Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 dicembre 2022, n. 37322
Lavoro, Licenziamento senza preavviso, Riapertura del procedimento disciplinare all’esito del giudizio penale, Identità del fatto addebitabile, Irrilevanza di elementi nuovi, ulteriori o comunque diversi da quelli esaminati in sede disciplinare, Principio generale del ne bis in idem in tema di pubblico impiego contrattualizzato, Accoglimento
Svolgimento del processo
A.S. ha impugnato davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere il provvedimento del 3 settembre 2018 con il quale l’Agenzia delle Entrate gli aveva comminato il licenziamento senza preavviso in seguito alla riapertura del procedimento disciplinare disposta a seguito della sentenza n. 30443/2018 della Corte di cassazione che aveva dichiarato inammissibile, con conseguente definitività della sentenza gravata, il ricorso proposto dal medesimo S. contro la sentenza della Corte d’appello di Napoli che lo aveva condannato, per il reato di cui agli artt. 110, 81, 56 e 317 c.p., alla pena di anni due e mesi sei di reclusione.
Il lavoratore ha esposto che, siccome il datore di lavoro gli aveva già inflitto la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per tre mesi in seguito alla sentenza del 19 dicembre 2013 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, il relativo potere disciplinare si era ormai consumato e non poteva essere riesercitato, salvo violare il principio del ne bis in idem.
Pertanto, egli ha chiesto l’annullamento del provvedimento di licenziamento e la reintegra nel posto di lavoro.
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, nel contraddittorio delle parti, con ordinanza n. 11661/2019, ha rigettato il ricorso.
A.S. ha proposto opposizione contro la citata ordinanza.
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con sentenza n. 1954/2020, ha respinto l’opposizione.
A.S. ha proposto reclamo che la Corte d’appello di Napoli, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 2394/2021, ha accolto. L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un motivo.
A.S. si è difeso con controricorso.
Motivi della decisione
1. Con un unico motivo l’Agenzia delle Entrate lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 55 ter del d.lgs. n. 165 del 2001, 653 c.p.p., 67, comma 6, lett. b) e lett. e), punto 3, del CCNL del Comparto Agenzie fiscali, quadriennio 2002-2005, sottoscritto il 28 maggio 2004, come rinnovato dal CCNL relativo al quadriennio 2006-2009, sottoscritto il 10 aprile 2008.
Infatti, la corte territoriale avrebbe errato nel non tenere conto che il procedimento disciplinare era stato riaperto ex art. 55 ter d.lgs. n. 165 del 2001 una volta intervenuta la sentenza irrevocabile di condanna del dipendente, con l’irrogazione del provvedimento di licenziamento, trattandosi di fatti che, alla luce della previsione del CCNL di categoria, prevedevano l’adozione di tale sanzione.
In particolare, l’obbligo di riapertura del procedimento disciplinare non sarebbe stato legato, differentemente da quanto opinato dalla Corte d’appello di Napoli, all’insorgenza, nel processo penale, di fatti nuovi ulteriori o, comunque, diversi da quelli esaminati in sede disciplinare, ma solo all’accertamento, ad opera del giudice penale, con sentenza definitiva, che il fatto addebitabile al dipendente determinasse, in sede disciplinare, la sanzione del licenziamento.
La doglianza è fondata.
L’art. 55 ter del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo vigente dal 15 novembre 2009 al 21 giugno 2017, intitolato “Rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale”, dispone che:
“1. Il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. Per le infrazioni di minore gravità, di cui all’articolo 55-bis, comma 1, primo periodo, non è ammessa la sospensione del procedimento. Per le infrazioni di maggiore gravità, di cui all’articolo 55-bis, comma 1, secondo periodo, l’ufficio competente, nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all’esito dell’istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale, salva la possibilità di adottare la sospensione o altri strumenti cautelari nei confronti del dipendente.
2. Se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l’irrogazione di una sanzione e, successivamente, il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso, l’autorità competente, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall’irrevocabilità della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l’atto conclusivo in relazione all’esito del giudizio penale.
3. Se il procedimento disciplinare si conclude con l’archiviazione ed il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l’autorità competente riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all’esito del giudizio penale.
Il procedimento disciplinare è riaperto, altresì, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa.
4. Nei casi di cui ai commi 1, 2 e 3 il procedimento disciplinare è, rispettivamente, ripreso o riaperto entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione di appartenenza del lavoratore ovvero dalla presentazione dell’istanza di riapertura ed è concluso entro centottanta giorni dalla ripresa o dalla riapertura. La ripresa o la riapertura avvengono mediante il rinnovo della contestazione dell’addebito da parte dell’autorità disciplinare competente ed il procedimento prosegue secondo quanto previsto nell’articolo 55-bis. Ai fini delle determinazioni conclusive, l’autorità procedente, nel procedimento disciplinare ripreso o riaperto, applica le disposizioni dell’articolo 653, commi 1 ed 1-bis, del codice di procedura penale”.
