Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 dicembre 2022, n. 37947

Lavoro, Licenziamento, Dichiarazione di fallimento della società datrice, Soppressione delle funzioni esercitate dal lavoratore, Inammissibilità

 

Ritenuto in fatto

 

Con sentenza del 28 febbraio 2019, la Corte d’Appello di Milano, in parziale riforma della decisione di primo grado che aveva respinto la domanda avanzata dal ricorrente, ha accertato l’illegittimità del licenziamento intimato da A. s.r.l. a M.L., con decorrenza 21 settembre 2015 e, dichiarato risolto il rapporto, ha condannato la società alla corresponsione al lavoratore di una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data del recesso al saldo, dichiarando, altresì, l’illegittimità della sospensione del M.L. in CIGO e CIGS. La Corte, quindi, ha condannato la A. al pagamento, in favore dell’appellante, dell’importo di euro 27.896,00 oltre accessori.

In particolare, il giudice di secondo grado, disattesa l’eccezione di inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 434 cod. proc. civ., ha ritenuto, sulla base dell’esame delle risultanze testimoniali acquisite, la sussistenza di profili di contrasto, sfavorevoli alla parte gravata degli oneri probatori in ordine alla legittimità della sospensione e del recesso, da individuarsi nella società datrice, concludendo per la prevalenza degli elementi probatori acquisiti in ordine alla illegittimità del recesso.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso A. s.r.l. in liquidazione, affidandolo a tre motivi.

Resiste, con controricorso, M.L..

L’ufficio del Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Considerato in diritto

 

1. Va preliminarmente disattesa l’istanza di interruzione del giudizio avanzata dalla difesa del controricorrente in considerazione dell’intervenuta dichiarazione di fallimento della società datrice.

Questa Corte ha più volte affermato (cfr., fra le altre, Cass. n. 3630 del 2021) che il fallimento di una delle parti che si verifichi nel giudizio di Cassazione non determina l’interruzione del processo ex art. 299 e ss. c.p.c., trattandosi di procedimento dominato dall’impulso di ufficio. Ne consegue peraltro che, una volta instauratosi il giudizio di Cassazione con la notifica ed il deposito del ricorso, il curatore del fallimento non è legittimato a stare in giudizio in luogo del fallito, essendo irrilevanti i mutamenti della capacità di stare in giudizio di una delle parti e non essendo ipotizzabili, nel giudizio di cassazione, gli adempimenti di cui all’art. 302 c.p.c. (il quale prevede la costituzione in giudizio di coloro ai quali spetta di proseguirlo).

2. Con il primo motivo di ricorso si deduce, sotto il profilo dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 4, la violazione del dettato degli artt. 342 e 434 cod. proc. civ. per difetto di specificità dell’atto di appello.

2.1. Con il secondo motivo, si allega la violazione o falsa applicazione dell’art. 132 n. 4, cod. proc. civ., nonché omissione, insufficienza, illogicità della motivazione della sentenza, deducendosi l’inadeguata enucleazione delle ragioni poste a fondamento del giudizio.

2.2. Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 2697 cod. civ., sotto il profilo dell’art. 360, comma I, nn. 3 e 4 cod. proc. civ. quanto all’onere probatorio gravante sulle parti, alla non corretta valutazione dei mezzi istruttori, alla mancata ammissione del confronto fra i testi.

3. Il primo motivo è inammissibile.

Occorre premettere come la Corte territoriale abbia richiamato, ritenendo esaustivo e rispettoso del disposto legislativo l’appello proposto, la sentenza delle Sezioni Unite n. 27199 del 2017, a mente della quale gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata.

A fronte di una valutazione dell’atto di appello conforme ai descritti requisiti, e compiuta in questi termini dalla Corte, nessun elemento specifico è stato addotto da parte ricorrente.

Al riguardo è opportuno ricordare quanto affermato in sede di legittimità (cfr., sul punto, fra le altre, Cass. n. 24048 del 2021; Cass. n. 20924 del 2019) e, cioè, che la Corte di cassazione, qualora venga dedotto un “error in procedendo”, è giudice anche del “fatto processuale” e può esercitare il potere-dovere di esame diretto degli atti purché la parte ricorrente li abbia compiutamente indicati, non essendo legittimata a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi.

In particolare, la Corte ha ritenuto che la censura di inammissibilità dell’appello per genericità dei motivi di impugnazione possa essere esaminata solo se nel ricorso per cassazione siano stati riportati, nelle parti essenziali, la motivazione della sentenza di primo grado e l’atto di appello o, quantomeno, il contenuto essenziale di quest’ultimo nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità o assenza di specificità, non potendo la parte interessata limitarsi a rinviare all’atto di appello (così, Cass. n. 24048 del 2021).

Come noto, d’altra parte, in tema di specificità dei motivi hanno precisato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. n. 34469 del 27/12/2019), non solo che sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., le censure afferenti a domande di cui non vi sia compiuta riproduzione nel ricorso, ma anche quelle fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità.

In assenza, quindi, nel caso di specie, di qualsivoglia allegazione concernente il dedotto difetto di specificità, la censura deve reputarsi inammissibile.

4. Il secondo ed il terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente per ragioni logico sistematiche, oltre ad essere inammissibilmente formulati in modo promiscuo, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure, denunciando violazioni di legge o di contratto e vizi di motivazione, senza che nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità (v., in particolare, sul punto, Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 17931 del 2013; Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 20355 del 2008; Cass. n. 9470 del 2008), nella sostanza contestano l’accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine alla ritenuta illegittimità del licenziamento, criticando sotto vari profili la valutazione dalla stessa compiuta, con doglianze intrise di circostanze fattuali, mediante un pervasivo rinvio a deposizioni testimoniali e documenti.

4.1. Va in particolar modo rilevato, quanto alla denunziata violazione dell’art. 132 cod. proc. civ. per aversi motivazione apparente occorre che la stessa, pur se graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regola la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 comma 6 Cost. (sul punto, fra le altre, Cass. n. 13248 del 30/06/2020).

4.2. Quanto alla violazione dei criteri che presiedono all’assunzione delle prove, va rilevato che, secondo quanto statuito di recente dalle Sezioni Unite, per dedurre tale violazione, occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (cfr., SU n. 20867 del 20/09/2020).

Inoltre, una lesione dei principi concernenti le prove non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960).

4.3. Con riferimento, infine, alla dedotta lesione dell’art. 2697 cod. civ., per consolidata giurisprudenza di legittimità ( ex plurimis, Cass. n. 18092 del 2020) la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma e tale ipotesi non ricorre nel caso di specie.

5. Nella specie, infatti, la Corte, con motivazione insuscettibile di diversa valutazione in sede di legittimità, ha ritenuto provata l’adibizione del lavoratore al controllo qualità e al laboratorio, oltre all’area tecnica quale responsabile, alla stregua delle risultanze testimoniali e invece non provata, al contempo, dalla società datrice la soppressione delle funzioni esercitate dal M.L. e, perciò, insussistente il giustificato motivo oggettivo, che si sarebbe estrinsecato nella cessazione delle attività di progettazione, concludendo per la conseguente illegittimità del licenziamento e della sospensione in C.I.G.

Orbene, la motivazione della Corte, diffusa e non apodittica, nonché adeguata alla complessità dello scrutinio del materiale istruttorio, appare non censurabile in sede di legittimità anche con riguardo alla richiesta di confronto testimoniale, considerando, peraltro, che l’art. 254 cod. proc. civ. attribuisce al giudice di merito una mera facoltà discrezionale di procedere al confronto tra testimoni, conferendogli, perciò, anche il potere di recedere dal disposto confronto per motivi sopravvenuti di qualsiasi genere (compresa l’opportunità di non ritardare ulteriormente la decisione della causa), senza che l’esercizio di siffatto potere possa formare oggetto di censura in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione (Cfr., sul punto, Cass. n. 14538 del 2009, nonché, Cass. n. 123 del 2020).

Nel caso di specie, propugnando una diversa interpretazione delle risultanze probatorie, parte ricorrente oblitera quanto statuito dal Supremo Collegio in ordine alla apparente deduzione di vizi ex artt. 360 co. 1 nn. 3 e 5 e, cioè, che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr., SU n. 34476 del 2021).

Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 –bis dello stesso articolo 13 (ndr comma 1 –bis dello stesso articolo 13), se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Dichiara il ricorso inammissibile. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali e in euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 –bis dello stesso articolo 13 (ndr comma 1 –bis dello stesso articolo 13), se dovuto.

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