Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 dicembre 2022, n. 38029
Lavoro, Assunzione in prova, Licenziamento, Mancato superamento della prova, Patto di prova apposto al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, Contratto di somministrazione di manodopera a tempo determinato, Rigetto
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 133/2016, il Tribunale di Tivoli, in parziale accoglimento delle domande avanzate dall’attrice M.V., aveva dichiarato illegittimo il licenziamento comminato dalla E.L. s.p.a. alla ricorrente per mancato superamento della prova in data 21.1.2012 e, per l’effetto, ordinava alla predetta società di reintegrare la lavoratrice nelle medesime mansioni o mansioni equivalenti ed aveva condannato al pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento alla effettiva reintegra sulla base della retribuzione globale di fatto indicata nella motivazione della stessa sentenza, oltre interessi dalla maturazione al saldo; aveva rigettato le ulteriori domande verso le società convenute, compensando le spese di lite.
2. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Roma rigettava l’appello che E.L. aveva proposto contro la sentenza di primo grado, e condannava detta società al pagamento, in favore della M., delle spese del secondo grado, come liquidate, mentre compensava le spese nei riguardi di T. s.p.a.; dava atto della ricorrenza delle condizioni per il l’obbligo di versamento del raddoppio del contributo unificato da parte di E..
3. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale, nel respingere l’appello principale di E. (l’appello incidentale condizionato proposto dalla M. non veniva esaminato appunto per il rigetto di quello principale), perveniva alla medesima conclusione del primo giudice, e, cioè, che nella specie la presunzione dell’intervenuto esito positivo della sperimentazione, di cui al patto di prova apposto al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, stipulato tra la M. e la E.L. in data 16.1.2012, si evinceva dal fatto che tale assunzione era nelle medesime mansioni svolte in precedenza, ma in virtù di contratto di lavoro somministrato che vedeva la T. come somministrante, ma sempre la E. quale utilizzatrice la quale aveva avuto la direzione ed il controllo dell’attività svolta dalla lavoratrice. Confermava, inoltre, che il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validità della relativa clausola, non poteva iscriversi nell’eccezionale recesso ad nutum di cui all’art. 2096 c.c., bensì consisteva in un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o di giustificato motivo. Riteneva, ancora, che nel ricorso introduttivo di primo grado era stato allegato il fatto del superamento da parte di E. dei limiti dimensionali e che in corso di causa quest’ultima non aveva dimostrato, né ancor prima allegato, come era suo onere, il fatto impeditivo del non superamento; sicché erano da disattendere anche le doglianze dell’appellante circa la tutela ex art. 18 St. Lav., cui aveva fatto capo il giudice di primo grado.
4. Avverso tale decisione la E. s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
5. Ha resistito l’intimata con controricorso.
6. La T. s.p.a., invece, è rimasta mera intimata.
7. La ricorrente ha prodotto memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso, l’impugnante principale denuncia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e segg. cod. civ. in relazione all’art. 2096 cod. civ. nonché dell’art. 11 del CCNL Commercio ed agli artt. 20 e segg. del D.Igs. n. 276/2003. Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., laddove ha dichiarato la illegittimità del licenziamento per mancato superamento del periodo di prova comminato dalla E.L. s.p.a. alla Signora M. in data 21 gennaio 2012 (art. 360, comma primo n. 3) “.
2. Con il secondo motivo, la stessa denuncia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e segg. del cod. civ., in relazione all’art. 2096 cod. civ. Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., laddove ha dichiarato la illegittimità del licenziamento per mancato superamento del periodo di prova comminato dalla E.L. s.p.a. alla Signora M. in data 21 gennaio 2012 (art. 360, comma primo, n. 3)”.
3. Con il terzo motivo, detta ricorrente denuncia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’onere della prova. Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. (art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ.)”.
4. Con il quarto motivo, denuncia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970, in relazione alla tutela reintegratoria. Violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 in relazione all’art. 2697 del cod. proc. civ. (art. 360, comma primo, nn. 3 cod. proc. civ.)”.