L’art. 55 ter citato, introdotto dalla c.d. riforma Brunetta (d.lgs. n. 150 del 2009), prevede, quindi, che il procedimento disciplinare prosegua nonostante la pendenza di procedimento penale sui medesimi fatti, salvo che la P.A. ritenga di disporre la sospensione nei casi di “particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all’esito dell’istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione”. Si è così rovesciato l’assetto risalente al d.P.R. n. 3 del 1957, in cui la pendenza di procedimento penale comportava la sospensione dell’azione disciplinare fino all’esito della decisione giudiziale sul reato. Peraltro, nonostante l’autonomizzazione del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, il legislatore del diritto del lavoro privatizzato ha previsto casi nei quali l’eventuale conclusione del processo penale in senso difforme rispetto alle determinazioni assunte in sede disciplinare è destinata a produrre effetti anche su queste ultime.
Dalla lettura dell’art. 55 ter sopra riportato emerge che la presente fattispecie è regolata dal comma 3, in base al quale:“Se il procedimento disciplinare si conclude con l’archiviazione ed il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l’autorità competente riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all’esito del giudizio penale.
Il procedimento disciplinare è riaperto, altresì, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa”.
Infatti, non è in discussione che il procedimento disciplinare de quo sia stato riaperto dopo la pronuncia di sentenza penale irrevocabile di condanna di A.S. per i fatti contestati né che la condotta dello stesso potesse comportare, in base alla contrattazione collettiva rilevante, la sanzione del licenziamento senza preavviso né che, in luogo di questa, fosse stata inflitta, dopo la condanna in primo grado, la sanzione della sospensione per mesi tre.
Sostiene la corte territoriale che, non essendosi avvalsa la P.A. della facoltà di sospendere il procedimento disciplinare, la riapertura dello stesso sarebbe stata illegittima perché “già risultava dalla sentenza di primo grado che si trattasse di una condotta punibile – per l’accertato carattere delittuoso – con la sanzione espulsiva, di modo che non ricorrevano le condizioni per la riapertura del procedimento disciplinare”.
Infatti, tale riapertura non era riconducibile, per la Corte d’appello di Napoli, “ad alcuna nuova risultanza derivante dalla sentenza di appello in termini di accertamento e qualificazione del fatto ascritto al S. (…): stante l’identità del fatto, non essendo emersi dal giudicato penale elementi nuovi, ulteriori o comunque diversi da quelli esaminati in sede disciplinare (…), la vicenda si sottrae all’applicazione dell’art. 55 ter co. 3 parte seconda e deve essere ricondotta nell’alveo dei principi generali dell’indipendenza del procedimento disciplinare da quello penale e della consumazione del potere disciplinare già esercitato dalla P.A. con l’irrogazione di una sanzione conservativa”.
In pratica, ad avviso del giudice di secondo grado, la citata riapertura sarebbe stata ammissibile esclusivamente qualora fossero emersi dal giudicato penale “elementi nuovi, ulteriori o comunque diversi da quelli esaminati in sede disciplinare”.
Questo assunto non può essere condiviso.
In primo luogo, la tesi della corte territoriale contrasta con la lettera della disposizione, in quanto l’art. 55 ter, comma 3, seconda parte, d.lgs. n. 165 del 2001, non ricollega il potere di riaprire il procedimento disciplinare alla sopravvenienza di “elementi nuovi, ulteriori o comunque diversi da quelli esaminati in sede disciplinare”.
In questo senso depone, altresì, il riferimento, presente nel medesimo art. 55 ter, comma 3, al “fatto addebitabile” al dipendente in sede disciplinare, che risulti dalla successiva sentenza definitiva di condanna sanzionabile con il licenziamento. L’utilizzo del singolare in luogo del plurale palesa che la disposizione in esame presuppone, per la sua applicabilità l’assoluta coincidenza del fatto storico.
Una lettura contraria non è consentita dall’aggettivo “addebitabile”, pure adoperato nell’art. 55 ter, comma 3, citato, atteso che tale aggettivo si riconnette, pur sempre, al medesimo fatto.
Neppure l’interpretazione teleologica del citato articolo suffraga l’impostazione della Corte d’appello di Napoli.
Il suo scopo primario, infatti, è di regolare i rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale una volta che quest’ultimo sia stato aperto, in modo da evitare contrasti fra decisioni concernenti la medesima condotta.
Il presupposto di operatività della disposizione è, quindi, che “il fatto addebitabile” sia lo stesso (come recita l’art. 55 ter, comma 3, seconda parte), risultando allora logicamente irrilevante che, in sede penale, emergano “elementi nuovi, ulteriori o comunque diversi da quelli esaminati in sede disciplinare”.
Ulteriore scopo della norma è, poi, assicurare il corretto esercizio della discrezionalità amministrativa. In effetti, diversamente da un datore di lavoro privato, la P.A. non è del tutto libera nel suo agire, ma deve rispettare il vincolo rappresentato dall’interesse pubblico.
