Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 dicembre 2022, n. 36223

Lavoro, Intermediazione di manodopera, Settore turismo, Appalto, Divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro ex Legge n. 1369/1960, Enti pubblici economici, Rigetto

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso depositato presso il Tribunale di Cosenza P.G. ha convenuto l’A. chiedendo che:

fosse accertata la violazione della legge n. 1369 del 1960 in materia di intermediazione di manodopera, con conseguente dichiarazione di instaurazione del rapporto di lavoro con la parte resistente ed inquadramento nella qualifica già rivestita e spettante alla luce del CCNL del 22 gennaio 1999 per i dipendenti di aziende del settore turismo a far data dal 1° marzo 2000;

in subordine, l’A. fosse condannata a pagare la somma € 25.084,44, o quella diversa di giustizia, a titolo di differenze retributive per le ore di lavoro svolte per un totale di 36 ore settimanali dal 1° marzo 2000 al 30 aprile 2002.

Il ricorrente ha dedotto che:

era stato assunto dalla C. S.r.l. sin dal 6 marzo 2000 come cameriere;

aveva svolto la sua attività presso il C.F. di San Giovanni in Fiore, di proprietà dell’A., ove la C. S.r.l. gestiva i servizi di sala e cucina in esecuzione di un contratto di appalto;

tale attività era stata svolta, in realtà, per conto dell’A..

Il Tribunale di Cosenza, nel contraddittorio delle parti, con sentenza 5/25.6.2012, ha condannato l’A. a corrispondere la somma di € 27.578,26, rigettando la domanda volta ad ottenere l’instaurazione di un rapporto di lavoro con parte resistente.

P.G. ha proposto appello.

L’A., Gestione liquidatoria, ha proposto appello incidentale.

La Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza n. 1523/2015, ha respinto entrambi gli appelli.

P.G. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un motivo.

L’ARSAC – Gestione stralcio A. si è difesa con controricorso.

 

Motivi della decisione

 

1) Preliminarmente va respinta l’eccezione di tardività del ricorso proposta dalla parte controricorrente in quanto l’atto introduttivo del giudizio di primo grado è stato depositato il 26 marzo 2007.

Infatti, in materia di c.d. termine lungo di impugnazione, l’art. 327 c.p.c., come novellato dall’art. 46 della legge n. 69 del 2009 mediante riduzione del termine da un anno a sei mesi, si applica, ai sensi dell’art. 58 della medesima legge, ai giudizi instaurati, e non alle impugnazioni proposte, a decorrere dal 4 luglio 2009, essendo quindi ancora valido il termine annuale qualora l’atto introduttivo del giudizio di primo grado sia anteriore a quella data (Cass., Sez. 2, n. 6784 del 4 maggio 2012).

Nella specie, la sentenza impugnata è stata pubblicata il 29 gennaio 2016 (e mai notificata) ed il ricorso per cassazione è stato spedito a mezzo del servizio postale il 26 gennaio 2017.

Pertanto, trovando applicazione il c.d. termine lungo di un anno, detto ricorso è tempestivo.

2) Con un unico motivo il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione di legge perché l’ente territoriale avrebbe errato nell’escludere la costituzione di un rapporto di lavoro con l’allora A..

Egli deduce, in particolare, che, ai sensi dell’art. 1, comma 4, della legge n. 1369 del 1960, il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro si estenderebbe alle aziende dello Stato ed agli Enti pubblici, anche se gestiti in forma autonoma, e che, quindi, i prestatori di lavoro occupati in violazione dei divieti posti dal medesimo art. 1 andrebbero considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni.

L’estensione di tale normativa agli enti pubblici sarebbe possibile, per l’esattezza, ove questi ultimi siano organizzati con criteri di imprenditorialità.

Ad avviso di P.G., siffatta circostanza si sarebbe verificata nella specie.

La doglianza è infondata.

Indubbiamente, è principio consolidato quello per il quale il divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro, sancito dalla legge n. 1369 del 1960, trova applicazione anche nel caso in cui il rapporto intercorra con enti pubblici economici, in relazione alle sole attività che presentino, per i loro contenuti sostanziali, carattere imprenditoriale (Cass., Sez. L, n. 11383 del 22 maggio 2014).

