nei confronti della cessionaria e comunque la ricorrente aveva tempestivamente impugnato il licenziamento intimatole da CAI s.p.a. con raccomandate inviate a entrambe le società ed aveva contestualmente chiesto ad A. di reintegrarla.
2.3. Ha escluso che per A.S. in amministrazione straordinaria si ponesse un problema di competenza funzionale del giudice fallimentare ed inoltre ha rammentato che con riguardo al rito applicato un eventuale errore non comporta alcuna invalidità della sentenza salvo che si dimostri, e non lo è stato, l’esistenza di un pregiudizio.
2.4. Nel richiamare un suo precedente, poi, la Corte del reclamo ha ritenuto che il nominativo della ricorrente non potesse essere escluso dai lavoratori oggetto dell’accordo di cessione essendo A.S. tenuta all’applicazione delle regole dell’art. 2112 ed alla reintegrazione della lavoratrice.
2.5. Infine, ha escluso che la sentenza reclamata, motivata per relationem, fosse invalida atteso che il giudice non si era limitato a riportare gli estremi e la massima del precedente ma ne aveva trascritto il contenuto fornendo così una risposta alle censure formulate nell’opposizione e manifestando il percorso argomentativo seguito per giungere alla decisione.
2.6. Ha rigettato i primi due motivi del reclamo proposto CAI s.p.a. evidenziando, in via del tutto assorbente, che con il licenziamento della P., invalida avviata obbligatoriamente al lavoro, si era intaccata la quota di riserva ex art. 3 della legge n. 68 del 1999 evidenziando che la sospensione dagli obblighi di assunzione degli invalidi disposta dalla Provincia di Roma incide sull’obbligo di assunzione ma non sul limite al licenziamento dell’invalido già assunto.
2.7. All’illegittimità del licenziamento per effetto della violazione della quota di riserva è stata ritenuta applicabile la tutela reintegratoria ex art. 18 comma 4 della I. 300 del 1970 come modificata dalla legge n. 92 del 2012 essendo la fattispecie sussumibile in quella della violazione dei criteri di scelta del lavoratore da licenziare.
2.8. Ha ritenuto che l’indennità risarcitoria, determinata in dodici mensilità di retribuzione, fosse stata quantificata all’esito di una corretta applicazione dei criteri dettati dall’art. 18 citato ed infine ha accertato che entrambe le società erano tenute all’applicazione delle regole dettate dall’art. 2112 c.c. osservando che il licenziamento era stato intimato prima del trasferimento d’azienda e, una volta annullato, il rapporto di lavoro si era ripristinato e dunque poteva e doveva essere trasferito ex art. 2112 c.c.. Ha ritenuto infine inammissibile per vari profili la domanda di CAI di accertare che per effetto della reintegrazione della lavoratrice illegittimamente licenziata la società fosse autorizzata a licenziare un altro lavoratore senza dover attivare una nuova procedura.
3. Per la cassazione della sentenza hanno proposto separati ricorsi la C.A.I. s.p.a. e A.S.A.I. s.p.a. affidati rispettivamente a tre ed a cinque motivi. C.P. si è costituita tempestivamente con distinti controricorsi chiedendo preliminarmente la riunione dei due ricorsi dei quali ha chiesto la reiezione. Tutte le parti hanno depositato memorie illustrative.
Considerato che
4. C.A.I. s.p.a. con il primo motivo del ricorso, da qualifica come principale, denuncia la violazione e falsa applicazione art. 10 comma 4 della legge n. 68 del 1999 con riferimento all’art. 3 comma 5 della stessa legge. Deduce la ricorrente di aver allegato e provato nei precedenti gradi di giudizio di beneficiare della sospensione degli obblighi occupazionali ed osserva che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte del reclamo, tale circostanza non solo la esonerava dall’ assumere invalidi al fine di conseguire la quota ma del pari la autorizzava a non mantenerla. Conseguentemente era legittima la risoluzione del rapporto all’esito della procedura di licenziamento collettivo anche della lavoratrice invalida. Inoltre, sottolinea al riguardo che la lavoratrice non avrebbe offerto la prova di essere stata assunta a mezzo del collocamento mirato per gli invalidi né che era stata computata nelle relative quote all’epoca del licenziamento e dunque sarebbe insussistente la condizione per applicare la tutela prevista dalla legge n. 68 del 1999.
5. Il motivo non può essere accolto. L’art. 10 comma 4 della legge n. 68 del 1999 prevede espressamente che “il recesso di cui all’articolo 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo, esercitato nei confronti del lavoratore occupato obbligatoriamente, sono annullabili qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista all’articolo 3 della presente legge”.