Ne deriva che, in presenza di illeciti che siano espressamente puniti con il licenziamento senza preavviso (nella specie, dalla contrattazione collettiva sopra menzionata), l’Amministrazione non può prescindere da tale circostanza ed infliggere una sanzione che non tenga conto della gravità dell’infrazione, qualora essa abbia pure rilievo formalmente penale.
L’art. 55 ter, comma 3, seconda parte, del d.lgs. n. 165 del 2001, dispone che “Il procedimento disciplinare è riaperto, altresì, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa”.
Presupposto della riapertura è, allora, non unicamente la mera circostanza della pronuncia definitiva di condanna in sede penale, ma anche l’avvenuta irrogazione di una sanzione differente dal licenziamento in un’ipotesi nella quale siffatta sanzione era, al contrario, prevista.
La corte territoriale non ha dato il giusto rilievo all’ultima parte della norma in questione, la quale costituisce chiara attuazione del principio per il quale il datore di lavoro pubblico è tenuto ad avvalersi dei suoi poteri disciplinari applicando una sanzione che sia in tutto e per tutto legale ed a rispettare il principio di eguaglianza, per il quale infrazioni analoghe devono essere sempre punite in maniera analoga.
Siffatta considerazione risponde anche alla conclusione della Corte d’appello di Napoli per la quale, nella specie, dovevano trovare applicazione i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento al rapporto di lavoro privato, per cui l’avvenuta irrogazione al dipendente di una sanzione conservativa per condotte aventi rilevanza penale esclude che, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i medesimi fatti, possa essere intimato il licenziamento disciplinare; non è difatti consentito, per il principio di consunzione del potere disciplinare ed in linea con quanto affermato dalla Corte EDU, nella sentenza 4.3.2014, Grande Stevens ed altri c. Italia, (che ha sancito la portata generale, estesa a tutti i rami del diritto punitivo, del divieto di ne bis in idem), che una identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica (Cass., Sez. L, n. 27657 del 30 ottobre 2018).
Indubbiamente, nel settore privato, si è affermato che il potere disciplinare non può essere reiterato, per il medesimo fatto, una volta già esercitato mediante applicazione di una sanzione (Cass., Sez. L, n. 26815 del 23 ottobre 2018, per la quale il potere disciplinare, azionato in relazione a determinati fatti, complessivamente considerati, non può essere utilizzato, una seconda volta, per quegli stessi fatti singolarmente considerati), e ciò anche se la prima sanzione sia minore a quella poi risultata applicabile sulla base di ulteriori circostanze, benché sopravvenute, con la sola eccezione dell’annullamento della prima sanzione per ragioni procedurali o formali (Cass., Sez. L, n. 20519 del 30 luglio 2019) e purché non siano maturate altre decadenze a carico del datore.
Si è pure osservato che, in linea di principio, il pubblico impiego privatizzato è soggetto alla medesima disciplina di fondo propria del contratto di lavoro, ai sensi dell’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001, il quale stabilisce, nella sua prima parte, che “i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”.
Siffatta disposizione, però, prescrive, altresì, che sono “fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto”.
Infatti, la posizione del datore di lavoro privato e di quello pubblico non è identica.
In primo luogo, il datore di lavoro privato non è tenuto, nell’esercizio del potere disciplinare, a garantire la piena attuazione dell’interesse pubblico negli stessi termini della P.A., tanto da essere libero anche in ordine alla scelta di avvalersi o meno del potere de quo. Diversamente, la pubblica amministrazione, come detto, non è egualmente libera in materia, ma, avvalendosi della sua discrezionalità, deve azionare tale potere in presenza dei presupposti positivizzati, in quanto il citato interesse pubblico impone sia di colpire le infrazioni dei funzionari applicando la sanzione prevista sia di punire sempre violazioni analoghe in modo analogo, considerato che non è ammissibile che l’irrogazione delle sanzioni a questo piuttosto che a quel dipendente dipenda dall’arbitrio dell’amministrazione interessata.
Per l’esattezza, l’art. 55 ter, comma 3, seconda parte, del d.lgs. n. 165 del 2001 è, in quest’ottica, disposizione eccezionale, che introduce un sistema alternativo rispetto a quello privatistico perfettamente giustificato alla luce della particolare finalizzazione dell’azione pubblica e consentito in presenza di situazioni oggetto di specifica previsione normativa (nella specie, la riapertura presuppone una sentenza irrevocabile di condanna dalla quale risulti che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporti la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa).
D’altronde, la stessa S.C. ha chiarito che, in tema di pubblico impiego contrattualizzato, il principio generale del ne bis in idem è derogato dall’art. 55 ter del d.lgs. n. 165 del 2001 per i casi ivi espressamente previsti al fine di adeguare, in ragione delle peculiari esigenze pubblicistiche, l’esito disciplinare, in melius o in peius, alla statuizione penale (Cass., Sez. L, n. 25901 del 23 settembre 2021).
