Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 dicembre 2022, n. 37946

Lavoro, Licenziamento, Natura discriminatoria del recesso datoriale, Cosiddetto “aliunde perceptum”, Rigetto 

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza in data 16 luglio 2018, la Corte d’appello di Roma ha respinto il reclamo proposto da L.G.I. S.p.A. avverso la decisione del locale Tribunale che, riformando l’ordinanza emessa in data 5 aprile 2017, aveva dichiarato illegittimo, ai sensi dell’art. 18, comma 4, il licenziamento intimato dalla società reclamante a B.G. con missiva del 21 settembre 2019, con condanna della datrice alla reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato, nonché alla corresponsione della retribuzione globale di fatto nel frattempo maturata in misura non superiore a 12 mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

In particolare, il Tribunale, che nella fase sommaria, esclusa la natura discriminatoria del recesso datoriale, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento per violazione dell’obbligo di repêchage da parte della L.G.I. S.p.A., in seguito all’opposizione proposta dalla lavoratrice, con sentenza n. 2968 del 2018, in riforma della mentovata ordinanza, aveva ritenuto l’illegittimità del licenziamento per manifesta insussistenza del nesso causale tra le esigenze organizzative manifestate dall’azienda quale motivazione del recesso ed il provvedimento espulsivo.

La Corte, condividendo l’iter argomentativo del Tribunale, ha ritenuto il difetto delle ragioni poste a sostegno del recesso datoriale e, pertanto, del nesso di causalità tra la ragione indicata – consistente nella asserita ma non configurabile riorganizzazione del punto vendita di via Borgognona – ed il licenziamento intimato.

2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso assistito da memoria la L.G.I. S.p.A., affidandolo a tre motivi.

3. Resiste, con controricorso, B.G..

 

Considerato in diritto

 

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ. per non aver la Corte tenuto in debita considerazione la soppressione della figura del capo reparto, come posta a fondamento del licenziamento intimato, in quanto volta a realizzare anche un risparmio dei costi.

1.1. Con il secondo motivo si censura la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. in considerazione della mancata ammissione dei mezzi istruttori dedotti, decisivi per un diverso esito del giudizio.

1.2. Con il terzo motivo si allega la violazione dell’art. 18, co. 4 e 7 L. n. 300 del 1970 per essere stato posto in capo al datore di lavoro l’onere probatorio circa la dimostrazione dell’aliunde perceptum.

2. Il primo motivo è inammissibile.

2.1. Va preliminarmente rilevato che il presente giudizio di cassazione, ratione temporis, è soggetto non solo alla nuova disciplina di cui all’art. 360, co. 1, n. 5, cod. proc. civ., in base alla quale, le sentenze possono essere impugnate “per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”, ma anche a quella di cui all’art. 348 ter, ult. co . cod. proc. civ., secondo cui il vizio in questione non può essere proposto con il ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che confermi la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado, ossia non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d, doppia conforme (v. sul punto, Cass. n. 4223 del 2016; Cass. n. 23021 del 2014).

2.2. Occorre poi evidenziare, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 360, co. 1, n. 5 cod. proc. civ., che si verte nell’ambito di una valutazione di fatto, totalmente sottratta al sindacato di legittimità, in quanto, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., al di fuori dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario – in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente;

manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le più recenti, Cass. n. 13428 del 2020; Cass. n. 23940 del 2017): nella specie, non solo parte ricorrente non deduce l’omessa valutazione di un fatto storico ma appunta le proprie censure su aspetti valutativi dell’iter motivazionale, concernenti la asseritamente erronea valutazione di materiale istruttorio.

Invero, l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 143 del 2012 (ndr l. n. 134 del 2012), prevede l’ ” omesso esame” come riferito ad “un fatto decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (cfr., in questi termini, fra le più recenti, Cass. n. 2268 del 2022).

