Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 gennaio 2023, n. 179

Lavoro, Contratti a tempo determinato con la qualifica di collaboratore scolastico, Termine,  Reiterazione abusiva di contratti a termine, Stabilizzazione, Rigetto 

 

Svolgimento del processo

 

M.G.B., con ricorso proposto innanzi al Tribunale di Viterbo, premesso di avere stipulato plurimi contratti a tempo determinato con la qualifica di collaboratore scolastico per il periodo dal 2001 al 2007, ha chiesto l’accertamento dell’illegittimità dei termini apposti ai detti contratti e, per l’effetto, la dichiarazione di sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le parti e del diritto a transitare nei ruoli del personale docente del MIUR, con conseguente diritto al risarcimento del danno.

Il Tribunale di Viterbo, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 546/2012, ha rigettato il ricorso.

M.G.B. ha proposto appello.

La Corte d’appello di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 2381/2017, ha accolto l’appello, dichiarando l’illegittimità della reiterazione della stipulazione dei contratti a termine, con condanna del MIUR a risarcire il danno.

Il MIUR ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un motivo.

M.G.B. non ha svolto difese.

 

Motivi della decisione

 

1) Con un unico motivo il MIUR lamenta la violazione e falsa applicazione della direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999, della clausola 5 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES allegato, dell’art. 4 della legge n. 124 del 1999 e dell’art. 2697 c.c. perché la corte territoriale non aveva verificato che la resistente era stata immessa in ruolo fin dal 1° settembre 2007 e aveva posto a carico della stessa P.A. l’onere di dimostrare siffatta stabilizzazione.

Il motivo è infondato.

La doglianza concernente la questione della stabilizzazione di M.G.B. non può assumere rilievo in questa sede, trattandosi di circostanza di fatto che, come attestato dalla Corte d’appello di Roma al punto 6 della sentenza impugnata, non è stata dedotta nei precedenti gradi di merito dall’Amministrazione ricorrente (Cass., Sez. L, n. 21355 del 6 luglio 2022; Cass., Sez. 6-L, n. 38205 del 3 dicembre 2021).

È ormai consolidato nella giurisprudenza di questa S.C. l’orientamento, formatosi a partire da Cass., Sez. L, n. 22552 del 7 novembre 2016, secondo cui, nell’ipotesi di reiterazione abusiva di contratti a termine stipulati ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge n. 124 del 1999, la stabilizzazione ottenuta ex legge n. 107 del 2015 ed anche l’immissione in ruolo avvenuta secondo il sistema del cosiddetto “doppio canale” costituiscono «misura proporzionata, effettiva, sufficientemente energica ed idonea a sanzionare debitamente l’abuso ed a “cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione”» e rendono non invocabile da parte del soggetto che ha subito l’abuso il principio affermato da Cass., SU, n. 5072 del 15 marzo 2016 in tema di “danno comunitario”, con la conseguenza che torna ad espandersi la regola, immanente nel nostro ordinamento, in forza della quale il danno deve essere allegato e provato dal soggetto che assume di averlo subito.

La stabilizzazione, quindi, opera come fatto modificativo del diritto al risarcimento del danno da illegittima reiterazione del contratto a termine ed impedisce, al soggetto che agisce, di rivendicare il “danno comunitario” nei termini indicati dal richiamato arresto delle Sezioni Unite, resosi necessario al fine di assicurare la doverosa conformazione del diritto nazionale ai principi dell’ordinamento eurounitario.

Ne discende che l’onere di allegare e provare l’intervenuta stabilizzazione, ossia l’operare di una misura che soddisfi i requisiti richiesti dalla clausola 5 dell’Accordo Quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, grava sul datore di lavoro che abbia commesso l’abuso perché si è in presenza di un’eccezione in senso lato, non di una mera difesa (Cass., Sez. L, n. 24286 del 4 agosto 2022, non massimata; Cass., Sez. L, n. 21355 del 6 luglio 2022, non massimata sul punto).

Sulla base della regola residuale fissata dall’art. 2697, comma 2, c.c. le conseguenze della mancata allegazione del fatto estintivo, modificativo o impeditivo ricadono sulla parte onerata, ove quel fatto non risulti dagli atti.

Ulteriore corollario della ritenuta natura di eccezione in senso lato è che alla stessa si applicano le relative regole di rito e che, pertanto, opera il principio secondo cui l’eccezione stessa può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice, in qualsiasi stato e grado del processo, purché sulla base delle allegazioni e di prove ritualmente acquisite o acquisibili al processo e, quindi, nelle controversie soggette al rito del lavoro, anche all’esito dell’esercizio dei poteri istruttori ex art. 421, comma 2, c.p.c., legittimamente esercitabili dal giudice, tenuto all’accertamento della verità dei fatti rilevanti ai fini della decisione (fra le tante, sul rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato, Cass., Sez. L, n. 22371 del 5 agosto 2021).

L’eccezione in senso lato è deducibile anche nel giudizio di cassazione, ma a condizione che la stessa non implichi nuovi accertamenti di fatto, perché è ius receptum il principio secondo cui “ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa” (Cass., Sez. 2, n. 2038 del 24 gennaio 2019).

Solo nell’ipotesi di ius superveniens (ivi comprese le sentenze di accoglimento della Corte costituzionale) il giudice di legittimità è tenuto a dare immediata attuazione, anche d’ufficio, alla nuova regolamentazione della materia e, ove questa richieda accertamenti su elementi di fatto non desumibili dagli atti, a cassare la sentenza impugnata, rimettendo al giudice del merito il relativo compito (Cass., Sez. 5, n. 34209 del 20 dicembre 2019).

Ciò è accaduto, in relazione alle controversie in tema di precariato scolastico, per i giudizi già pendenti in cassazione al momento della pronuncia della Corte costituzionale n. 187 del 2016, successiva al rinvio pregiudiziale definito dalla Corte UE con la sentenza del 26 novembre 2014, nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo ed altri. In quel caso, infatti, come già evidenziato in motivazione da Cass., Sez. L, n. 10538 del 3 giugno 2020, occorreva tenere conto dello ius superveniens e, in particolare, della pronuncia di incostituzionalità nella sua interezza (punto 59 della sentenza Cass., Sez. L, n. 22552 del 7 novembre 2016) e, quindi, anche di quanto osservato dal Giudice delle leggi in merito alla cancellazione dell’illecito.

La Corte, pertanto, anche al fine di garantire la durata ragionevole del processo, ha esercitato il potere di cui all’art. 384, comma 2, c.p.c., nei casi in cui gli elementi di fatto rilevanti ai fini della decisione, seppure acquisiti in pendenza del giudizio di legittimità, risultavano incontestati fra le parti, mentre in difetto ha rimesso l’accertamento al giudice del merito (cfr. Cass., Sez. L, n. 24038 del 24 novembre 2016), dando continuità all’orientamento sopra richiamato.

A quelle fattispecie non è, invece, assimilabile quella che qui viene in rilievo perché la sentenza impugnata è stata pronunciata dalla corte distrettuale il 3 maggio 2017 ed al momento della dichiarazione di incostituzionalità nonché del successivo intervento nomofilattico di questa S.C. il processo era pendente in grado di appello e, pertanto, era in quella sede che il MIUR avrebbe dovuto allegare e provare il fatto impeditivo, modificativo o estintivo del diritto al risarcimento del danno.

Il ricorso per cassazione, tutto incentrato sull’avvenuta stabilizzazione risalente al 1° settembre 2007, prospetta, quindi, una questione giuridica, implicante accertamento di fatto, non dedotta tempestivamente nel giudizio di merito.

Non giova al MIUR invocare quanto statuito da Cass., Sez. L, n. 8949 del 6 aprile 2017 perché anche in quel caso si trattava di un giudizio di legittimità pendente sin dal 2012 e l’immissione in ruolo era stata tempestivamente dedotta una volta intervenuto lo ius superveniens.

2) Il ricorso è respinto.

Nessuna pronuncia deve essere emessa in ordine alle spese di lite, non avendo svolto l’intimata attività difensiva.

Non sussistono le condizioni richieste dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dalla legge n. 228 del 2012, per dichiarare l’obbligo di parte ricorrente di corrispondere un importo pari a quello del contributo unificato versato, se dovuto, atteso che il MIUR è un’amministrazione statale non tenuta al pagamento di tale contributo, operando il meccanismo della prenotazione a debito (Cass., SU, n. 9938 dell’8 maggio 2014).

 

P.Q.M.

 

– rigetta il ricorso.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 gennaio 2023, n. 179
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