Inoltre, per meglio comprendere l’eccezionalità del regime appena descritto, occorre tenere conto che le decisioni della Corte di cassazione concernenti l’esercizio del potere disciplinare con riguardo ai rapporti di lavoro privato citate dalla corte territoriale sono fondate, principalmente, sull’assunto che il principio di consunzione del potere disciplinare vieta che una identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica (Cass., Sez. L, n. 27657 del 30 ottobre 2018).
Ad essere preclusa è, dunque, la riedizione del potere disciplinare.
Al contrario, nel settore del pubblico impiego privatizzato, vige il diverso principio alla base della sentenza della Sez. L, n. 29376 del 14 novembre 2018, così massimato: “Nel pubblico impiego privatizzato, l’art. 55 ter, commi 1, 2, e 4 del d.lgs. n. 165 del 2001, nel regolare i possibili conflitti tra esito del procedimento penale concluso con sentenza irrevocabile di assoluzione e quello del procedimento disciplinare concluso con l’irrogazione di una sanzione, prevede un procedimento unitario, articolato in due fasi, in cui il previsto rinnovo della contestazione dell’addebito deve essere effettuato pur sempre in ragione dei medesimi fatti storici già oggetto della prima contestazione disciplinare, in relazione ai quali, in tutto o in parte, è intervenuta sentenza irrevocabile di assoluzione. La determinazione di conferma o modifica della sanzione già irrogata ha effetto ex tunc e l’accertamento in sede giurisdizionale dell’illegittimità non può che operare ex tunc”.
In pratica, nel pubblico impiego privatizzato la sanzione inflitta, eventualmente, per prima dalla P.A., che non si avvalga del potere di sospendere il procedimento disciplinare, non esaurisce il correlato potere perché non conclude il procedimento. La sanzione che viene irrogata dopo la sentenza penale passata in giudicato, in base agli identici fatti storici, è, invece, quella finale, che porta a termine detto procedimento.
Il procedimento disciplinare, quindi, finisce successivamente all’esito di quello penale e resta unitario dall’inizio; la sanzione inflitta in principio dalla P.A. rientra nella fase iniziale di un procedimento unitario articolato in due fasi, la seconda delle quali, per conseguire un adeguato raccordo tra disciplinare e penale, presuppone il rinnovo della contestazione dell’addebito, che deve avvenire in ragione dei medesimi fatti storici alla base di quella originaria, in relazione ai quali è, in tutto o in parte, intervenuta sentenza penale irrevocabile.
Non vi è, allora, una riedizione del potere disciplinare.
D’altronde, ben può sussistere un interesse della P.A. a sanzionare da subito una condotta illecita del suo dipendente prima che il giudice penale si pronunci definitivamente. In questa evenienza, l’amministrazione non sospenderà il procedimento disciplinare, ma irrogherà una sanzione che avrà natura provvisoria e, all’esito del processo penale, potrà venire meno, a seconda che il quadro accusatorio sia o non sia confermato.
Infatti, la sanzione inflitta per ultima prenderà definitivamente il posto della prima, operando la sostituzione retroattivamente, in modo da evitare che due sanzioni differenti per gli stessi fatti si aggiungano l’una all’altra.
Questa regolamentazione garantisce anche la posizione del dipendente che, in presenza di fattispecie caratterizzate da particolare gravità, può vedere la decisione finale sulla sua situazione disciplinare resa conforme alle risultanze dell’accertamento penale.
La corte territoriale sembra giustificare la sua decisione facendo riferimento alla sentenza Grande Stevens ed altri contro Italia, Corte EDU, Sez. 2, sentenza 4 marzo 2014, la quale avrebbe “affermato la portata generale, estesa a tutti i rami del diritto, del principio del divieto di ne bis in idem”.
In quest’ottica, come sostanzialmente prospettato dal controricorrente, il lavoratore, seppure condannato in sede penale con sentenza passata in giudicato, potrebbe utilmente invocare l’art. 4 del protocollo 7 della CEDU per sottrarsi al procedimento disciplinare che il datore di lavoro abbia, per ipotesi, avviato in relazione ai fatti contestati in sede penale.
Queste considerazioni devono essere approfondite.
La decisione del caso Grande Stevens si colloca nell’ambito di una evoluzione giurisprudenziale, concernente il principio del ne bis in idem, iniziata dalla Corte EDU con l’ampliamento del concetto di materia penale, avvenuto con la sentenza della Grande Camera dell’8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi.
In questa sentenza, la Corte di Strasburgo stabilisce tre criteri, attraverso i quali è possibile determinare quali misure abbiano natura sostanzialmente penale, facendo discendere in capo alle parti le garanzie connesse.
Tali criteri, che nella causa Engel vengono riferiti all’ambito del diritto militare, sono resi criteri generali e consolidati dalla giurisprudenza della stessa Corte nella sentenza Öztürk contro Germania del 21 febbraio 1984.
Essi sono:
1) la qualificazione giuridica interna, secondo la quale “occorre anzitutto sapere se le previsioni che definiscono l’illecito in questione appartengono, secondo il sistema legale dello Stato resistente, alla sfera del diritto penale, disciplinare o entrambi assieme”;
2) la natura dell’illecito e la funzione del conseguente provvedimento previsto, che deve essere applicabile in modo generale e avere scopo preventivo e repressivo;
3) in ultimo, la gravità della sanzione, che non deve necessariamente essere privativa della libertà personale, come confermato in successive sentenze (Corte EDU, A e B contro Norvegia, Grande Camera, 15 novembre 2016; Corte EDU, I sez., 18 maggio 2017, Jóhannesson e a. c. Islanda).
La qualificazione sostanziale come pena, nel senso della nozione elaborata dalla Corte di Strasburgo, di una misura prevista dall’ordinamento interno che incida negativamente nella sfera del destinatario, comporta, come detto, che siano applicabili ad essa le garanzie previste dalla CEDU, quali, in particolare:
– il diritto al giusto processo in materia civile e penale (art. 6); il principio nulla poena sine lege (art. 7);
– il divieto del bis in idem (art. 4, paragrafo 1, del Protocollo n. 7).
Infatti, nella sentenza Zolotoukhin contro Russia, del 10 febbraio 2009, la Grande Camera della Corte EDU riconosce l’applicazione dei criteri Engel anche all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che il ricorrente assumeva violato.
L’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, intitolato “Ne bis in idem”, dispone che:
“1. Nessuno potrà essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla procedura penale di tale Stato.
2. Le disposizioni di cui al paragrafo precedente non impediranno la riapertura del processo, conformemente alla legge ed alla procedura penale dello Stato interessato, se dei fatti nuovi o degli elementi nuovi o un vizio fondamentale nella procedura antecedente avrebbero potuto condizionare l’esito del caso.
3. Nessuna deroga a questo articolo può essere autorizzata ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione”.
Per valutare la portata del citato art. 4, Protocollo 7, nella specie, occorre tenere conto che il procedimento disciplinare ha una sua indipendenza e autonomia rispetto ad ulteriori ed eventuali procedimenti sanzionatori che possono scaturire dal medesimo comportamento censurato.
La giurisprudenza di legittimità ha confermato ciò (Cass., SU, N. 24896 del 6 novembre 2020, non massimata sul punto), affermando che la sanzione disciplinare e quella penale hanno finalità, intensità ed ambiti di applicazione diversi, sicché non è coerente con il sistema pervenire ad una loro identificazione (Cass., SU, n. 4953 del 12 marzo 2015, non massimata sul punto).
Infatti, l’azione disciplinare è promossa indipendentemente dall’azione penale relativa allo stesso fatto, e ben può il procedimento disciplinare proseguire anche dopo il giudicato penale di condanna con pena accessoria, atteso che la diversità di natura delle sanzioni è confermata (pure) dalla circostanza che la pena accessoria può (come le altre sanzioni penali) estinguersi nel corso del tempo per amnistia (art. 151, comma 1, c.p.) o per effetto della riabilitazione (art. 178 c.p.), laddove la permanenza degli effetti della sanzione disciplinare ne evidenzia, con particolare rilievo in relazione alla più severa di esse, la specifica afflittività (Cass., SU, n. 29878 del 20 novembre 2018, non massimata; Cass., SU, n. 4004 del 9 febbraio 2016).
In pratica, il principio del ne bis in idem non può giustificare una integrale sovrapposizione fra sistemi sanzionatori tra loro indipendenti e accomunati esclusivamente dal medesimo fatto storico.
La giurisprudenza di legittimità da ultima citata chiarisce un aspetto fondamentale del procedimento disciplinare, concernente l’autonomia della funzione disciplinare in rapporto al giudizio penale, che sono caratterizzati da una stretta connessione e consequenzialità logica in quanto hanno ad oggetto la cognizione su identici fatti.
Non bisogna dimenticare che alcuni comportamenti possono avere una plurima valenza patologica, con la conseguenza che lo stesso fatto storico può assumere rilevanza tanto ai fini della responsabilità penale che della responsabilità disciplinare.
La coesistenza di differenti ambiti di responsabilità, ciascuno caratterizzato da proprie peculiarità in ragione degli specifici interessi perseguiti, pone a confronto esigenze diverse.
Da un lato, quella che il medesimo fatto non venga ricostruito in maniera difforme dai vari procedimenti di accertamento azionati; dall’altro, quella di garantire che i singoli procedimenti di accertamento della responsabilità possano godere di un’adeguata autonomia e indipendenza, posto che, sebbene abbiano in comune il medesimo fatto storico, hanno, però, distinto il fine e i diritti lesi dal comportamento censurato.
La sanzione disciplinare e quella penale hanno finalità, intensità ed ambiti di applicazione diversi, sicché non possono essere identificate; i rispettivi sistemi – disciplinare e penale – sono fra loro autonomi, ma questa distinzione si riduce ove sia necessario assicurare una coerenza di giudicati, come chiarito proprio dall’art. 55 ter, d.lgs. n. 165 del 2001.
Il raccordo in questione è garantito facendolo dipendere dall’accertamento penalistico.
Il principio del ne bis in idem, quindi, è inapplicabile se riferito contestualmente ai due sistemi, atteso che sanzione penale e sanzione disciplinare, seppure concernenti identici fatti, non possono essere poste araffronto per valutare la sussistenza di un bis in idem, dovendosi decisamente escludere che la sanzione disciplinare abbia natura di sanzione penale.
Pertanto, anche considerazioni di natura sistematica spingono a non condividere l’interpretazione dell’art. 55 ter, comma 3, seconda parte, del d.lgs. n. 165 del 2001, fatta propria dalla corte territoriale.
D’altronde, la stessa Grande Camera della Corte EDU, fin dal caso Öztürk c. Germania, del 21 febbraio 1984, ha ritenuto di per sé non in contrasto con il diritto convenzionale che uno stesso fatto fosse preso in considerazione, ai fini sanzionatori, in ambito sia disciplinare sia penale.
La Corte EDU ha affermato, infatti, che, in linea di principio, la responsabilità disciplinare non può essere assimilata a quella penale (tanto da escludere la natura penale della sanzione del collocamento a riposo: Corte EDU, Sez. 3, Moullet c. Francia, 13 settembre 2007, ove si precisa che anche se “la pensione obbligatoria è la più dura misura sulla scala delle sanzioni disciplinari, è una sanzione caratteristica di un illecito disciplinare e non può essere confusa con una sanzione penale”).
Più esattamente, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha già precisato che la Grande Camera della Corte EDU (sentenza Öztürk c. Germania, del 21 febbraio 1984, § 53; sentenza Sergey Zolotukhin c. Russia, del 10 febbraio 2009, § 55), ai fini dell’attribuzione della natura sostanzialmente penale ad una sanzione formalmente non penale, ha evidenziato, quale elemento atto ad incidere negativamente sulla configurabilità del terzo dei criteri Engel (gravità delle conseguenze in cui l’incolpato può incorrere in conseguenza della commissione dello “stesso fatto” costituente oggetto di due distinti procedimenti), che la sanzione “sostanzialmente penale” si caratterizza per la circostanza di essere diretta alla generalità dei consociati (towards all citizens rather than towards a group possessing a special status; la prima delle sentenze citate afferma, inoltre, in the manner, for example, of disciplinary law).
In tal modo, risulta da escludere la possibilità di attribuire natura sostanzialmente penale alle sanzioni disciplinari, in quanto esse sono valide ed efficaci soltanto all’interno di una ristretta cerchia di consociati, e fino a che il soggetto sanzionato ne faccia parte (Cass. pen., Sez. 2, n. 43435 del 20 giugno 2017, depositata il 21 settembre 2017).
Coerentemente, in materia di pubblico impiego privatizzato, la S.C. (Cass., Sez. L, n. 25485 del 26 ottobre 2017) ha precisato che, sulla base dei criteri indicati dalla Corte EDU, richiamati nelle pronunce della Corte Costituzionale (Corte cost., n. 276 del 16 dicembre 2016; Corte cost., n. 43 del 24 febbraio 2017), deve negarsi la natura penale delle sanzioni disciplinari, in quanto il potere disciplinare non è espressione della pretesa punitiva dell’autorità pubblica, ma del potere direttivo del datore di lavoro, inteso come potere di conformazione della prestazione alle esigenze organizzative dell’impresa o dell’ente che, nei rapporti disciplinati dal d.lgs. n. 165 del 2001, ha natura privatistico-contrattuale. Ne consegue che il lavoratore, condannato in sede penale con sentenza passata in giudicato, non può invocare l’art. 4 del protocollo 7 della CEDU per sottrarsi al procedimento disciplinare, che il datore di lavoro abbia avviato per i fatti contestati in sede penale.
La previsione della sanzione disciplinare non è posta, dunque, a presidio di interessi primari della collettività, tutelabili erga omnes, né assolve alla funzione preventiva propria della pena, sicché l’interesse che attraverso la sanzione disciplinare si persegue, anche qualora i fatti commessi integrino illecito penale, è sempre quello del datore di lavoro al corretto adempimento delle obbligazioni che scaturiscono dal rapporto.
Alle medesime conclusioni è pervenuta questa S.C. altresì in relazione alla natura delle sanzioni disciplinari inflitte dagli ordini professionali. Così Cass., Sez. 2, n. 2927 del 3 febbraio 2017, ha chiarito che, in tema di giudizio disciplinare nei confronti dei professionisti (nella specie, notai), in caso di sanzione penale per i medesimi fatti, non può ipotizzarsi la violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in relazione al principio del ne bis in idem, – secondo le statuizioni della sentenza della Corte EDU del 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri c/o Italia – in quanto la sanzione disciplinare ha come destinatari gli appartenenti ad un ordine professionale ed è preordinata all’effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti loro assegnati, sicché ad essa non può attribuirsi natura sostanzialmente penale (considerazioni simili si rinvengono in Cass., Sez. 2, n. 9041 del 5 maggio 2016).
