Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 dicembre 2022, n. 35678

Lavoro, Licenziamento, Contratti di collaborazione a progetto, Mancata partecipazione ai corsi di formazione per la salute e la sicurezza sul lavoro, Impossibilità di occupare il lavoratore a tempo pieno per inesistenza in azienda di una simile posizione di lavoro, Delibera di esclusione del socio da una società cooperativa di produzione e lavoro, Rigetto

 

Rilevato che

 

1. La Corte d’appello di Milano, giudicando in sede di rinvio dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 22682 del 2018), ha annullato il licenziamento intimato a A.M. con lettera del 18.6.2015 ed ha condannato S.P. soc. coop. a reintegrare il predetto nel posto di lavoro con il medesimo inquadramento, le stesse mansioni o mansioni equivalenti a quelle accertate con sentenza n. 2736/2014 del Tribunale di Milano, ed a corrispondergli un’indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello di effettiva reintegra, in misura comunque non superiore a dodici mensilità, oltre accessori.

2. La Corte territoriale ha premesso che con sentenza del Tribunale di Milano n. 2736 del 2014, pronunciata in separato procedimento, era stata accertata l’illegittimità dei contratti di collaborazione a progetto stipulati tra S.P. soc. coop. e il lavoratore e dichiarato costituito tra le parti un rapporto di lavoro subordinato, a tempo indeterminato, a far data dal 19.2.2009; che con lettera del 21.5.2015 la società aveva contestato al lavoratore di non essersi presentato in azienda, benché più volte sollecitato, per la sottoscrizione della documentazione necessaria all’ingresso nei punti vendita della clientela e per lo svolgimento dell’attività lavorativa e di non aver partecipato ai corsi di formazione per la salute e la sicurezza sul lavoro; che nel frattempo la società cooperativa, in via autonoma e ulteriore, aveva inviato alla Direzione Territoriale del Lavoro comunicazione, ai sensi dell’articolo 7 della legge 604 del 1966, come modif6icato dalla legge n. 92 del 2012, manifestando l’intenzione di procedere al licenziamento del lavoratore “per impossibilità di occuparlo a tempo pieno come da lui rivendicato, per inesistenza di una tale postazione di lavoro o per copertura integrale dell’organico aziendale”; che al sig.A. era stata prospettata la possibilità di proseguire l’attività con contratto di lavoro intermittente ma che il predetto aveva rifiutato tale proposta.

3. Ha dato atto che con lettera del 18.6.2015 la società aveva comunicato la risoluzione del rapporto associativo e il contestuale licenziamento per giusta causa e giustificato motivo oggettivo; che la sentenza d’appello n. 1424/2016, poi cassata, aveva ritenuto che, con la citata lettera del 18.6.2015, la società avesse validamente comunicato la delibera di esclusione dalla compagine sociale, che tale delibera non fosse stata oggetto di opposizione da parte del socio lavoratore e che la mancata impugnazione della stessa precludesse l’esame di ogni questione relativa alla legittimità del licenziamento.

4. Questa S.C., con la sentenza n. 22682/2018, ha cassato la decisione d’appello nella parte in cui aveva ritenuto maturata la decadenza di cui all’art. 2533 c.c. sul presupposto che la lettera del 18.6.2015 integrasse il requisito della comunicazione puntuale e specifica.

5. La Corte d’appello di Milano, in sede di rinvio, ha ritenuto che fosse stata omessa la rituale comunicazione della delibera di esclusione dalla compagine sociale e che quindi non si fosse verificata la decadenza di cui all’art. 2533 cod. civ.; che pertanto non fosse precluso l’esame della questione di legittimità del licenziamento né la possibile applicazione delle tutele di cui all’art. 18 St. Lav.

6. Nel merito, ha escluso l’esistenza di una giusta causa di licenziamento sulla base dei seguenti rilievi: la società cooperativa ha richiesto al sig.A., come condizione necessaria per lo svolgimento di attività lavorativa, la sottoscrizione di un contratto di lavoro intermittente, in contrasto con il dispositivo della sentenza n. 2736/2014 pronunciata dal Tribunale di Milano fra le stesse parti; che il rifiuto del lavoratore di sottoscrivere il contratto di lavoro intermittente non potesse assumere rilievo disciplinare; che il predetto avesse dato prova di avere offerto la propria prestazione lavorativa a tempo pieno a far data dal 2 ottobre 2014; che, nella situazione di incertezza sulla riattivazione del rapporto di lavoro, l’addebito di mancata partecipazione ai corsi di formazione per la salute e sicurezza fosse del tutto inidoneo a sorreggere il licenziamento per giusta causa.

7. Ha parimenti escluso la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento in difetto di prova, di cui era onerata la società, della inesistenza nell’intero ambito aziendale di una postazione di lavoro full time compatibile con le mansioni del lavoratore.

8. Ha applicato la tutela di cui all’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, sul rilievo della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per motivo oggettivo e della insussistenza del fatto contestato come giusta causa di recesso.

9. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la S.P. soc. coop. affidato a sette motivi. A.M. ha resistito con controricorso.

10. La società ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1 cod. proc. civ.

 

Considerato che

 

11. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., per il carattere apparente della motivazione, avendo i giudici di rinvio recepito la ricostruzione in fatto e le argomentazioni adoperate dal Tribunale di Milano, senza svolgere alcun esame critico delle censure mosse dalla società cooperativa con il reclamo. In particolare, si critica la sentenza impugnata per non aver preso posizione sulle critiche alla sentenza di primo grado, nella parte in cui ha ritenuto non dimostrato il giustificato motivo oggettivo di licenziamento senza ammettere le prove testimoniali richieste dalla parte datoriale e facendo leva su un improprio riferimento all’originario contratto di collaborazione a progetto.

12. Con il secondo motivo si censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost. e dell’art. 2697 cod. civ. nonché per vizio di motivazione, anche in relazione all’art. 115 cod. proc. civ. per mancata ammissione della prova testimoniale ritualmente dedotta al fine di dimostrare l’esistenza di un motivo oggettivo di recesso, e cioè l’impossibilità di occupare il sig.A. a tempo pieno per inesistenza in azienda di una simile posizione di lavoro con riferimento al personale addetto al caricamento generico. Si denuncia la violazione del diritto di difesa per avere la Corte di merito fondato la decisione di condanna della società cooperativa alla reintegra e al risarcimento del danno sul rilievo del mancato adempimento dell’onere probatorio sulla stessa gravante, onere che, in verità, non le è stato consentito di soddisfare (sebbene le circostanze oggetto delle prove testimoniali fossero già supportate da evidenze documentali).

13. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ., per omessa motivazione in ordine al rigetto della richiesta di ammissione della prova testimoniale.

14. Con il quarto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 41 Cost. e dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, anche in relazione all’art. 30, comma 1, della legge n. 183 del 2010, per non essersi la Corte di appello limitata a verificare l’inesistenza di una postazione di lavoro di merchandiser generico a tempo pieno in cui impiegare il lavoratore.

Infatti, ove anche il mancato impiego con orario a tempo pieno del sig.A., al pari di tutti gli altri merchandiser generici operanti in azienda, fosse stato ascrivibile non già alla strutturale incompatibilità del caricamento dei prodotti con questo regime di orario ma ad una scelta organizzativa aziendale, le ragioni di opportunità di tale scelta non avrebbero potuto comunque essere sindacate in via giudiziale.

15. Con il quinto motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 1361 cod. civ. per avere la sentenza impugnata ritenuto ravvisabile la possibilità della cooperativa di adibire il sig.A. a tempo pieno muovendo dall’erroneo assunto di insussistenza di una delimitazione dell’orario lavorativo nel contratto a progetto sottoscritto tra le parti due anni prima, senza considerare che l’assenza di un limite di orario prestabilito fosse connaturata alla natura parasubordinata del rapporto. La Corte d’appello ha interpretato in modo letterale ed erroneo il contratto a progetto, senza verificarne i modi in concreto caratterizzati da una attività resa per 3-4 ore settimanali e limitata al mero caricamento dei banchi.

16. Con il sesto motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della legge n. 142 del 2001 e dell’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, per avere la sentenza impugnata ritenuto applicabile la tutela reintegratoria benché la stessa fosse preclusa dalla mancata impugnazione della delibera di esclusione, nei termini di cui all’art. 2533 cod. civ., delibera di cui il lavoratore ha avuto comunicazione con la relativa produzione in giudizio. Nel caso di specie, i fatti posti a base della delibera di esclusione e del licenziamento sono del tutto identici e sono gli stessi fatti contestati con lettera del 21.5.2015, rispetto a cui il sig.A. si è difeso impugnando solo il licenziamento per giusta causa.

17. Con il settimo motivo di ricorso si addebita alla sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1992, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, in combinato disposto con gli artt. 2697 e 1227 cod. civ. per avere la stessa riconosciuto l’indennità risarcitoria nella misura massima di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto senza effettuare alcuna indagine in punto di aliunde percipiendum.

18. Il primo motivo di ricorso non può trovare accoglimento.

19. Deve anzitutto escludersi il vizio di carenza o apparenza della motivazione tale da integrare la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c.. Le Sezioni Unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno precisato che “la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle Preleggi, come riduzione al ‘minimo costituzionale’ del sindacato di legittimità sulla motivazione.

Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella ‘mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico’, nella ‘motivazione apparente’, nel ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’ e nella ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘sufficienza’ della motivazione”. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 22232 del 2016, hanno ulteriormente precisato che “la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture”, (v. anche Cass. n. 12351 del 2017).

20. Tali difetti non sono in alcun modo rinvenibili nella decisione impugnata che ha ritenuto non provata l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo di recesso, individuato dalla società nella mancanza di postazioni di lavoro full time, sul rilievo che dai contratti a progetto conclusi con il sig.A. e poi dichiarati illegittimi non emergesse alcun limite di orario; che non vi fosse prova della necessità di eseguire il caricamento della merce presso tutti i punti vendita entro le ore 10.00; che, comunque, non vi fosse prova della impossibilità di assegnare il sig.A. ad una postazione di lavoro in precedenza non ricoperta.

Valutazioni che debbono essere lette unitamente alla sentenza sulla illegittimità dei contratti a progetto, che aveva dichiarato “costituito tra le parti un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 19.2.2009, per lo svolgimento di mansioni riconducibili al 4° livello del CCNL Autostrasporto, Merci e Logistica”.

21. Si è dunque in presenza di una motivazione certamente esistente e priva di intrinseche illogicità e che solo attraverso un riesame fattuale, inammissibile in questa sede, potrebbe essere rimessa in discussione.

22. Il secondo e il terzo motivo di ricorso, da trattare congiuntamente per connessione logica, sono inammissibili.

23. Sebbene formulate attraverso la denuncia di errores in procedendo e in iudicando, le censure investono la mancata ammissione della prova testimoniale e la valutazione degli elementi probatori raccolti; tali censure, in quanto attengono al merito della controversia, sono suscettibili di esame in sede di legittimità nei ristretti limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c.; al riguardo, secondo l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite (sentenza n. 8053/14) e dalle successive pronunce conformi (cfr. Cass., 27325 del 2017; Cass., n. 9749 del 2016), l’omesso esame deve riguardare un fatto, inteso nella sua accezione storico[1]fenomenica, principale (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia carattere decisivo. Non solo quindi la censura non può investire argomenti o profili giuridici, ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi, ai sensi dell’art. 360 comma 1, n. 5 c.p.c., anche l’omesso esame di determinati elementi probatori; il ricorso in esame non soddisfa i requisiti del nuovo art. 360 n. 5 c.p.c. in quanto non solo non individua un fatto storico decisivo il cui esame sarebbe stato omesso ma sollecita nella sostanza una revisione delle valutazioni e del convincimento del Collegio di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, di per sé estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione.

24. Riguardo alla eccepita violazione delle regole di formazione della prova, è sufficiente ribadire che l’art. 115 c.p.c. si limita a richiedere che la decisione si basi su elementi validamente acquisiti al processo, con divieto del giudice di utilizzare prove non dedotte dalle parti o acquisite d’ufficio al di fuori dei casi in cui la legge gli conferisce un potere officioso d’indagine (Cass. 27000/2016; Cass. 13960/2014), mentre esula dall’ambito applicativo di tali disposizioni ogni questione che involga il modo in cui siano state valutati gli elementi acquisiti, profilo su cui il controllo di legittimità può svolgersi solo con riguardo alla motivazione, in termini di violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c., come sopra definito, oppure nei limiti del citato art. 360 n. 5 c.p.c. (v. Cass., S.U. nn. 8053 e 8054 del 2014). Neppure vi è spazio per ritenere violato l’art. 2697 cod. civ. avendo la Corte di rinvio addebitato a parte datoriale l’onere di prova conformemente al disposto dell’art. 5, legge 604 del 1966.

25. Il quarto motivo di ricorso è infondato perché la sentenza impugnata si è limitata a rilevare che la società non avesse dimostrato, come era suo onere, “l’inesistenza nell’intero ambito aziendale di una postazione di lavoro full time” e nel fare ciò non ha in alcun modo sindacato le scelte organizzative imprenditoriali.

26. Neppure il quinto motivo può trovare accoglimento atteso che il riferimento al contenuto del contratto a progetto “da cui non emerge alcun limite di orario” è fatto dalla Corte di merito per motivare, insieme ad altri elementi, la mancanza di prova della impossibilità di far lavorare il sig.A. a tempo pieno, come peraltro imposto dalla sentenza del Tribunale di Milano, pronunciata in separato procedimento, che ha dichiarato costituito tra le parti un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato.

27. Il sesto motivo di ricorso, con cui si deduce la violazione dell’art. 2 della legge n. 142 del 2001 e dell’art. 18, comma 4 cit., per essere stata applicata la tutela reintegratoria nonostante la mancata tempestiva impugnazione della delibera di esclusione comunicata al lavoratore con la produzione in giudizio, è infondato.

28. La deduzione di avvenuta comunicazione della delibera di esclusione con la produzione in giudizio, oltre che inammissibile perché nuova, è contraria ai precedenti di questa Corte in cui si è osservato che l’onere di comunicazione della delibera di esclusione del socio da una società cooperativa di produzione e lavoro, almeno “in un contenuto minimo necessario a specificarne le ragioni – imposto, a pena d’inefficacia, sia dalla disciplina generale di cui all’art. 2533 c.c., ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione, sia, per la gravità degli effetti che ne discendono, dalla disciplina speciale di cui alla l. n. 142 del 2001, che la rende idonea ad estinguere contemporaneamente il rapporto associativo e quello lavorativo – (è) insuscettibile di essere sostituito da altre forme di conoscenza comunque acquisita, quale la produzione della delibera in giudizio”, (Cass. n. 24795 del 2016; nello stesso senso Cass. n. 6373 del 2016; n. 7592 del 1999).

29. Neppure è fondata la denuncia di violazione dell’art. 18, comma 4 cit.

30. Le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 27436 del 2017, hanno statuito che “In tema di estinzione del rapporto del socio lavoratore di cooperativa, ove per le medesime ragioni afferenti al rapporto lavorativo siano stati contestualmente emanati la delibera di esclusione ed il licenziamento, l’omessa impugnativa della delibera non preclude la tutela risarcitoria contemplata dall’art. 8 della l. n. 604 del 1966, mentre esclude quella restitutoria della qualità di lavoratore”.

31. Con successive pronunce, si è ribadito ed ulteriormente precisato che “L’estinzione del rapporto di lavoro del socio di società cooperativa può derivare dall’adozione della delibera di esclusione, di cui costituisce conseguenza necessitata “ex lege”, o dall’adozione di un formale atto di licenziamento; solo in quest’ultimo caso, in presenza dei relativi presupposti, vi sarà spazio per l’esplicazione delle tutele connesse alla cessazione del rapporto di lavoro: a) solo risarcimento, ai sensi dell’art. 8 della l. n. 604 del 1966, in caso di perdita della qualità di socio per effetto di delibera di espulsione non impugnata o di rigetto dell’opposizione avverso la stessa, proposta ai sensi dell’art. 2533 c.c.; b) tutela obbligatoria o reale, nell’ipotesi di adozione di un provvedimento di licenziamento in assenza di delibera di espulsione” (Cass. n. 35341 del 2021).

32. Nel caso in esame, una volta accertata la mancata comunicazione della delibera di esclusione, la stessa deve considerarsi tamquan non esset e ciò comporta l’assenza di preclusioni all’applicazione della tutela reintegratoria.

33. In tal senso si è ritenuto che qualora non sia adempiuto l’onere di comunicazione della delibera di esclusione, in un contenuto minimo necessario a specificarne le ragioni, deve trovare applicazione la tutela reintegratoria di cui all’art. 18 st. lav. (in tal senso Cass. n. 24795 del 2016 cit.; v. anche Cass. n. 6373 del 2016 in motiv. secondo cui “in mancanza di qualsiasi comunicazione della delibera di esclusione, il procedimento contro il licenziamento segue il suo corso e dovrà essere trattato in quanto tale, come un normale giudizio su un caso di licenziamento.

E non decorre alcun termine di impugnazione ex art. 2533 c.c. Gli effetti descritti dall’art. 2 l. 142/2001 che precluderebbero l’applicazione dell’art.18; e quelli ancora più radicalmente estintivi previsti dall’art. 5 L. 142 come mod. dalla l. 30/2003 (che precluderebbero l’applicazione di tutto l’apparato normativo formale, causale e rimediale del licenziamento) presuppongono che la delibera di esclusione sia stata comunicata al lavoratore”.

34. Il settimo motivo di ricorso è inammissibile.

35. Questa Corte ha chiarito che, in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che affermi la detraibilità dall’indennità risarcitoria prevista dal nuovo testo dell’art. 18, comma 4, St. Lav., a titolo di “aliunde percipiendum”, di quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi alla ricerca di una nuova occupazione, ha l’onere di allegare le circostanze specifiche riguardanti la situazione del mercato del lavoro in relazione alla professionalità del danneggiato, da cui desumere, anche con ragionamento presuntivo, l’utilizzabilità di tale professionalità per il conseguimento di nuovi guadagni e la riduzione del danno “Cass. n. 17683 del 2018; n. 2499 del 2017).

36. Il motivo di ricorso in esame non reca alcuna allegazione sul punto né dà atto di allegazioni effettuate nei precedenti gradi di giudizio o di elementi rilevanti comunque emergenti dagli atti di causa.

37. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.

38. Le spese del giudizio di legittimità sono regolate secondo il criterio di soccombenza, e liquidate come in dispositivo.

39. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

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