Peraltro, deve tenersi conto che, in tema di intermediazione illecita di manodopera, l’estensione alle aziende dello Stato ed agli enti pubblici della disciplina introdotta dalla legge n. 1369 del 1960 (ex art. 1, comma 4), va coordinata con il principio costituzionale dell’accesso agli impieghi pubblici mediante concorso, sicché, pure nelle ipotesi in cui l’intermediazione illecita si riferisca ad un’attività gestita in forma imprenditoriale dalla P.A., non può costituirsi un valido rapporto di impiego, ai sensi del comma 5 dell’art. 1, prevalendo il divieto sancito dall’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 (e, in precedenza, dall’art. 36 del d.lgs. n. 29 del 1993), con conseguente nullità del rapporto di lavoro ed applicabilità dei limitati effetti previsti dall’art. 2126 c.c. (Cass., Sez. L., n. 28260 del 27 novembre 2017).

In particolare, deve affermarsi che, in seguito all’entrata in vigore del d.l. n. 9 del 1993, convertito con modificazioni dalla legge n. 67 del 1993, le forme di assunzione alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni sono state tipizzate nelle tre forme del concorso pubblico, dell’avviamento dal collocamento e delle assunzioni obbligatorie, con nullità dei rapporti di lavoro diversamente costituiti e mero diritto del lavoratore al risarcimento del danno; ne deriva che non è applicabile alle pubbliche amministrazioni, le quali affidino in appalto l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’imprenditore, il disposto dell’art. 1 della legge n. 1369 del 1960, che prevede, per il caso di violazione del divieto di interposizione di manodopera, la costituzione del rapporto di lavoro con l’interponente (Cass., Sez. L, n. 12964 del 21 maggio 2008).

Pertanto, anche nelle ipotesi in cui l’intermediazione illecita si riferisca ad un’attività gestita in forma imprenditoriale dalla P.A. e sia applicabile il comma 4 dell’art. 1 della legge n. 1369 del 1960, non può essere esteso all’ente pubblico non economico il principio fissato dal comma 5 del richiamato art. 1, in forza del quale “i prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni”.

Infatti, su detta disposizione (significativamente non richiamata nel comma 4 che estende alle aziende dello Stato ed agli enti pubblici solo i primi tre commi dell’art. 1) prevale, come detto, il divieto oggi sancito dall’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, e, in precedenza, dall’art. 36 del d.lgs. n. 29 del 1993, come modificato dall’art. 22 del d.lgs. n. 80 del 1998, nella parte ove prevedono che “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”.

Ciò comporta che, ferma la responsabilità solidale del committente per le obbligazioni scaturenti dal rapporto di lavoro nel periodo in cui l’appalto ha avuto esecuzione, la violazione del divieto di cui all’art. 1 menzionato, rende nullo il rapporto di lavoro che, quindi, produce nei confronti dell’ente pubblico non economico i limitati effetti previsti dall’art. 2126 c.c.

Con riferimento al caso di specie, concernente la Regione Calabria, deve affermarsi che gli enti regionali di sviluppo agricolo, ora trasformati in Aziende regionali per lo sviluppo e i servizi in agricoltura (ovvero A.) sono enti pubblici non economici (Cass., SU, n. 9970 del 14 novembre 1996).

Diversamente, i rapporti afferenti ad attività imprenditoriali relative alle gestioni speciali già facenti capo al disciolto Ente regionale di sviluppo agricolo Regione Calabria e provvisoriamente gestiti, ai fini della dismissione, dal commissario liquidatore nominato dall’A. (Agenzia regionale per lo sviluppo ed i servizi in agricoltura) non sono riconducibili alle funzioni istituzionali dell’Ente e, quindi, non concernono beni appartenenti al patrimonio indisponibile del detto ente, bensì beni commerciabili sul mercato;

essi sono, quindi, soggetti alla disciplina privatistica (Cass., SU, n. 3125 del 14 febbraio 2006).

Nella presente controversia la corte territoriale ha accertato, con una valutazione di merito neppure contestata con il ricorso, che l’attività svolta nel C.F. di San Giovanni in Fiore faceva capo non ad una gestione speciale dell’A. a carattere imprenditoriale, ma all’A. stessa quale ente pubblico non economico, che vi espletava le proprie funzioni istituzionali.

Ne deriva il rigetto del ricorso.

3) Il ricorso è rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate come in dispositivo.

Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

– rigetta il ricorso;

– condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in € 1.500,00 per compensi, oltre € 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge;

– ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

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