In maniera più approfondita, in ambito CEDU, nella controversia A e B contro Norvegia, 15 novembre 2016 (quindi, dopo la decisione Grande Stevens del 2014), la Grande Camera della Corte EDU ha precisato che l’art. 4 prot. 7 CEDU non esclude che lo Stato possa legittimamente apprestare un sistema di risposte a condotte socialmente offensive che si articoli – nel quadro di un approccio unitario e coerente – attraverso procedimenti distinti, purché le risposte sanzionatorie così accumulate non comportino un sacrificio eccessivo per l’interessato (§ 121).
Occorre verificare, però, se la strategia adottata dal singolo Stato non comporti, nella sostanza, una violazione del divieto di ne bis in idem ovvero sia il prodotto di un sistema integrato che permette di affrontare i diversi aspetti dell’illecito in maniera prevedibile e proporzionata, nel quadro di una strategia unitaria (§ 122).
Al fine di bilanciare gli interessi dell’individuo e quelli della comunità e di ottenere una sanzione equa che tenga conto del rilievo della medesima condotta per più sistemi fra loro distinti (qui disciplinare e penale), la Corte EDU ha ritenuto di valorizzare il criterio della sufficiently close connection in substance and time.
In pratica, bisogna accertare che fra i due procedimenti sussista una connessione sufficiente che renda i due procedimenti aspetti di un’unica risposta integrata dell’ordinamento contro il medesimo fatto illecito.
Questa connessione è di certo garantita dall’esistenza di un meccanismo che unifichi, in qualche stadio della procedura, i due procedimenti sanzionatori, in modo da rendere possibile l’irrogazione delle differenti sanzioni da parte di un’unica autorità e nell’ambito di un solo processo.
Peraltro, la sentenza spiega che la disposizione convenzionale non esclude lo svolgimento parallelo di due procedimenti, purché essi siano connessi dal punto di vista sostanziale e cronologico in maniera sufficientemente stretta e vi siano meccanismi in grado di assicurare risposte sanzionatorie nel loro complesso proporzionate e, comunque, prevedibili (§ 130).
La valutazione circa la sussistenza di siffatti requisiti deve, per la Corte EDU, tenere conto dei seguenti fattori:
– se i procedimenti previsti per la violazione abbiano scopi differenti, e abbiano ad oggetto – non solo in astratto, ma anche in concreto – profili diversi della medesima condotta antisociale;
– se la duplicità dei procedimenti sia una conseguenza prevedibile della condotta;
– se i due procedimenti siano condotti in modo da evitare per quanto possibile ogni duplicazione nella raccolta e nella valutazione della prova, in particolare attraverso un’adeguata interazione tra le varie autorità competenti tale da far sì che l’accertamento dei fatti in un procedimento sia utilizzato altresì nell’altro procedimento;
– e, infine, se la sanzione imposta nel procedimento che si concluda per primo sia tenuta in considerazione nell’altro procedimento, in modo che venga in ogni caso rispettata l’esigenza di una proporzionalità complessiva della pena (§ 133).
La Corte EDU insiste, poi, sulla necessità che tra i due procedimenti vi sia anche un collegamento di natura cronologica, benché essi non debbano essere condotti in maniera necessariamente e strettamente parallela, dovendosi escludere che la possibilità di un secondo procedimento sanzionatorio esponga l’interessato a una perdurante situazione di incertezza sulla propria sorte.
Questa impostazione è stata confermata anche da successive pronunce dei giudici di Strasburgo, come Corte EDU, I sez., 18 maggio 2017, Jóhannesson e a. c. Islanda, nonché Corte EDU, Grande Camera, 8 luglio 2019, Mihalache c. Romania.
Il procedimento disciplinare che ha condotto al licenziamento del controricorrente rispetta i parametri indicati dalla decisione A e B contro Norvegia, 15 novembre 2016, Grande Camera, e dalle sentenze successive.
La stretta connessione sostanziale e temporale è evidente.
Infatti, i due procedimenti in esame hanno scopi differenti e hanno ad oggetto profili diversi della medesima condotta antisociale: da un lato, vi è la necessità di punire i crimini, dall’altro, quella di impedire che gli autori di tali crimini continuino a lavorare per la P.A.
Inoltre, la duplicità dei procedimenti è una conseguenza prevedibile della condotta, in quanto è prevista dalla legge e dalla contrattazione collettiva e perché non può ipotizzarsi che l’Amministrazione non intervenga sul rapporto di lavoro in presenza di illeciti penali che lo interessino in via diretta od indiretta.
I due procedimenti sono condotti, altresì, in modo da evitare, per quanto possibile, ogni duplicazione nella raccolta e nella valutazione della prova, atteso che la legge impone in sede disciplinare di tenere conto dell’accertamento penale.
La sanzione imposta nel procedimento penale è presa in considerazione in sede disciplinare proprio tramite la riapertura di quest’ultimo, che consente di correggere le sanzioni illegali e garantire la proporzionalità complessiva della risposta punitiva, alla luce pure della contrattazione collettiva.
D’altronde, l’importanza della menzionata proporzionalità in ambito disciplinare è confermata dal principio, espresso dalla giurisprudenza di legittimità, per il quale, in tema di licenziamento per giusta causa, anche in materia di pubblico impiego contrattualizzato, è da escludere qualunque sorta di automatismo a seguito dell’accertamento dell’illecito disciplinare, sussistendo l’obbligo per il giudice di valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, e, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta (Cass., Sez. L, n. 18858 del 26 settembre 2016).
Il legame temporale è garantito, poi, dalla stessa struttura del procedimento disciplinare, il quale, pur essendo unitario, è articolato in due fasi, con la prima che precede il giudicato penale e la seconda che segue ad esso.
Dalla ricostruzione appena effettuata, si ricava che il principio del ne bis in idem non viene intaccato nella specie.
Innanzitutto, si osserva che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità citata e da quella della Corte EDU (sentenza Öztürk contro Germania, del 21 febbraio 1984, § 53; sentenza Sergey Zolotukhin contro Russia, del 10 febbraio 2009, § 55; ma in quest’ottica va letta pure la sentenza A e B contro Norvegia, 15 novembre 2016, § 133), le sanzioni disciplinari non hanno fondamentalmente natura penale, in quanto non si riferiscono alla generalità dei consociati (si tratta di un assunto costante nella giurisprudenza di Strasburgo, come si ricava pure dalla decisione della Grande Camera del 23 novembre 2006, Jussila contro Finlandia, § 38, che fonda la natura penale di una sanzione tributaria proprio sulla circostanza che concerne la generalità dei contribuenti).
Ne consegue che il principio del ne bis in idem ben può atteggiarsi diversamente, a seconda che venga in rilievo la materia penale o il settore disciplinare, e che, in quest’ultimo ambito, i principi enunciati in Grande Stevens ed altri contro Italia, Corte EDU, Sez. 2, sentenza 4 marzo 2014, non possono trovare automatica applicazione.
Inoltre, nel procedimento disciplinare regolato dall’art. 55 ter, comma 3, seconda parte, del d.lgs. n. 165 del 2001, non può neppure porsi un problema di violazione del ne bis in idem, atteso che detto procedimento è unitario, pur se bifasico, con l’effetto pratico che ad essere esercitato è sempre lo stesso potere un’unica volta: alla fine o resta confermata la prima sanzione, che diviene quella definitiva, oppure viene adottata la seconda sanzione, che rimuove ab initio la precedente e resta l’unica a regolare la situazione.
La stessa sentenza della Corte d’appello di Napoli, d’altronde, dà atto che il primo provvedimento disciplinare conteneva una riserva con riguardo all’adeguatezza “al momento” della sanzione conservativa, il che evidenzia come l’esito del procedimento disciplinare fosse stato dall’inizio dichiaratamente subordinato a quello del procedimento penale.
L’Agenzia delle Entrate aveva correttamente interpretato l’art. 55 ter, comma 3, seconda parte, d.lgs. n. 165 del 2001, in quanto aveva da subito valorizzato la composizione bifasica dell’unitario procedimento disciplinare, infliggendo la prima sanzione, conservativa, in via provvisoria ed alla luce delle circostanze all’epoca note, ma palesando, nella sostanza, come detta sanzione fosse stata adottata pur nella consapevolezza che il processo penale non era ancora concluso.
Il giudice di secondo grado, invece, ha errato nell’affermare che la P.A. aveva compiuto, all’esito del primo procedimento disciplinare, una valutazione “dichiaratamente autonoma ed accuratamente motivata della condotta del dipendente”, nonché “dei contenuti del giudizio penale, facendo riferimento alla richiesta di assoluzione formulata dalla Procura”, visto che il provvedimento disciplinare conteneva un’espressa riserva e teneva conto che era stata emessa esclusivamente la sentenza di primo grado.
Pertanto, la corte territoriale non ha tenuto in debito conto la necessità che i due procedimenti fossero coordinati, come imposto, invece, dalla legislazione nazionale e dalla giurisprudenza sovranazionale, atteso che ha ritenuto sufficiente che l’accertamento penale del delitto di concussione e la sua ascrivibilità al dipendente fossero intervenuti in primo grado e che la P.A. avesse richiamato le sole conclusioni della Procura.
Il motivo, quindi, deve essere accolto, dovendosi affermare il seguente principio di diritto:
“La riapertura del procedimento disciplinare ex art. 55 ter, comma 3, seconda parte, del d.lgs. n. 165 del 2001, deve avvenire se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa, non essendo necessario che da detta sentenza emergano anche elementi nuovi, ulteriori o, comunque, diversi rispetto a quelli esaminati in sede disciplinare”.
2. Il ricorso è accolto.
La sentenza impugnata è cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa è decisa nel merito ex art. 384, comma 2, c.p.c., con il rigetto del ricorso originario di A.S..
Le spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità sono compensate, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., alla luce della novità della questione.
Non sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, dell’obbligo per parte ricorrente di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
– accoglie il ricorso;
– cassa la decisione impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originario ricorso di A.S.;
– compensa le spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità.