Se il datore di lavoro non prova la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo posto a fondamento del recesso, la conseguente ingiustificatezza del licenziamento rientra tra gli indici della ritorsione.
Nota a Cass. 29 settembre 2022, n. 28399
Francesco Belmonte
L’allegazione del lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare l’esistenza della causale giustificativa del recesso. Solo in tal caso può dirsi legittimo il licenziamento ed esclusa la rilevanza del motivo ritorsivo.
In tale linea si è pronunciata la Corte di Cassazione (29 settembre 2022, n. 28399) in merito al licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato da una Onlus, che gestiva in appalto il servizio di trasporto d’emergenza 118, nei confronti di un proprio dipendente che lamentava di essere stato licenziato a causa di una serie di richieste avanzate nel corso del rapporto di lavoro (relative al ccnl applicabile, alla retribuzione corrispostagli ed alla trasformazione del rapporto da part-time a full-time).
Diversamente dai giudici di primo grado che avevano riconosciuto il carattere ritorsivo del licenziamento, la Corte d’Appello di Lecce (sentenza n. 1013/2018), dopo aver accertato come le richieste del lavoratore erano state in parte accolte seppur dietro sollecitazione sindacale, ha ritenuto che una eventuale finalità ritorsiva non potesse costituire motivo illecito determinante, data l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo costituito da una reale esigenza di riduzione del personale, dipesa, nella specie, da un “grave aggravio di uscite rispetto alle entrate” che aveva indotto la Onlus a rinunciare al servizio per eccessiva onerosità sopravvenuta.
Ciononostante, la Corte distrettuale ha ritenuto illegittimo il licenziamento, applicando la mera tutela indennitaria (art. 18, co. 7, Stat. Lav.), poiché il datore di lavoro non aveva fornito la prova dell’impossibilità di ricollocare il lavoratore in altri settori dell’azienda.
In una posizione differente si pone la Cassazione che qualifica il licenziamento come ritorsivo, con conseguente applicazione della tutela reale c.d. forte (art. 18, co.1-3, Stat. Lav.).
In particolare, i giudici di legittimità, sulla scorta dell’orientamento consolidato in materia, ribadiscono il seguente principio: “la tutela che l’ordinamento riconosce in caso di licenziamento ritorsivo, cioè la nullità del provvedimento espulsivo … presuppone che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816/2005), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento” (Cass. n. 555/2011).
In merito agli oneri probatori che competono alle parti, la Cassazione evidenzia poi che: 1) l’allegazione da parte del lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento non esonera il datore di lavoro dal preventivo onere di dimostrare l’effettiva sussistenza della causale posta a fondamento del recesso; 2) nel caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, tale onere può dirsi assolto solo nel caso in cui il datore di lavoro sia in grado di dimostrare la sussistenza di entrambi gli elementi costitutivi del legittimo esercizio del potere di recesso, ossia le ragioni economiche è l’impossibilità del repêchage; 3) in assenza della prova di uno di questi due requisiti, la conseguente ingiustificatezza del licenziamento va annoverata tra gli indici della dedotta ritorsione.
Per la Cassazione, la Corte d’Appello non si è attenuta ai principi enunciati, in quanto “ha posposto la valutazione sulla prova del giustificato motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro a base del licenziamento rispetto all’esame degli indici di ritorsività allegati dal lavoratore, così omettendo di valutare l’illegittimità del recesso unitamente agli indici della ritorsività; inoltre, perché ha scisso la valutazione del motivo oggettivo di licenziamento tenendo distinte le due componenti, cioè l’esigenza economica di riduzione del personale e l’impossibilità di ricollocazione del lavoratore ed ha ritenuto che la sussistenza delle ragioni economiche fosse idonea e sufficiente ad escludere l’intento ritorsivo, là dove, invece, l’esclusione del motivo illecito può derivare unicamente dalla ricorrenza di entrambi i requisiti costituitivi della legittimità del recesso” (v. Cass. n. 23149/2016).