Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 gennaio 2023, n. 404
Lavoro, Licenziamento, Impugnativa, Cessione di azienda, Automatica continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario, Declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato prima della cessione di azienda, Articolo 2112 c.c., Decadenza, Rigetto
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, ha respinto il reclamo – proposto nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012 – da A.F. nei confronti di C.A.I. Spa e A. S.A.I. Spa avverso la sentenza di primo grado; in prime cure era stata respinta l’opposizione del lavoratore nei confronti dell’ordinanza con cui era stato dichiarato inammissibile, per intervenuta decadenza, il ricorso per l’impugnativa di licenziamento intimato da C.A.I. Spa in data 31 ottobre 2014.
2. La Corte, in estrema sintesi, ha confermato la sentenza di primo grado, sebbene con diversa motivazione, premettendo in fatto che il licenziamento era stato impugnato in via extragiudiziale con lettera del 14 dicembre 2014 ricevuta il 17 dicembre 2014 da C.A.I. Spa, che aveva intimato il recesso; tuttavia, il lavoratore non aveva proposto né il tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c. né depositato il ricorso giudiziario nei confronti di C.A.I. Spa nel termine di 180 giorni, avendo invece provveduto ad attivare il tentativo di conciliazione esclusivamente nei confronti di A. S.A.I. Spa, quale cessionaria dell’azienda.
La Corte ha escluso che tale richiesta, indirizzata a soggetto diverso da quello che aveva intimato il licenziamento, potesse impedire la decadenza di cui all’art. 6 l. n. 604 del 1966, come modificato dall’art. 32, comma 1, della l. n. 183 del 2010 e, successivamente, dall’art. 1, comma 38, L. n. 92 del 2012.
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il soccombente con un unico motivo; hanno resistito con distinti controricorsi le società intimate.
4. Le società intimate hanno comunicato memorie.
Ragioni della decisione
1. Con l’unico motivo del ricorso si denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966, in relazione all’art. 2112 c.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)”.
Si critica diffusamente la sentenza impugnata per avere ritenuto che “il lavoratore licenziato dal cedente (CAI) e che abbia impugnato il licenziamento nei confronti dello stesso cedente entro il primo termine di 60 giorni debba, entro il successivo termine di 180 giorni, alternativamente, depositare il ricorso o promuovere il tentativo di conciliazione nei confronti dello stesso cedente, e non nei confronti del cessionario, benché già pacificamente subentrato nell’azienda ex art. 2112 c.c. ed in tutti i rapporti giuridici ad essa inerenti (compresi i rapporti di lavoro de iure dei lavoratori illegittimamente licenziati) dopo la prima impugnazione e prima dell’invio della richiesta di tentativo di conciliazione (in alternativa al deposito del ricorso)”.
2. La censura è infondata.
Il licenziamento, quale atto unilaterale recettizio, produce i suoi effetti estintivi nel momento in cui perviene nella sfera di conoscenza del destinatario.
Tale effetto risolutivo del rapporto di lavoro, ove realizzato prima della cessione dell’azienda o di un suo ramo, impedisce di ritenere immediatamente operante il principio di continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario di cui al primo comma dell’art. 2112 c.c., che presuppone la vigenza del rapporto al momento della cessione.
Invero il comma 4 della disposizione codicistica richiamata disciplina la fattispecie del licenziamento intervenuto in concomitanza con il trasferimento dell’azienda e prevede che “ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento”. Da tale previsione discende che, in caso di trasferimento d’azienda, l’alienante conserva il potere di recesso attribuitogli dalla normativa generale, sicché il trasferimento non può impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, purché questo abbia fondamento nella struttura aziendale autonomamente considerata e non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo (v. Cass. n. 11410 del 2018; Cass. n. 15495 del 2008).
Ancora di recente è stato ribadito che il duplice effetto dell’automatica “continuazione” del rapporto di lavoro con il cessionario e della “conservazione” dei diritti maturati dai lavoratori sino al momento della cessione “presuppone, dal punto di vista logico e giuridico, la vigenza del rapporto di lavoro in capo alla cedente al momento del trasferimento”, non potendo “continuare” in capo alla cessionaria, “un rapporto di lavoro non più esistente all’epoca del trasferimento” (Cass. n. 8039 del 2022).
Sul diverso piano delle conseguenze derivanti dalla eventuale declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato prima della cessione in regime di tutela reintegratoria opera il principio consolidato in base al quale l’effetto estintivo del licenziamento è destinato ad essere travolto dalla sentenza di annullamento che disponga la reintegrazione, comportando che il rapporto di lavoro ripristinato tra le parti originarie si trasferisca, ai sensi dell’art. 2112 c.c., in capo al cessionario (cfr. Cass. n. 8641 del 2010; successivamente v. Cass. n. 5507 del 2011 e Cass. n. 4130 del 2014).
Tale effetto, peraltro, non si produce tutte le volte in cui dal licenziamento, pur illegittimo, non derivi una tutela ripristinatoria ma meramente indennitaria, essendo il recesso comunque idoneo a risolvere il rapporto di lavoro prima della cessione; analogamente, nel caso di licenziamento con preavviso, il carattere non reale ma obbligatorio del medesimo, determina la cessazione del rapporto di lavoro alla data della comunicazione della volontà di recedere, salvo l’obbligo dell’indennità sostitutiva, impedendo il passaggio del rapporto al cessionario.
Se per affermare l’operatività dell’art. 2112 c.c., in caso di licenziamento ante cessione, è necessaria una sentenza che, dichiarando l’illegittimità del recesso, disponga una tutela ripristinatoria, appare evidente che fino a tale pronuncia l’effetto estintivo del rapporto di lavoro si realizza, sebbene precariamente, e, per impedire la stabilizzazione di tale effetto, è necessario che il giudizio finalizzato alla impugnativa del licenziamento non sia precluso dall’intervenuta decadenza consumata in favore di chi tale recesso abbia intimato.
Poiché, quindi, nell’ipotesi di licenziamento intimato in epoca anteriore al trasferimento la norma di garanzia di cui all’art. 2112 c.c. può operare solo a condizione che sia successivamente dichiarata la nullità o l’illegittimità del licenziamento, con le conseguenze a ciò connesse in termini di ripristino del rapporto di lavoro alle dipendenze della cedente, “la declaratoria di nullità del licenziamento o il suo annullamento costituiscono dunque un dato pregiudiziale ed autonomo – sul piano logico e su quello giuridico – rispetto all’accertamento del trasferimento d’azienda e dei suoi effetti”, con la conseguenza che la contestazione del licenziamento resta “sottoposta alla regole sue proprie, e tra queste all’onere di impugnazione nei termini di decadenza di cui all’art. 6, l. n. 604 del 1966, nel testo modificato dalla l. n. 92 del 2012” (ancora Cass. n. 8039 del 2022).
Ne deriva che, stante il meccanismo predisposto dal novellato art. 6 l. n. 604 del 1966 che lega la fase della impugnativa stragiudiziale a quella della impugnativa giudiziale, è conforme al diritto la sentenza impugnata che ha ritenuto decaduta la parte ricorrente per non aver nei termini proposto il tentativo di conciliazione né depositato il ricorso giudiziario nei confronti di chi aveva intimato il licenziamento, non essendosi potuta verificare, nelle more, alcuna successione in un rapporto di lavoro non pendente.
Ciò posto, neanche giova alla parte ricorrente il richiamo a Cass. n. 15678 del 2006, che riguarda una diversa fattispecie in cui la cessione d’azienda era intervenuta nel lasso di tempo intercorso fra la spedizione dell’atto di licenziamento e il ricevimento dello stesso da parte del lavoratore, e, quindi, prima che si perfezionasse l’esito risolutivo.
3. Pertanto il ricorso deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo in favore di ciascuna delle parti controricorrenti.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in favore di ciascuna società controricorrente in euro 4.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.