In particolare, ha rilevato questa Corte (V. Cass. n. 8584 del 2022) che l’art. 360, comma 1 n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. con mod. dalla l. n. 134 del 2012, consente di censurare l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nozione nel cui ambito non è inquadrabile per es. un documento (nella specie si trattava della consulenza tecnica d’ufficio recepita dal giudice) risolvendosi la critica che ad esso nell’esposizione di mere argomentazioni difensive contro un elemento istruttorio;

nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 12609 del 2021) si evidenzia la centralità del riferimento ad un fatto storico (principale o secondario), precisandosi che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass., sez. un., n. 19881 del 2014);

2. Anche il secondo motivo di ricorso deve reputarsi inammissibile.

Va rilevato, infatti, che, in sede di ricorso per cassazione, una questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una asseritamente erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove <non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960).

2.1. In via di premessa, giova, poi, ribadire che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento di redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa: non essendo la scelta imprenditoriale, che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro, sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost. (Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201; Cass. 3 maggio 2017, n. 10699); sempre che, s’intende, dette ragioni incidano, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato, soltanto così non risultando il recesso pretestuoso (Cass. 29099 del 2019; Cass. 28 marzo 2019, n. 8661).

2.2. Orbene, nella specie, la Corte, con motivazione congrua oltre che incensurabile in sede di legittimità, ha dato conto della pretestuosità del giustificato motivo oggettivo addotto, consistente in una riduzione della figura del department manager (ovvero del responsabile di reparto) originariamente ricoperta dalla controricorrente, per effetto di una complessiva riorganizzazione aziendale intervenuta a far tempo dal febbraio 2015, significando che, piuttosto, nel punto vendita di via Borgognona, ove la lavoratrice era stata trasferita sin dall’1 luglio 2014, non era affatto presente la figura del responsabile di reparto – prevedendo l’organico di tale punto vendita esclusivamente la figura del direttore e del vice direttore, nonché di nove assistenti alla vendita.

Il giudice di secondo grado ha, quindi, chiarito che la B.G. aveva ivi svolto l’attività di addetta alle vendite, con conseguente dequalificazione, aggiungendo che tale circostanza non era stata in alcun modo contestata dalla società, risultando, quindi, pacifica fra le parti.

2.2. Deve, conseguentemente, concludersi che, nel caso di specie, propugnando una diversa interpretazione delle risultanze probatorie, parte ricorrente oblitera quanto statuito dal Supremo Collegio in ordine alla apparente deduzione di vizi ex artt. 360 co. 1 nn. 3 e 5 e cioè che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr., SU n. 34476 del 2021).

3. Il terzo motivo è infondato.

Se questa Corte ha affermato che in tema di licenziamento illegittimo, il cd. “aliunde perceptum” non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto, pertanto, allorquando vi sia stata la rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possano ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata e se l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (cfr., sul punto, Cass. n. 19163 del 2022), nondimeno, gli elementi fattuali posti a fondamento dell’aliunde perceptum devono essere ritualmente allegati dalla parte che lo deduca.

3.1. Nella specie, la Corte ha chiarito nella sentenza impugnata che la L.G. non aveva dedotto o allegato, nella fase sommaria, ovvero in quella di opposizione, fatti o circostanze relativi a presunti redditi percepiti dalla B.G. dopo il licenziamento, precisando, congruamente, come a tale mancata allegazione non potessero supplire le istanze istruttorie avanzate dalla società (consistenti nell’interrogatorio formale e nella richiesta di documentazione all’Inps ed alla Agenzia delle Entrate), tenuto conto che le richieste istruttorie possono essere correttamente volte alla sola dimostrazione dei fatti ritualmente indicati ed allegati.

4. Alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso deve essere respinto.

4.1. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1–bis dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 (ndr comma 1–bis dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002), se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 5000,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 –bis dello stesso articolo 13 (ndr comma 1 –bis dello stesso articolo 13), se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 dicembre 2022, n. 37946
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