Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 gennaio 2023, n. 749

Lavoro, Licenziamento, Soppressione di magazzino, Impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, Repêchage, Onere probatorio, Rigetto

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 430 depositata il 26.7.2019 la Corte d’appello di Salerno, in sede di reclamo ex art. 1, comma 58 della legge n. 92 del 2012 ed in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato il 14.11.2014 a T.S. – per soppressione del magazzino presso il quale il lavoratore era addetto – da parte dell’(…) – ICM in considerazione della sussistenza della ragione organizzativa e della mancanza di residue mansioni ove adibire lo S..

2. La Corte territoriale – pacifica la soppressione del magazzino – ha ritenuto che il concorso di diversi elementi deponevano per l’insussistenza di posti ove adibire il lavoratore, posto che: l’Istituto aveva dimostrato l’assenza di assunzioni successivamente al licenziamento; il lavoratore non aveva indicato alcun posto di lavoro ove poter essere ricollocato; la direzione sanitaria dell’Istituto aveva relazionato per iscritto circa l’assenza di posti di lavoro disponibili e compatibili con l’inquadramento del lavoratore e con i titoli dallo stesso posseduti; il medico competente aveva attestato l’impossibilità di adibire lo S. a mansioni che richiedevano movimentazione manuale di carichi superiori a 5 kg.

3. Il lavoratore ha proposto, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a un motivo, illustrato da memoria. L’Istituto ha depositato controricorso.

4. Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con l’unico motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604 del 1966 e 2697 cod.civ. (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente applicato il criterio della distribuzione dell’onere della prova, addossando al lavoratore la prova inerente all’impossibilità di reimpiego in azienda.

2. Il ricorso non è fondato.

3. Secondo l’orientamento oramai consolidato di questa Corte, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del c.d. repêchage, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore. Sul datore di lavoro incombe l’onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l’esercizio del potere di recesso, ossia l’effettiva sussistenza di una ragione inerente all’attività produttiva, all’organizzazione o al funzionamento dell’azienda nonché l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (cfr. Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 20436 del 2016, Cass. n. 160 del 2017, Cass. n. 9869 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017; v. pure, tra le più recenti, Cass. n. 24195 del 2020, Cass. n. 4673 del 2021, Cass. nn. 30950 e 30970 del 2022).

4. L’impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse costituisce elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore (Cass. n. 24882 del 2017).

5. In ordine all’onere di allegazione di posti disponibili per una utile ricollocazione, è stato osservato che esigere che sia il lavoratore licenziato a spiegare dove e come potrebbe essere ricollocato all’interno dell’azienda significa, se non invertire sostanzialmente l’onere della prova (che – invece – la legge n. 604 del 1966, art. 5, pone inequivocabilmente a carico del datore di lavoro), quanto meno divaricare fra loro onere di allegazione e onere probatorio, nel senso di addossare il primo ad una delle parti in lite e il secondo all’altra, una scissione che non si rinviene in nessun altro caso nella giurisprudenza di legittimità. Invece, alla luce dei principi di diritto processuale, onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l’onere di provare un fatto primario (costitutivo del diritto azionato o impeditivo, modificativo od estintivo dello stesso) ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione (sull’impossibilità di disgiungere fra loro onere di allegazione e relativo onere probatorio gravante sulla medesima parte v., ex aliis, Cass. n. 21847 del 2014; in tali termini, Cass. n. 12101 del 2016 cit.).

6. Occorre aggiungere che questa Corte ha, altresì, affermato che, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano al momento del recesso i posti esistenti in azienda ai fini del repêchage, ove il lavoratore medesimo non indichi posizioni lavorative alternative oppure indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili ma queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la possibilità del predetto repêchage (Cass. nn. 12794 e 30259 del 2018 e Cass. n. 15401 del 2020); tali principi operano sul diverso piano della ricostruzione del quadro probatorio.

7. Tanto premesso, va osservato che si colloca nell’alveo del suddetto orientamento interpretativo il passaggio argomentativo contenuto nella sentenza impugnata in cui si è affermato che spetta al datore di lavoro l’onere di dimostrare l’esistenza di posti di lavoro effettivamente disponibili in cui poter utilmente inserire il lavoratore (pag. 3 della sentenza impugnata). Nonostante una successiva, contraddittoria, errata statuizione, secondo cui “sembra a questa Corte che l’onere della prova incombente sul lavoratore circa il corretto assolvimento dell’obbligo di repêchage fosse stato assolto” (pag. 4 della sentenza impugnata, che appare, un lapsus calami, posto che il “corretto” assolvimento dell’obbligo di repêchage non può che spettare al datore di lavoro), in realtà la sentenza ha fatto discendere un accertamento dell’insussistenza di “residue mansioni dello S. in cui lo stesso potesse essere adibito” dal concorso di molteplici elementi probatori, che non si compendiano esclusivamente nella prova, di carattere presuntivo, consistente nella mancata indicazione – da parte dello S. – di posti di lavoro ove essere adibito.

8. In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto provata la carenza di posti residuali nei quali adibire il lavoratore, in forza di molteplici elementi probatori (l’Istituto aveva dimostrato, depositando il L.U.L., l’assenza di assunzioni successivamente al licenziamento; il lavoratore non aveva indicato alcun posto di lavoro ove poter essere ricollocato; la direzione sanitaria dell’Istituto aveva relazionato per iscritto circa l’assenza di posti di lavoro disponibili e compatibili con l’inquadramento del lavoratore e con i titoli dallo stesso posseduti; il medico competente aveva attestato l’impossibilità di adibire lo S. a mansioni che richiedevano movimentazione manuale di carichi superiori a 5 kg). L’allegazione del lavoratore è valsa, quindi, a integrare il quadro della prova presuntiva nel quadro complessivo degli elementi acquisiti al processo che la sentenza impugnata, secondo l’accertamento di merito che le era demandato, ha ritenuto utilizzabili per giungere ad escludere, nel giudizio finale e complessivo, la possibilità di ricollocazione del ricorrente in azienda, accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità.

9. Il giudizio espresso dal giudice di merito deve essere ritenuto conforme a diritto in quanto condotto nell’ambito della prova presuntiva del fatto negativo acquisibile anche attraverso fatti positivi, tra i quali ben possono essere inclusi i fatti indicati dal lavoratore ed acquisiti al processo. Il principio non vale invece ad invertire l’onere della prova di cui ai principi sopra indicati, peraltro espressamente richiamati anche dalla sentenza impugnata.

10. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio di legittimità seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.

11. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 gennaio 2023, n. 749
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