5. Ritiene il Collegio che tali motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, debbano essere disattesi.
6. Le censure, formulate esclusivamente in chiave di violazione di norme di diritto o di contratti collettivi nazionali di lavoro ex art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c., presentano anzitutto abbastanza evidenti profili d’inammissibilità per difetto, oltre che dell’occorrente chiarezza che deve contraddistinguere il ricorso per cassazione, della specificità richiesta dall’art. 366, comma primo, n. 4), c.p.c., sia in termini di aderenza a quanto considerato e deciso dalla Corte territoriale sia in termini di autosufficienza.
7. Più in particolare, nell’ambito del primo motivo, si asserisce che “del tutto illegittimamente, la Corte di appello ha omesso del tutto di considerare la valenza giuridica delle risultanze di fatto poste alla base del licenziamento”, perché non avrebbe “tenuto conto della circostanza – tra l’altro, pacifica tra le parti, poiché neanche contestata dalla Signora M. – che nel periodo compreso tra il 21 novembre 2011 ed il 15 gennaio 2012, l’odierna convenuta ha lavorato alle dipendenze della T. S.p.A. in forza di un contratto di somministrazione di manodopera a tempo determinato, ai sensi e per gli effetti degli artt. 20, 22 e 23 del D.Igs. n. 276/2003.”.
7.1. Orbene, anzitutto, come premesso, la ricorrente non fa leva sul mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c. (che riguarda I’ “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”); né in parte qua il primo motivo potrebbe essere ricondotto a tale ipotesi di ricorso per cassazione, visto che è la stessa impugnante a sostenere che la circostanza asseritamente pretermessa era pacifica tra le parti, e perciò non controversa.
7.2. Vi è, poi, che, secondo quanto già risulta dalla precedente narrativa, la Corte territoriale, al pari del primo giudice, ha ben tenuto conto della peculiarità del caso, consistente appunto nel dato che il contratto di lavoro a tempo indeterminato tra la E. e la M., contenente il patto di prova, era stato preceduto dal contratto di somministrazione di manodopera a tempo determinato, intercorso invece tra la T. e la M., ma che vedeva la E. quale utilizzatrice delle prestazioni lavorative (cfr. pagg. 1-5 dell’impugnata sentenza).
8. A detta della ricorrente, poi, la sentenza impugnata avrebbe “violato la legge in quanto non ha considerato minimamente che, nella specie, occorreva accertare se il patto di prova fosse stato limitato soltanto alla verifica della mera idoneità della ricorrente allo svolgimento della mansione e non avesse, involto, al contrario, la verifica della idoneità della Sig.ra M. alla instaurazione di un rapporto di lavoro organizzato e gestito, anche sotto il profilo della conformità alla disciplina aziendale dall’E.L. S.p.A.”.
8.1. Ora, questa Corte ha anche di recente confermato che la causa del patto di prova va individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono saggiare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, verificando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto (così Cass. civ., sez. lav., 9.3.2020, n. 6633).
8.2. Nota, quindi, il Collegio che sia il giudice di primo grado (cfr. pag. 3 della decisione gravata) che quello d’appello (cfr. pag. 5 della stessa sentenza) avevano ben avuto presente il principio secondo il quale il patto di prova tutela l’interesse di entrambe le parti del rapporto a sperimentarne la convenienza.
Tuttavia le deduzioni della ricorrente sull’accertamento che essa assume non compiuto dai giudici di merito circa aspetti differenti dalle capacità professionali della lavoratrice sono del tutto generiche; non indicandosi tuttora da parte dell’impugnante quando il tema sarebbe stato toccato dalla stessa ed in relazione a quali emergenze istruttorie.
8.3. Parimenti del tutto a-specifici sono i cenni della ricorrente all’art. 11 del CCNL, neppure deducendosi in che chiave tale norma collettiva potrebbe venire in considerazione (non essendo stato, per giunta, precisato se e quando sia stato prodotto il testo dell’intero contratto collettivo nazionale di diritto comune che la contiene); così come sono assolutamente generiche le sue deduzioni circa la dedotta violazione degli artt. 1362 e segg. c.c. in tema d’interpretazione del contratto.
9. Ancora inammissibile è il secondo motivo, con il quale, di là dall’eterogenea congerie di norme che si assumono violate, la ricorrente lamenta che il Giudice del gravame “ha omesso di rilevare che la volontà delle parti espressa nel primo patto di prova era stata quella di limitare l’efficacia di tale patto soltanto con riferimento alla idoneità della Sig.ra M. a svolgere attività lavorativa in somministrazione, in conformità dello specifico contratto di somministrazione stipulato tra quest’ultima e la T. S.p.A.”.
Qui la ricorrente allude alla circostanza che anche in quel contratto intercorso tra la M. e la T. era intervenuto un patto di prova.
9.1. Orbene, la sentenza qui impugnata ha dato conto che l’allora appellante E. aveva, tra l’altro, dedotto che “al contratto di somministrazione era stato apposto un patto di prova” (cfr. pag. 4 della stessa), ma ha poi considerato che: “9) Quanto alla apposizione di un patto di prova anche al rapporto di somministrazione, non viene spiegato né si comprende come la circostanza possa inficiare detta valutazione (n.d.r.: quella sulla presunzione dell’intervenuto esito positivo del secondo patto di prova), tanto più che qui non si nega che la somministrazione sia stata effettiva e legittima” (così a pag. 5).
9.2. Pertanto, da un lato, la ricorrente neppure prende in considerazione tale parte motiva dell’impugnata sentenza, e, dall’altro, non spiega come potrebbe rilevare una volontà delle parti circa il primo patto di prova, la cui legittimità non era in discussione in grado d’appello, in cui erano piuttosto esclusivamente dibattuti il secondo patto di prova e il licenziamento che era stato intimato alla lavoratrice, secondo la datrice E., sul presupposto del mancato superamento solo di tale prova.
Solamente per completezza di disamina, mette conto aggiungere, rispetto a talune considerazioni della ricorrente, che non risulta assolutamente che nella formazione del convincimento della Corte territoriale (come del primo giudice) abbia concorso il dato che la lavoratrice in quel primo rapporto aveva superato positivamente la prova relativa.
9.3. Nello svolgimento, alquanto disomogeneo, del secondo motivo, la ricorrente assume, tra l’altro, “che, contrariamente a quanto apoditticamente ritenuto dal Giudice del gravame, nessuno dei testi escussi nel corso del giudizio di primo grado ha riferito in merito alle mansioni concretamente svolte dalla signora M. nel periodo che va da 21 novembre 2011 al 15 gennaio 2012”.
Ebbene, la Corte d’appello aveva formato il suo convincimento sul punto “che le mansioni espletate dalla M. sono sempre state le medesime dall’1.12.2011 al 28.2.2012 mentre quelle diverse svolte dl 21.11.2011 al 30.11.2011 possono dirsi finalizzate esclusivamente a preparare e facilitare l’esercizio delle prime”, in base, per la verità, non solo alle dichiarazioni rese dai testi ascoltati in prime cure (cfr. § 6 a pag. 4 della sua sentenza).
9.4. In ogni caso, è evidente che l’impugnante qui contrappone una propria valutazione delle risultanze istruttorie (cfr. pagg. 17 e segg. del ricorso) a quella compiuta dai giudici di merito, e loro riservata; il che non può essere preso in considerazione in questa sede di legittimità.
10. Ancora inammissibile è il terzo motivo, con il quale si asserisce che “il Giudice del gravame” avrebbe “completamente omesso di considerare che la Signora M. – nonostante l’onere probatorio sulla stessa incombente e da questa non assolto – non ha minimamente allegato, né tantomeno fornito il benché minimo elemento di prova a sostegno delle proprie apodittiche pretese”.
10.1. Nota, infatti, la Corte che la ricorrente non si confronta assolutamente con la motivazione del giudice di secondo grado, di cui pure ha dato conto nelle parti salienti (alle pagg. 8-10 del ricorso in esame).
Come già evidenziato, nell’esaminare il secondo motivo, la Corte territoriale risulta essersi avvalsa di emergenze fattuali ed istruttorie (consistenti sia in documenti che in prove dichiarative), reputando peraltro pacifiche tra le parti talune circostanze (cfr. di nuovo pag. 4 dell’impugnata sentenza), senza che sia dato riscontrarsi alcuna inversione dell’onere probatorio, incombente sull’attrice circa l’illegittimità dell’unico patto di prova in discussione; un onere probatorio che del tutto apoditticamente la ricorrente assume non assolto dalla stessa.
11. Infondato, infine, è il quarto ed ultimo motivo di ricorso, con il quale l’impugnante deduce che: “contrariamente a quanto erroneamente ritenuto dal Giudice del gravame, dalla declaratoria di illegittimità del recesso durante il periodo di prova non consegue l’applicabilità della legge n. 604/1966 o dell’art. 18 della legge n. 300/1970”.
In tal senso richiama Cass. n. 23231/2010 secondo cui, in tema di assunzione in prova, l’illegittimità del recesso, per l’inadeguata durata della prova o l’esistenza di un motivo illecito, non comporta l’applicazione delle norme di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604 o dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ma la prosecuzione della prova per il periodo mancante oppure il risarcimento del danno, dovendosi escludere che la dichiarazione di illegittimità del recesso durante il periodo di prova determini la stabile costituzione del rapporto di lavoro.
11.1. Sennonché l’orientamento seguito dalla Corte territoriale (cfr. pagg. 5-6 dell’impugnata sentenza) è stato motivatamente ribadito da Cass. civ., sez. lav., 12.9.2016, n. 17921, secondo la quale il licenziamento intimato ad nutum sull’erroneo presupposto della validità del patto di prova è da considerarsi affetto da nullità, risultando di conseguenza applicabile il regime di tutela (reale od obbligatoria) correlato ai requisiti dimensionali dell’azienda cui era addetto il prestatore di lavoro.
12. Inammissibile, infine, prima che infondato, è lo stesso motivo per la parte in cui vi si deduce che la “M. non ha assolto all’onere su di essa gravante, di allegazione – ed eventuale dimostrazione – della sussistenza dei requisiti dimensionali, che nemmeno ha dedotto, necessari per l’emissione dell’ordine di reintegrazione, requisiti dimensionali che si contestano, ad ogni buon fine, per quanto di ragione a prescindere dalla insussistenza di alcuna obbligazione a riguardo”.
12.1. Come già riferito in narrativa, e come peraltro riportato dalla stessa ricorrente, la Corte territoriale aveva ritenuto che: “nel ricorso introduttivo di primo grado era stato allegato il fatto del superamento del requisito dimensionale da parte di E. dei limiti dimensionali ed in corso di causa quest’ultima non ha dimostrato né ancor prima allegato, come era suo onere (vedi Cass. S.U. 10.1.2006, n. 141 e successive conformi), il fatto impeditivo del non superamento”.
12.2. Orbene, la ricorrente anzitutto neppure tiene conto dell’orientamento cui ha fatto capo la Corte d’appello a riguardo.
Invero, anche dopo la sentenza a Sezioni unite n. 141/2006, dalla stessa cit., questa Corte ha costantemente ribadito che, in tema di riparto dell’onere probatorio, ai fini dell’applicazione della tutela reale o obbligatoria del licenziamento di cui sia stata accertata l’invalidità, sono fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento, esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18 St. Lav., costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi che devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. L’assolvimento di un siffatto onere probatorio consente a quest’ultimo di dimostrare, ex art. 1218 c.c., che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio da lui esercitato al risarcimento pecuniario, perseguendo, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa (così, tra le tante, Cass. civ., sez. lav., 19.4.2017, n. 9867).
Il differente indirizzo espresso dalle remote decisioni richiamate dalla ricorrente (a pag. 30 del ricorso) è, dunque, da tempo superato.
12.3. Secondo la Corte distrettuale, poi, da un lato, l’attrice, pur non incombendo su di lei a riguardo il relativo onere probatorio, sin dal ricorso introduttivo aveva dedotto la sussistenza in capo alla convenuta del requisito dimensionale richiesto ai fini della tutela reale del suo posto di lavoro, e, dall’altro, la resistente, onerata della dimostrazione dei relativi fatti impeditivi, nel corso del giudizio non aveva allegato, prima che dimostrato, nulla a riguardo.
L’attuale ricorrente per cassazione neppure deduce di aver dato prova di quei fatti impeditivi, ma continua erroneamente a sostenere, come già aveva fatto in sede d’appello (cfr. pag. 4 dell’impugnata sentenza), che l’onere probatorio a riguardo ricadesse sull’istante.
13. La ricorrente, di nuovo soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore dei difensori della controricorrente, dichiaratisi anticipatari, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.
14. Stante il rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.P.A. come per legge, e distrae in favore degli Avv.ti F.S.I. ed E.I..
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis, dello stesso art. 13, ove dovuto.