5.1. Come affermato da questa Corte (cfr. Cass. n. 12911 del 2017) “la ratio della norma, nel quadro delle azioni di <promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro> di cui alle finalità espresse dall’art. 1, co. 1, I. n. 68/99, è quella di evitare che, in occasione di licenziamenti individuali o collettivi motivati da ragioni economiche, l’imprenditore possa superare i limiti imposti alla presenza percentuale nella sua azienda di personale appartenente alle categorie protette, originariamente assunti in conformità ad un obbligo di legge. Il divieto è in parte compensato dalla sospensione degli obblighi di assunzione per le aziende che usufruiscano dei benefici di integrazione salariale ovvero per la durata delle procedure di mobilità previste dalla legge n. 223 del 1991, così come disposto dall’art. 3, co. 5, I. n. 223 del 1991, sicché in caso di crisi l’impresa è esonerata dall’assumere nuovi invalidi, ma non può coinvolgere quelli già assunti in recessi connessi a ragioni di riduzione del personale, ove ciò venga ad incidere sulle quote di riserva” (conf., in motivazione, Cass. n. 26029 del 2019).
5.2. Pertanto, la sospensione degli obblighi di assunzione consente all’azienda di non assumere lavoratori per mantenere o per reintegrare la quota obbligatoria prevista dalla legge e, quindi, di trovarsi legittimamente al di sotto della quota di riserva, senza però per questo legittimarla ad effettuare licenziamenti nell’ambito dei lavoratori disabili (cfr. Cass. 01/06/2020 n. 10415).
6. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione art. 10 comma 4 della legge n. 68 del 1999, dell’art. 5 comma 3 della legge n. 223 del 1991 e dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale. Sostiene la società ricorrente che la Corte di merito, nell’interpretare le norme richiamate, sarebbe incorsa nella denunciata violazione di legge avendo trascurato di considerare, così andando contro la lettera della legge, che a norma dell’art. 10 comma 4 della legge n. 68 del 1999 il licenziamento del lavoratore occupato obbligatoriamente è annullabile, e non nullo, qualora il numero di lavoratori obbligatoriamente occupati residuato sia inferiore alla quota di riserva. Inoltre, non avrebbe tenuto conto del fatto che l’art. 18 comma 7 della legge n. 300 del 1970 e ss. mm . espressamente dispone la reintegrazione di cui al comma 4 della stessa disposizione nel caso previsto dal comma 3 dell’art. 10 della legge n. 69 del 1999 (ndr comma 3 dell’art. 10 della legge n. 68 del 1999) e non anche dal successivo comma 4 della stessa disposizione di legge. Ritiene che perciò il legislatore abbia voluto sottrarre alla tutela reintegratoria tal ultima fattispecie. Sostiene che la violazione del comma 4 dell’art. 10 non possa essere ricondotta alla fattispecie più generale della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (ex art. 5 della legge n. 223 del 1991) sanzionata con la reintegrazione.
7. Anche questo motivo non può essere accolto.
7.1. Come statuito da questa Corte nelle sentenze più sopra richiamate e dalle quali non vi è ragione di discostarsi “nel caso di licenziamento collettivo, la violazione della quota di riserva prescritta dall’art. 3 della I. n. 68 del 1999 rientra nell’ipotesi di <violazione dei criteri di scelta> in quanto assunti in contrasto con espressa previsione legale, ai sensi dell’art. 5, comma 3, della L. n. 223 del 1991, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, st. lav. novellato, quale opzione interpretativa rispettosa del dettato normativo e conforme alla finalità della disciplina – anche sovranazionale – in materia, posta a speciale protezione del disabile”.
8. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 comma 5 della legge n. 300 del 1970 con riguardo all’avvenuta quantificazione dell’indennità risarcitoria.
8.1. Sostiene la ricorrente che la Corte avrebbe dovuto avere riguardo ai criteri indicati dal comma 5 dell’art. 18 stabilendo la misura dell’indennità con riguardo all’anzianità del lavoratore al numero dei dipendenti occupati alle dimensioni dell’attività economica al comportamento ed alle condizioni delle parti con la conseguenza che avrebbe dovuto tenere conto del fatto che CAI allo stato attuale ha solo due dipendenti, non svolge più attività di volo e versa in una situazione di profonda crisi. Inoltre, doveva considerare che la lavoratrice percepiva l’indennità di mobilità pari all’80% della retribuzione e poteva cercarsi un’altra occupazione.
9. Il motivo è inammissibile perché, come formulato (erronea quantificazione dell’indennità risarcitoria e sproporzione della stessa) concerne un accertamento di fatto che spetta al giudice di merito e che è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria: ipotesi, queste, non ravvisabili nel caso concreto.
Inoltre, va richiamato il principio secondo cui, in tema di “aliunde perceptum”, le somme percepite dal lavoratore a titolo d’indennità di mobilità non possono essere detratte da quanto egli abbia ricevuto come risarcimento del danno per il mancato ripristino del rapporto ad opera del cedente a seguito di dichiarazione di nullità della cessione di azienda o di ramo di essa, atteso che detta indennità opera su un piano diverso dagli incrementi patrimoniali che derivano al lavoratore dall’essere stato liberato, anche se illegittimamente, dall’obbligo di prestare la sua attività, dando luogo la sua eventuale non spettanza ad un indebito previdenziale, ripetibile nei limiti di legge (Cass. n. 7794/2017 e recentemente Cass. 20687 del 28/06/2022).
10. In conclusione, il ricorso principale di CAI s.p.a. deve essere rigettato.
11. Con il primo motivo A.S. denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 47 della legge n. 92 del 2012” per avere i giudici d’appello ritenuto applicabile il rito cd. “Fornero” anche ad una controversia in cui occorreva accertare anche la continuità del rapporto di lavoro con una cessionaria d’azienda.
12. Il motivo non può trovare accoglimento.
12.1. Ritiene il Collegio che debba essere mantenuto fermo il principio elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte secondo il quale, nell’ambito della cognizione con il rito speciale previsto dall’art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012, rientrano tutte le questioni che “il giudice deve affrontare e risolvere nel percorso per giungere alla decisione di merito sulla domanda concernente la legittimità o meno del licenziamento” (Cass. n. 21959 del 2018; cfr. pure, in motivazione, Cass. n. 12094 del 2016).
12.2. Pertanto rientra nell’ambito di applicazione di cui all’art. 1, comma 47 della legge n. 92 del 2012 anche la domanda proposta nei confronti di un soggetto diverso dal formale datore di lavoro, di cui si chiede di accertare la effettiva titolarità del rapporto, dovendo il giudice individuare la fattispecie secondo il canone della prospettazione, con il solo limite di quelle artificiose. Ne consegue che, una volta azionata dal lavoratore una impugnativa di licenziamento che postula l’applicabilità delle tutele previste dall’art. 18 dello Statuto, il procedimento speciale deve trovare ingresso a prescindere dalla fondatezza delle allegazioni, senza che la veste formale assunta dalle relazioni giuridiche tra le parti ne possa precludere l’accesso. (v. Cass. n. 17775 del 2016 e Cass. n. 29889 del 2019; sull’accertamento della subordinazione v. Cass. n. 186 del 2019 e più recentemente Cass. 01/06/2020 n. 10415 e 17/08/2020 n. 17202)
13. Con il secondo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 47 comma 4 bis della legge n. 428 del 1990 e degli accordi collettivi intervenuti nell’ambito di una situazione di crisi aziendale in deroga all’art. 2112 c.c. e critica diffusamente l’interpretazione offerta dai giudici del merito della disposizione denunciata;
14. Il motivo è infondato atteso che la sentenza impugnata è conforme al principio di diritto stabilito da questa Corte, secondo cui: “In caso di trasferimento che riguardi aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell’articolo 2, quinto comma, lett. c) della I. n. 675 del 1977, ovvero per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività, ai sensi del d.lgs. n. 270 del 1999, l’accordo sindacale di cui all’art. 47, comma 4-bis della I. n. 428 del 1990, inserito dal d.l. n. 135 del 2009, conv. in I. n. 166 del 2009, può prevedere deroghe all’art. 2112 c.c. concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario, in quanto la locuzione – contenuta del predetto comma 4-bis – “Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione, l’articolo 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo”, va letta in conformità al diritto dell’Unione europea ed alla interpretazione che dello stesso ha fornito la Corte di giustizia, 11 giugno 2009, in causa C-561/07 (all’esito della procedura di infrazione avviata nei confronti della Repubblica italiana per violazione della direttiva 2001/23/CE), nel senso che gli accordi sindacali, nell’ambito di procedure di insolvenza aperte nei confronti del cedente sebbene non “in vista della liquidazione dei beni”, non possono disporre dell’occupazione preesistente al trasferimento di impresa” (cfr. Cass. n. 10414 e n. 10415 del 2020; Cass. n. 17193, n. 17194, n. 17195, n. 17198, n. 17199, n. 17201 del 2020; Cass. n. 33154 del 2021; Cass. n. 10517, n. 10520, n. 10521, n. 10524 del 2022).
15. Il terzo motivo di ricorso con il quale è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost e dell’art. 132 secondo comma n. 4 c.p.c. è infondato ove si consideri che la motivazione della sentenza resa in sede di reclamo nel riportare il percorso già seguito dalla Corte territoriale in altre controversie aventi ad oggetto la medesima procedura di licenziamento collettivo non si è affatto sottratta dall’onere di dare conto delle ragioni poste a fondamento della decisione attesa l’adeguatezza e la pertinenza della motivazione riportata alla fattispecie esaminata. La motivazione della sentenza “per reiationem” è ammissibile e la sua completezza e logicità va valutata sulla base degli elementi contenuti nell’atto al quale si opera il rinvio e che, proprio in ragione del rinvio, diviene parte integrante dell’atto rinviante laddove, ove come nella specie è avvenuto, la motivazione della sentenza, rinviando a principi di diritto sanciti dalla Corte di Cassazione, li renda parte integrante dell’atto rinviante e sia consentito, in tal modo, il controllo di completezza e logicità della motivazione. Pertanto, la sentenza di merito può essere motivata mediante rinvio ad altro precedente dello stesso ufficio (nella specie, reso almeno in parte tra le stesse parti), in quanto il riferimento ai “precedenti conformi” contenuto nell’art. 118 disp. att. c.p.c. non deve intendersi limitato ai precedenti di legittimità, ma si estende anche a quelli di merito, ricercandosi per tale via il beneficio di schemi decisionali già compiuti per casi identici o per la risoluzione di identiche questioni, nell’ambito di un più ampio disegno di riduzione dei tempi del processo civile e la motivazione del precedente costituisce parte integrante della decisione (cfr. Cass. n. 29017 del 2021).
16. Con il quarto motivo di ricorso A. S.A.I. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 52 legge fallimentare in combinato disposto con gli artt. 409, 433 c.p.c., per improcedibilità della domanda di condanna risarcitoria della lavoratrice, per effetto dell’ammissione della società cessionaria alla procedura concorsuale di amministrazione straordinaria.
17. Il motivo è fondato.
17.1. Va preliminarmente esclusa l’inammissibilità per novità della questione, posto che essa riguarda l’improcedibilità di una domanda di condanna al pagamento di un credito (nel caso di specie: risarcitorio) nei confronti di una procedura concorsuale, quale l’amministrazione straordinaria, che regolamenta (pur nella sua modulazione specifica per le imprese operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali ovvero che gestiscono stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, tra le quali le imprese del Gruppo A.), l’accertamento del passivo con il richiamo puntuale (art. 53 d.Ig. 270/1999) delle disposizioni regolanti lo stesso accertamento nel fallimento (artt. 93 ss. I. fall.), comportante la devoluzione cognitoria della domanda in via esclusiva al giudice delegato del fallimento (o comunque della procedura concorsuale).
17.2. Si tratta dunque di questione rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado, anche nel giudizio di cassazione, con l’unico limite preclusivo dell’intervenuto giudicato interno (laddove la questione sia stata sottoposta od esaminata dal giudice e questi abbia inteso egualmente pronunciare sulla domanda di condanna rivolta nei confronti del fallimento) e del giudicato implicito (se l’eventuale nullità derivante da detto vizio procedimentale non sia stata dedotta come mezzo di gravame avverso la sentenza che abbia deciso sulla domanda), in ragione del principio di conversione delle nullità in motivi di impugnazione ed in armonia con il principio della ragionevole durata del processo (Cass. 4 ottobre 2018, n. 24156; Cass. 22 maggio 2020, n. 9461): ipotesi qui non ricorrenti, per essere stata specificatamente impugnata con il reclamo sul punto la sentenza resa in sede di opposizione.
17.3. Tanto premesso va rilevato che nel riparto di competenza tra il giudice del lavoro e quello del fallimento il discrimine va individuato nelle rispettive speciali prerogative, spettando al primo, quale giudice del rapporto, le controversie riguardanti lo status del lavoratore, in riferimento ai diritti di corretta instaurazione, vigenza e cessazione del rapporto, della sua qualificazione e qualità, volte ad ottenere pronunce di mero accertamento oppure costitutive, come quelle di annullamento del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro. Al fine di garantire la parità tra i creditori, rientrano, viceversa, nella cognizione del giudice del fallimento, le controversie relative all’accertamento ed alla qualificazione dei diritti di credito dipendenti dal rapporto di lavoro in funzione della partecipazione al concorso e con effetti esclusivamente endoconcorsuali, ovvero destinate comunque ad incidere nella procedura concorsuale (Cass. 30 marzo 2018, n. 7990; Cass. 28 ottobre 2021, n. 30512). Salva l’ipotesi dell’accertamento (e di esso solo) dell’entità dell’indennità risarcitoria da parte del giudice del lavoro, anziché fallimentare, per il riflesso del “radicale mutamento del regime selettivo e di commisurazione delle tutele … anche sulla ripartizione cognitoria qui in esame” (Cass. 21 giugno 2018, n. 16443; Cass. 21 febbraio 2019, n. 5188; Cass. 8 febbraio 2021, n. 2964). Nel caso, tuttavia, di una domanda di condanna risarcitoria, come quello di specie, essa spetta al giudice concorsuale, con la sua conseguente improcedibilità nell’odierno giudizio (cfr. Cass. 15/05/2022 n. 15321 cit.).
18. Con il quinto motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 comma 4 lett. d) della legge n. 183 del 2010 per avere la Corte territoriale respinto l’eccezione di decadenza formulata dalla società.
19. La censura è infondata alla luce delle recenti pronunce di questa Corte che hanno condivisibilrnente affermato che, nell’ipotesi di trasferimento d’azienda, la domanda del lavoratore volta all’accertamento del passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario non è soggetta a termini di decadenza, perché non vi è alcun onere di far accertare formalmente, nei confronti del cessionario, l’avvenuta prosecuzione del rapporto di lavoro, in particolare applicandosi l’art. 32, comma 4, lett. c), della legge n. 183 del 2010, ai soli provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda impugnare, al fine di contestarne la legittimità o la validità (cfr. Cass. n. 9469 del 2019; Cass. n. 13648 del 2019).
19.1. A fortiori non risulta applicabile la lettera d) dello stesso art. 32, comma 4, della legge n. 183 del 2010, la quale comunque postula l’invocazione della illegittimità o invalidità di atti posti in essere da un datore di lavoro solo formale in fenomeni dal carattere propriamente interpositorio e trattandosi di norma di chiusura di carattere eccezionale, non suscettibile, pertanto, di disciplinare la fattispecie di cui all’art. 2112 c.c. già contemplata dalla lettera precedente (Cass. n. 28750 del 2019; v. pure Cass. n. 13179 del 2017; conf. Cass. n. 4883 del 2020).
Nel caso in esame, l’azione era proprio diretta a fare accertare la sussistenza del rapporto di lavoro con il cessionario e non a contestare la legittimità o validità di un trasferimento del rapporto di lavoro già disposto nei suoi confronti.
20. In conclusione per le ragioni esposte deve essere rigettato il ricorso principale di C.A.I. s.p.a. e quello incidentale di A.S.A.I. s.p.a. deve essere rigettato eccezion fatta per il quarto motivo che è invece fondato e deve essere accolto e, con decisione nel merito, deve essere dichiarata l’improcedibilità della domanda risarcitoria avanzata nei confronti della ricorrente incidentale.
20.1. Quanto alle spese CAI s.p.a. deve essere condannata al pagamento di quelle del giudizio di legittimità in favore della P. nella misura indicata in dispositivo e con distrazione in favore degli avvocati che se ne sono dichiarati antistatari.
20.2. Per quanto concerne la posizione di A.S. s.p.a. in a.s. restano a suo carico, in considerazione della sostanziale e prevalente soccombenza sia le spese dei gradi di merito, come liquidate dal Tribunale e dalla Corte di appello, sia quelle del giudizio di legittimità che sono liquidate nella misura indicata in dispositivo e devono essere distratte in favore degli avvocati che se ne sono dichiarati antistatari.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale di C.A.I. s.p.a..
Accoglie il quarto motivo del ricorso incidentale di A.S.A.I. s.p.a. in a.s. e rigettati gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito dichiara improcedibile la domanda della lavoratrice di condanna risarcitoria nei confronti di A.S.A.I. s.p.a. in a.s..
Condanna C.A.I. s.p.a. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della P. che si liquidano in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge. Spese da distrarsi in favore degli avvocati che se ne sono dichiarati anticipatari.
Condanna A.S.A.I. s.p.a. in a.s. al pagamento delle spese dei gradi di merito che si liquidano nella misura già individuata dal Tribunale e dalla Corte di appello e del giudizio di legittimità che liquida in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge. Spese da distrarsi in favore degli avvocati che se ne sono dichiarati anticipatari.
Dichiara la sussistenza dei presupposti per il pagamento del contributo indicato nei confronti di C.A.I.