Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 dicembre 2022, n. 35560

Lavoro, Licenziamento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, Autonomia del processo penale e del procedimento disciplinare, Posizioni dirigenziali, Bando di gara, Rigetto

 

Svolgimento del processo

 

1. La Corte d’Appello di Catania, con la sentenza n. 887 del 2020, ha rigettato l’appello proposto da L.D.A., nei confronti del Comune di Catania, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Catania.

La lavoratrice aveva impugnato il licenziamento disciplinare comminatogli dal datore di lavoro con nota protocollo 335436 del 30 ottobre 2013.

La contestazione disciplinare era intervenuta il 5 settembre 2013, la ricorrente aveva reso le giustificazioni il 25 settembre 2013, il licenziamento era intervenuto il 30 ottobre 2013.

La Corte d’Appello ha rilevato che le statuizioni della sentenza del Tribunale, che aveva rigettato i vizi formali del licenziamento, erano passate in giudicato perché non impugnate. Era inammissibile il sesto motivo di appello con cui si era fatto valere il vizio di omessa pronuncia rispetto alla censura di mancata sospensione del procedimento disciplinare, in quanto non era stato dedotto dinanzi al Tribunale e, quindi, costituiva domanda nuova.

La contestazione disciplinare aveva riguardato il capitolato speciale di appalto e il successivo bando di gara pubblicato il 6 agosto 2013, che secondo quanto segnalato dalle OO.SS. e dall’Assessorato Ecologia e Ambiente, erano stati predisposti con un contenuto tale da favorire l’impresa uscente P.D. s.r.l. (che poi cedeva lo specifico ramo di azienda alla O.M. s.r.l.), mediante l’inserimento di clausole particolarmente restrittive ed inusuali, con conseguente configurabilità dell’ipotesi prevista dall’art. 7, comma 9, n. 2, lett. b), del CCNL di Comparto (commissione di gravi illeciti di rilevanza penale, ivi compresi quelli che possono dar luogo a sospensione cautelare, secondo la disciplina dell’art. 9, fatto salvo quanto previsto dall’art. 10, comma 1…).

Il procedimento penale definito con le sentenze n. 4066/2018 del Tribunale di Catania e n. 3538 del 2019 della Corte d’Appello di Catania, aveva riguardato sia i delitti commessi dalla lavoratrice in relazione al precedente appalto del 2009, aggiudicato alla società unipersonale P.D. di A.A., nel 2010 (capi di imputazione da A ad E), sia il delitto previsto e punito dagli artt. 110 e 353 – bis, cod. pen. (turbata libertà di procedimento di scelta del contraente, sempre in concorso con A.A.) avente ad oggetto la predisposizione del bando di gara pubblicato il 6 agosto 2013, in relazione al quale è stato appunto instaurato il procedimento disciplinare per cui è causa.

2. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la lavoratrice prospettando cinque motivi di ricorso.

3. Resiste il Comune di Catania con controricorso, assistito da memoria.

4. Il Procuratore Generale ha depositato le conclusioni scritte, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla sesta censura relativa all’applicazione del combinato disposto dell’art. 10 del CCNL e dell’art. 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001.

Assume la ricorrente che, in primo grado, aveva evidenziato il collegamento tra la disposizione contrattuale e l’art. 55-ter, cit., per cui non si trattava di questione nuova in appello.

Dopo aver ricordato il contenuto normativo dell’art. 55-ter cit., ha esposto che la complessità della vicenda avrebbe chiesto che si effettuasse la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza di quello penale.

2. Il motivo è in parte non fondato e in parte inammissibile.

Questa Corte ha già affermato, con orientamento a cui si intende dare continuità, che in tema di licenziamento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, l’articolo 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotto dal d.lgs. n. 150 del 2009, ha previsto la regola generale dell’autonomia del processo penale e del procedimento disciplinare, e tale previsione costituisce, in forza dell’art. 55, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 165, norma imperativa ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419 cod. civ., sicché peraltro non è derogabile ad opera della contrattazione collettiva (Cass., n. 6 del 2020). Inoltre, la ricorrente, che denuncia violazione ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ., non riporta nel ricorso le deduzioni svolte in primo grado (limitandosi a rimandare al ricorso introduttivo), di talché la pronuncia di inammissibilità per novità della questione non è adeguatamente censurata, in ragione della genericità della doglianza.

3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omessa e contraddittoria motivazione in ordine alla censura formulata al punto 1 del ricorso in appello. Punto decisivo della controversia.

La Corte d’Appello non aveva considerato l’illegittimità del bando. Infatti, la rimozione dell’atto illegittimo avrebbe costituito atto dovuto da parte dell’Amministrazione comunale. Allo stesso tempo la persistenza di una situazione di illegittimità e di favor nei confronti di A.A. risultava contraddittoria rispetto all’affermazione fatta in sentenza in ordine al collegamento sostanziale tra ramo di azienda ceduto e lo stesso A.. Ciò, avrebbe determinato in capo all’Amministrazione l’obbligo di rimuovere il bando di gara illecito e non mantenere, in regime di proroga, l’appalto.

O l’Amministrazione riteneva legittimo e corrispondente all’interesse pubblico la disciplina degli atti di gara, oppure se la considerava un pactum sceleris avrebbe dovuto annullare il bando in autotutela e interrompere il rapporto contrattuale con O.M.. L’Amministrazione aveva ritenuto legittimo il bando di gara predisposto dalla lavoratrice e la insussistenza di elementi oggettivi ed oggettivi era dimostrata dal fatto che O.M. era stata esclusa dalla partecipazione della gara.

4. Con il terzo motivo di ricorso è proposta ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. Omessa e illogica motivazione in ordine ai punti 2 e 3 dell’Appello, trattati congiuntamente dalla Corte, in merito alla sussistenza del rapporto di amicizia vietato tra la dirigente e il titolare della P.D.. In subordine contraddittorietà della stessa.

La Corte d’Appello non dava contezza del rapporto eziologico del comportamento della lavoratrice in ordine alla realizzazione del favor nei confronti dell’amministratore della P.D.. Non vi era motivo per la difesa di contestare il dato di fatto, quale può essere stato il rapporto tra la lavoratrice e l’Amministratore della società (circostanza non vietata fino alla ricezione da parte degli Enti locali del dPR n. 62 del 2013, recepito dal Comune di Catania con delibera G.M. n. 5 del 2014), ma ciò che si era contestato era la valutazione degli effetti di questo fatto che non aveva determinato nefaste conseguenze a differenza di quanto affermato in sentenza. Anzi il contratto ritenuto ingiustamente illecito si era perpetrato per altri quattro anni dopo il licenziamento della lavoratrice.

5. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in quanto connessi. Gli stessi sono inammissibili.

È applicabile alla fattispecie l’art. 360, n. 5, c.p.c. nel testo modificato dalla legge 7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.

Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. n. 19881 del 2014 e Cass. S.U. n. 8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 n. 5, cod. proc. civ. ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, che nella specie non sono ravvisabili, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, sicché quest’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perché non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi.

6. Con il quarto motivo di ricorso è prospettata ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., il vizio di omessa ed erronea motivazione in ordine alla censura formulata al punto sub. 5 del ricorso di appello in relazione alla disparità di trattamento.

La Corte d’Appello aveva ritento legittimo il comportamento a dire della ricorrente discriminatorio tenuto dal Comune di Catania, che aveva applicato ad altro dirigente una sanzione disciplinare conservativa.

È contestata, quindi, la differenziazione tra le posizioni dei due dirigenti effettuata dalla Corte d’Appello.

7. Il motivo, in cui non è precisata la norma che sarebbe stata violata ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ., è inammissibile.

La Corte d’Appello, nel confermare la sentenza del Tribunale ha ritenuto non comparabile la posizione dei dipendenti che non rivestivano analoga posizione dirigenziale, e che l’altro dirigente aveva adottato un atto di autotutela prima e non dopo la contestazione disciplinare e non risultava coinvolto nel procedimento penale, e soprattutto che la ricorrente non aveva allegato specifiche circostanze fattuali dalle quali desumere l’identità delle condotte contestate.

Dunque, da un lato la Corte d’Appello ha effettuato il giudizio di proporzionalità anche considerando la posizione degli altri soggetti, con accertamento rispetto al quale viene richiesto un riesame nel merito inammissibile in questa sede – atteso altresì che nel motivo di ricorso non è contestato comunque l’adozione dell’ atto di autotutela, sia pure deducendone la concomitanza con la data della contestazione disciplinare e la mancanza di procedimento penale – dall’altro ha rilevato la genericità della deduzione della ricorrente con statuizione non adeguatamente censurata in questa sede.

8. Con il quinto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 116, cod. proc. civ., per erronea valutazione del materiale istruttorio compiuto dal giudice di merito posto a base della decisone. Omessa, insufficiente e contraddittoria ed illogica motivazione.

È censurata la statuizione secondo la quale le O.M. srl (a cui la P.D. aveva ceduto lo specifico ramo di azienda) erano state escluse dal verbale di gara in quanto era venuta meno la consulenza della lavoratrice.

Tale affermazione era apodittica ed illogica, in contrasto con l’aver affermato la Corte che la ricorrente aveva predisposto il bando per favorire O.M., mentre da tale fatto risultava che il bando non aveva inteso favore quest’ultima.

9. Il motivo è inammissibile per difetto di rilevanza, in quanto la Corte d’Appello ha affermato la legittimità del licenziamento in ragione della predisposizione del bando di gara di favore su punti diversi rispetto a quelli in relazione ai quali era intervenuta l’esclusione della società. Ed infatti, afferma la Corte d’Appello che, mentre l’altra società concorrente era stata esclusa per mancanza di due dei requisiti previsti dal bando di gara predisposto dalla lavoratrice, O.M. srl, cessionaria della P.D. srl, era stata esclusa per motivi diversi a causa di errori commessi dalla società stessa (mancata allegazione copia certificati, autocertificazione e dal certificato camerale risultava inattiva).

10. Il ricorso va rigettato.

11. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

12. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi, euro 5.000,00 per compensi professionali, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

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