Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 gennaio 2023, n. 1295

Lavoro, Provvedimento di cancellazione dagli elenchi anagrafici degli operai agricoli, Onere della prova della sussistenza del rapporto di lavoro, Prestazioni previdenziali proprie dei lavoratori agricoli, Disconoscimento delle giornate lavorative da parte dell’INPS, Rigetto

 

Fatti di causa

 

Con sentenza depositata il 28.7.2020, la Corte d’appello di Bari ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda di M.F.A. volta alla reiscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli per l’anno 2012, da cui era stato parzialmente cancellato a seguito di accertamento ispettivo condotto dall’INPS, che aveva disconosciuto n. 81 giornate lavorative svolte presso l’azienda agricola “L.B.F. di C.L.”.

La Corte, in particolare, ha ritenuto che gravasse sul lavoratore l’onere di provare la sussistenza e la durata del rapporto di lavoro disconosciuto dall’ente previdenziale, escludendo che al provvedimento di cancellazione o variazione fosse applicabile la disciplina dell’art. 3, l. n. 241/1990, e ha ritenuto che a tale onere il lavoratore non avesse nella specie assolto.

Avverso tale pronuncia M.F.A. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi di censura, successivamente illustrati con memoria. L’INPS ha depositato delega in calce al ricorso notificatogli. Il Pubblico Ministero ha depositato memoria con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost. e dell’art. 3, l. n. 241/1990, per avere la Corte di merito ritenuto che al provvedimento di cancellazione dagli elenchi anagrafici degli operai agricoli non dovesse applicarsi il precetto che impone che ogni provvedimento amministrativo debba essere motivato in relazione ai presupposti di fatto e di diritto che lo hanno determinato: ad avviso di parte ricorrente, infatti, l’art. 3, l. n. 241/1990, imporrebbe l’obbligo di motivazione dei provvedimenti di cancellazione, che sarebbe vieppiù rilevante nel caso di specie, non avendo l’INPS provveduto a notificargli l’esito dell’ispezione condotta a carico del datore di lavoro, in violazione dell’art. 8, comma 5, d.lgs. n. 375/1993.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta conseguentemente omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio per non avere la Corte territoriale valutato la sufficienza e adeguatezza della motivazione del provvedimento di cancellazione al fine di renderlo edotto delle ragioni per le quali era stata disposta la sua cancellazione dagli elenchi.

Con il terzo motivo, il ricorrente si duole di violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. per avere la Corte di merito ritenuto che gravasse a suo carico l’onere della prova della sussistenza del rapporto di lavoro che è presupposto dell’iscrizione, esentando l’INPS dall’onere di dimostrare le ragioni che avevano determinato la sua cancellazione dagli elenchi.

Con il quarto motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 244, 420 e 421 c.p.c. per avere la Corte territoriale rigettato le richieste istruttorie sul presupposto che il motivato giudizio di inammissibilità e irrilevanza formulato al riguardo dal primo giudice non fosse stato specificamente censurato in sede di gravame.

Ciò posto, i primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, in considerazione dell’intima connessione delle censure, e sono infondati.

Va premesso che – come ripetutamente affermato da questa Corte, anche in giudizi pressoché sovrapponibili a quello per cui è causa (cfr. da ult. Cass. nn. 27655 e 35548 del 2022) – nella fattispecie in esame si contrappongono, da un lato, la pretesa dell’iscritto nell’elenco dei lavoratori agricoli a mantenere l’iscrizione, al fine di accedere alle prestazioni previdenziali proprie dei lavoratori agricoli, e, dall’altro lato, l’obbligo dell’ente previdenziale di assicurare il rispetto della regola della effettività dell’attività connessa all’iscrizione assicurativa.

Si tratta, come parimenti è stato precisato, di situazioni giuridiche che non mettono capo né all’esercizio di alcuna potestà amministrativa di carattere discrezionale da parte dell’ente, né ad alcuna posizione di interesse legittimo in capo al lavoratore assicurato: all’espletamento dell’attività agricola subordinata per un certo numero di giornate corrisponde infatti il diritto del lavoratore agricolo all’iscrizione, così come all’accertamento dell’insussistenza di tali presupposti di fatto consegue la cancellazione del lavoratore dagli elenchi.

Tanto basta, a parere del Collegio, per ritenere l’infondatezza delle censure in esame: indipendentemente dalla possibilità o meno di riferire l’intero corpus delle previsioni della legge n. 241/1990 alla sola attività amministrativa in senso stretto, ossia all’agire autoritativo dell’amministrazione (come pure sostenuto da Cass. nn. 27655 e 35548 del 2022, sulla scorta di Cass. n. 28141 del 2018), dirimente è piuttosto il fatto che, vertendosi in materia di obbligazioni di natura pubblica, che nascono ex lege al verificarsi dei requisiti di volta in volta previsti dall’ordinamento, la funzione del procedimento amministrativo che è preordinato alla loro adozione è di natura meramente ricognitiva: e ciò comporta non soltanto che all’inadempimento dell’ente che sia pregiudizievole per il diritto del privato può direttamente porre rimedio il giudice ordinario, dinanzi al quale si fa valere direttamente il rapporto obbligatorio, ma soprattutto che, trattandosi di atti rigidamente vincolati alla regola del rapporto obbligatorio, lo stesso ente previdenziale può sempre prendere, senza formalità alcuna (e dunque anche in giudizio), una diversa posizione in ordine al contenuto dell’obbligazione, non essendo in alcun modo vincolato da altri atti emessi in precedenza, ma soltanto alla legge del rapporto (così espressamente Cass. n. 2804 del 2003).

Sta qui la ragione ultima per cui gli atti di gestione delle obbligazioni pubbliche in materia previdenziale e assistenziale debbono ritenersi sottratti all’obbligo di motivazione sancito dall’art. 3, l. n. 241/1990: si tratta infatti di atti in cui la motivazione è affatto irrilevante, decisivo essendo soltanto che il comportamento dell’ente si sia uniformato o meno al vincolo obbligatorio che, in presenza dei presupposti di fatto, sorge dalla legge. Ed è per ciò che questa Corte ha da tempo affermato che, stante l’indifferenza del procedimento amministrativo rispetto alla consistenza della sua situazione soggettiva, l’assicurato non può, in difetto dei fatti costitutivi della relativa obbligazione, fondare la pretesa giudiziale di pagamento della prestazione previdenziale su una carente o insufficiente motivazione del provvedimento di diniego della prestazione, potendo semmai in tali casi, ricorrendone in concreto i presupposti, far valere il proprio diritto al risarcimento dei danni eventualmente cagionatigli dal comportamento dell’ente medesimo (così, espressamente, Cass. nn. 2804 del 2003, cui hanno dato seguito, tra le numerose, Cass. nn. 9986 del 2009, 20604 del 2014 e 31954 del 2019).

Del pari infondato è il terzo motivo: è infatti consolidato il principio di diritto secondo cui la funzione di agevolazione probatoria dell’iscrizione di un lavoratore nell’elenco dei lavoratori agricoli viene meno qualora l’INPS, a seguito di un controllo, disconosca l’esistenza del rapporto di lavoro che ne costituisce il presupposto, con la conseguenza che, in tal caso, il lavoratore che agisce in giudizio ha l’onere di provare l’esistenza, la durata e la natura onerosa del rapporto dedotto a fondamento del diritto di iscrizione e di ogni altro diritto consequenziale di carattere previdenziale che abbia fatto valere (così, tra le più recenti, Cass. n. 31954 del 2019, cit.); e dal momento che l’onere della prova non si configura soltanto come onere in senso proprio, ma anche come regola di giudizio cui far ricorso quando le risultanze processuali non consentano di pervenire alla qualificazione del rapporto (così, tra le numerose, Cass. n. 13869 del 2004), affatto correttamente i giudici territoriali, dato atto dell’impossibilità di attribuire rilevanza probatoria alle registrazioni e alle denunce aziendali, trattandosi in ultima analisi delle medesime risultanze documentali su cui era stata inizialmente effettuata l’iscrizione negli elenchi, hanno rigettato la domanda di parte ricorrente.

Sotto questo profilo, va rettamente intesa l’affermazione contenuta in Cass. S.U. n. 1133 del 2000 (e poi tralaticiamente ripresa da molte altre successive, tra cui Cass. nn. 22686 del 2015, 12001 e 13677 del 2018 nonché, da ult., da Cass. nn. 27655 e 35548 del 2022, già cit.) secondo cui, quando contesti l’esistenza dell’attività lavorativa o del vincolo della subordinazione, l’ente previdenziale avrebbe l’onere di fornire la relativa prova, cui l’interessato potrebbe a sua volta replicare mediante offerta di altri mezzi di prova: come perspicuamente chiarito già da Cass. n. 7995 del 2000, l’agevolazione probatoria garantita dall’iscrizione negli elenchi, che vale sul presupposto che non vi siano disconoscimenti, non può giustificare un’inversione dell’onere della prova a carico dell’ente previdenziale che istituzionalmente è preposto al controllo della veridicità ed esattezza dei dati dichiaratigli dal datore di lavoro; in quest’ottica, anzi, la cancellazione dell’iscrizione deve considerarsi atto meramente consequenziale al disconoscimento, quest’ultimo essendo propriamente l’atto che comporta a carico dell’assicurato l’onere di provare l’esistenza, la durata e la natura onerosa del rapporto dedotto a fondamento del diritto e per il giudice l’obbligo di accertare l’esistenza e l’inesistenza di tale rapporto senza più essere condizionato dagli atti di iscrizione o di cancellazione.

Piuttosto, ed in linea con quanto affermato da Cass. n. 13877 del 2012, si deve dire che l’agevolazione probatoria costituita dall’iscrizione negli elenchi consiste nel fatto che, fintanto che sussiste (e non è questo il caso di specie), esime l’assicurato dalla prova dei presupposti di fatto utili al riconoscimento del diritto alle prestazioni previdenziali per gli operai agricoli, a meno che l’ente previdenziale convenuto in giudizio non contesti l’attendibilità delle risultanze documentali richiamando elementi di fatto (come il contenuto di accertamenti ispettivi o la sussistenza di rapporti di parentela, affinità o coniugio tra le parti), la cui valutazione possa far sorgere dubbi circa l’effettività del rapporto di lavoro o del suo carattere subordinato: tale contestazione, pur in presenza dell’iscrizione, è infatti sufficiente ad escludere che il giudice possa risolvere la controversia in base al semplice riscontro dell’iscrizione ancora in essere, dovendo invece pervenire alla decisione valutando liberamente e prudentemente tutti gli elementi probatori acquisiti alla causa e, in caso di persistenza del dubbio, tornando ad applicare la regola di giudizio consacrata nell’art. 2697 c.c.-

Infondato, infine, è il quarto motivo.

Come pure riconosciuto da parte ricorrente, i giudici territoriali hanno disatteso la richiesta di prova testimoniale reiterata in sede di gravame sul rilievo che il giudizio d’inammissibilità formulato al riguardo dal primo giudice non era stato attinto da specifiche censure (cfr. pagg. 6-7 della sentenza impugnata).

A fronte di tale motivazione, l’odierno ricorrente ha affermato che i giudici territoriali dovevano in realtà considerare censurata anche l’affermazione della sentenza di prime cure che aveva dichiarato inammissibili le prove testimoniali, richiamando all’uopo ampi stralci di Cass. n. 139 del 2019, secondo cui l’interpretazione degli atti di parte dovrebbe essere condotta sulla base della lettura dell’atto nella sua interezza, considerati il contenuto sostanziale dell’atto, la natura della vicenda descritta e le finalità che la parte intende perseguire col provvedimento chiesto in concreto.

Trattasi, tuttavia, di considerazioni affatto irrilevanti al fine di censurare la ratio decidendi della pronuncia impugnata, avendo questa Corte costantemente affermato che la parte, la cui prova non sia stata ammessa nel giudizio di primo grado, deve dolersi di tale mancata ammissione attraverso un apposito motivo di gravame (Cass. n. 4717 del 2014), non essendo sufficiente che egli impugni la sentenza lamentando l’omessa pronuncia su domande e l’errata valutazione del materiale probatorio da parte del primo giudice affinché quello d’appello debba necessariamente compiere un nuovo apprezzamento discrezionale della complessiva rilevanza delle richieste istruttorie disattese in primo grado (Cass. n. 1532 del 2018). E dal momento che in nessuna parte dell’atto di appello (per come trascritto alle pagg. 7-11 del ricorso per cassazione) è dato rinvenire quelle critiche specifiche all’ordinanza di rigetto della prova testimoniale adottata in prime cure che sole avrebbero potuto dimostrare l’erroneità della statuizione qui impugnata, il ricorso va conclusivamente rigettato, nulla statuendosi sulle spese di lite per non avere l’INPS svolto alcuna apprezzabile attività difensiva al di là del deposito della procura in calce al ricorso notificatogli.

Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 gennaio 2023, n. 1295
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: