Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 19 gennaio 2023, n. 1584

Lavoro, Esonero per insufficienza nell’espletamento delle mansioni, Esonero definitivo dal servizio per scarso rendimento, previsto dall’art. 27, lett. d) dell’allegato A al R.D. n. 148 del 1931, Plurimi precedenti disciplinari, Disciplina del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, Consumazione del potere disciplinare, Rigetto

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza del 19.3.2019, il Tribunale di Bologna, in accoglimento dell’opposizione ex art. 1, comma 51, L. n. 92/2012, che C.V. aveva proposto contro l’ordinanza del medesimo Tribunale in data 30.1.2018 che aveva respinto il suo ricorso proposto ai sensi dell’art. 1, comma 47, della stessa legge avverso il provvedimento di esonero definitivo, adottato da T. nei suoi confronti, “per scarso rendimento o per palese insufficienza imputabile a colpa dell’agente nell’adempimento delle funzioni del proprio grado”, ai sensi dell’art. 27, comma primo, lett. d), del regolamento attuativo, All. A al r.d. n. 148/1931, e in riforma di tale ordinanza, annullava il predetto provvedimento di licenziamento/esonero definitivo, applicando a favore del C. le tutele previste dall’art. 18, comma quarto, L. n. 300/1970 novellato.

2. La sentenza emessa in sede d’opposizione riteneva confliggente col divieto del ne bis in idem in materia disciplinare l’adozione in successione, a partire dalla medesima contestazione, in data 2.3.2017 di un provvedimento sanzionatorio conservativo (sospensione dal servizio e dalla retribuzione per cinque giorni) e in data 28.3.2017 di un provvedimento di licenziamento, sub specie di esonero definitivo per inadeguatezza al servizio ai sensi della norma su citata.

3. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Bologna respingeva il reclamo che T. aveva proposto contro la sentenza di primo grado, confermandola integralmente e condannando la reclamante al pagamento, in favore del C., delle ulteriori spese processuali, nonché dichiarando sussistenti i presupposti per il pagamento del raddoppio del contributo unificato nei confronti della stessa.

4. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale giungeva alla conclusione che l’esonero definitivo in questione era basato esclusivamente sui precedenti disciplinari, a carico del lavoratore, tra i quali era annoverato anche quello del 26.11.2016, poco prima già sanzionato con misura non espulsiva, e che T. non aveva altrimenti dedotto “sul piano oggettivo, un rendimento inferiore alla media e, sul piano soggettivo, l’imputabilità colpa dell’agente, determinata da imperizia, incapacità e negligenza”, richiamando a riguardo Cass. n. 3855/2017. Riteneva, inoltre, quanto al regime di tutela applicato dal primo giudice e pure contestato dall’allora reclamante, che la violazione del bis in idem, con la pregressa consumazione del potere disciplinare, si traduceva nell’attuale (al momento, cioè, dell’irrogazione del licenziamento/esonero) insussistenza del fatto contestato ed implica la tutela ex art. 18, comma 4, L. n. 300/1970, come evidenziato nella giurisprudenza citata (anche nella reclamata sentenza), e non in una semplice violazione procedurale, ricadente nel regime di cui all’art. 18, comma 6, della stessa legge.

5. Avverso tale decisione la T. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

6. Ha resistito l’intimato con controricorso.

7. Solo il controricorrente ha prodotto memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Preliminarmente, dev’essere respinta l’eccezione d’inammissibilità dell’intero ricorso, che la difesa del controricorrente ha sollevato, peraltro, solo con la sua cennata memoria.

2. La controricorrente deduce che: “La procura speciale alle liti a favore dell’Avv. R.G. conferita per il ricorso per cassazione è stata sottoscritta dal dottor P.F., Responsabile Risorse Umane e Relazioni Sindacali dell’azienda in virtù di procura notarile di cui sono riportati gli estremi e che, tuttavia, non risulta rinvenibile nel fascicolo né risulta allegata al ricorso al fine del controllo della sussistenza del potere di rappresentare la società ricorrente davanti alla Suprema Corte e dei suoi limiti”, richiamando in tal senso due precedenti di questa Corte.

2.1. Osserva il Collegio che Cass. civ., sez. III, 18.1.2022, n. 1334, cit. dall’eccipiente, ha affermato che il potere di rappresentare la parte in giudizio mediante il conferimento della procura può essere riconosciuto soltanto a colui che sia investito del potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, sicché il ricorrente per cassazione che, in veste di parte formale, proponga il ricorso in qualità di procuratore speciale della parte sostanziale, deve produrre, con il ricorso ovvero ai sensi dell’art. 372 c.p.c., i documenti che giustificano la sua qualità; in mancanza, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 77 c.p.c., non essendo possibile valutare la sussistenza ed i limiti del potere rappresentativo ed, in particolare, la facoltà di proporre ricorso per cassazione (la quale, in motivazione, richiama nel medesimo senso Cass. civ., sez. III, 15.9.2021, n. 24893).

2.2. Ebbene, nel caso che ci occupa, la procura cui si riferisce il controricorrente è la “la procura per atto Notaio dottor D.D. di Bologna del 21.6.2017, repertorio n. 20761”, indicata sia nel mandato ad litem a margine del ricorso per cassazione che nell’intestazione di quest’ultimo atto. Questa Corte ha, altresì, constatato che trattasi della medesima procura, in forza della quale era stato rilasciato il mandato a rappresentare e difendere la società convenuta, attuale ricorrente, in occasione della sua costituzione con memoria difensiva in primo grado.

2.3. Ora, in disparte la considerazione che la difesa del C. nulla aveva mai eccepito a riguardo nei precedenti gradi di merito, è indimostrato il punto di partenza dell’eccezione in esame, vale a dire, che si sia in presenza di una “procura speciale” (cui si riferiscono i precedenti di legittimità sopra citati, sui quali basa la propria eccezione il controricorrente). Invero, la procura per atto di notaio, menzionata nel mandato a margine del ricorso per cassazione, non risulta assolutamente che fosse una procura appunto speciale, e tale precisazione circa la natura della stessa non è riportata sia nella procura al difensore a margine del ricorso che in atti precedenti.

3. Disattesa tale eccezione, con il primo motivo, la ricorrente denuncia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c.”. Censura la sentenza della Corte d’appello nella parte in cui si legge: “Il medesimo fatto … viene sanzionato in via autonoma e poi assommato e valutato in cumulo, ai fini del licenziamento, con le centodieci sanzioni disciplinari irrogate allo stesso C. nell’arco di trentacinque anni di servizio alle dipendenze di T.. E qui si colloca l’erroneità dell’impostazione adottata dall’azienda per reagire alla non commendevole reiterata condotta del dipendente assumendo di essere legittimata all’esercizio di “due distinte facoltà”, perché così non è, come correttamente evidenziato dalla reclamata sentenza”.

Infatti, a dire della stessa Corte, dalla contestazione disciplinare del 2.12.2016 “originano: 1) il provvedimento disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per giorni cinque irrogato in data 2.3.2017 per il solo fatto di cui alla prima parte della contestazione e non opposto; 2) la contestazione in data 7.3.2017 … che sfocia nel licenziamento (ovvero esonero definitivo dal servizio per palese insufficienza ovvero per scarso rendimento previsto dall’art. 27 lett. d dell’All. A al r.d. 148/1931) intimato il 28.3.2017”.

Secondo l’impugnante, la Corte bolognese giungeva “a tale errata conclusione, sulla base di un evidente travisamento della documentazione in atti”.

4. Col secondo motivo, denuncia “Violazione e falsa applicazione del Regio Decreto 8.1.1931, n. 148 e dell’art. 7 della legge n. 300/1970”. Deduce: che l’esonero per insufficienza nell’espletamento delle mansioni, previsto dall’art. 27 lett. d) di cui all’All. A all’ora cit. R.D., non è inserito tra le sanzioni disciplinari (regolate dal successivi artt. 37-58 dello stesso allegato al R.D.); che in giurisprudenza si era affermato che “l’esonero per scarso rendimento ha carattere di misura di organizzazione più che sanzionatoria di un comportamento del lavoratore”; che questa Corte aveva riconosciuto che l’esonero dal servizio è integrato dall’esistenza di plurimi precedenti disciplinari.

Sostiene che: “Nel caso in questione, T. non ha utilizzato, a distanza di tempo, le sanzioni disciplinari già comminate al fine di effettuare una diversa qualificazione di fattispecie già esaminate, ma stante l’accertamento di una condotta disciplinarmente rilevante (e, dunque, meritevole di sanzione) tenuta dal signor C. in data 26.11.2016, ha ritenuto meritevole anche di una valutazione complessiva, così come previsto dalla disciplina in materia di lavoro degli autoferrotranvieri”. E ribadisce che nella specie “il cumulo, o meglio il notevolissimo numero, di sanzioni giustifica ampiamente l’esonero dal servizio”.

5. Con un terzo motivo, denuncia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970”. Richiamato il passo a pag. 6 dell’impugnata sentenza circa la tutela accordata (qui premesso in narrativa), assume che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’appello, stante il (preteso) vizio riscontrato, non poteva essere disposta la reintegrazione nel posto di lavoro, ai sensi dell’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970. Deduce in tal senso che, nel caso in esame, anche a voler ritenere che effettivamente sia riscontrabile una duplicazione dell’esercizio del potere disciplinare, non si realizzerebbe l’ipotesi della “insussistenza del fatto contestato”. Sostiene essere indubbio che il “fatto – ossia la pluralità di condotte integranti la fattispecie dell’esonero dal servizio – sia sussistente, avendo, anche a seguire la, pur erronea, tesi esposta in sentenza, T. al più ha posto in essere una violazione procedurale, avendo contestato due volte lo stesso fatto. Sempre secondo la ricorrente, la c.d. consumazione del potere disciplinare è conseguenza delle previsioni dell’art. 7 L. n. 300/1970, sicché avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 18, comma 6, della stessa legge.

6. Il primo motivo dev’essere giudicato inammissibile, anche per difetto della specificità richiesta dall’art. 366, comma primo, n. 4), c.p.c.

Con esso si fa valere la violazione o la falsa applicazione di un’unica norma di diritto (sostanziale), in tema di interpretazione del contratto.

Pertanto, pur in difetto di specificazioni di parte, la censura dovrebbe essere ricondotta al mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c.

Come ben risulta, però, già dalla sintesi di tale motivo, sopra esposta (e meglio dal suo sviluppo: cfr. pagg. 9-12 dell’atto d’impugnazione, comprensive degli allegati che vi sono riprodotti), la ricorrente, non solo non specifica l’atto negoziale che sarebbe affetto dal preteso errore interpretativo, in ipotesi da controllare in base ai canoni ermeneutici di cui al solo art. 1362 c.c., ma in realtà addebita alla Corte di merito un “evidente travisamento della documentazione in atti”; ed infatti nello svolgimento della sua doglianza contrappone alla lettura delle risultanze processuali senz’altro fornita dalla stessa Corte (peraltro, non ammissibilmente censurata in questa sede di legittimità sul terreno motivazionale), una propria differente ricostruzione, ovviamente qui non consentita.

7. Il secondo motivo non è fondato.

7.1. Giova subito ricordare che questa Corte ha insegnato che l’esonero definitivo dal servizio per scarso rendimento, previsto dall’art. 27, lett. d) dell’allegato A al r.d. n. 148 del 1931, si connota, sul piano oggettivo, per un rendimento della prestazione inferiore alla media esigibile e, sul piano soggettivo, per l’imputabilità a colpa del lavoratore. Per tale motivo, lo scarso rendimento non può essere dimostrato da plurimi precedenti disciplinari del lavoratore già sanzionati in passato, perché ciò costituirebbe un’indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite (così Cass. civ., sez. lav., 23.3.2017, n. 7522; e in termini, con identica motivazione in diritto sul punto, id., sez. lav., 14.2.2017, n. 3855, entrambe già richiamate dal giudice di secondo grado).

7.2. In particolare, per quanto qui soprattutto interessa, dopo aver richiamato taluni precedenti di legittimità, nelle richiamate decisioni è stato spiegato che: “Una volta ricostruita la fattispecie dello scarso rendimento in termini di violazione evidente della diligente collaborazione dovuta dal dipendente – ed a lui imputabile – divengono palesi le analogie con l’omologo illecito disciplinare previsto nella disciplina comune del rapporto di lavoro; del resto nella pronuncia di questa Corte nr. 14758/2013, sopra richiamata, la definizione di scarso rendimento nella disciplina del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri è stata ricavata dalla giurisprudenza formatasi in relazione alla disciplina generale.

Di qui la conseguenza, già ricavata da questa Corte (Cass. nr. 16472/2015; nr. 17436/2015 sopra citate), secondo cui lo scarso rendimento non può essere di per sé dimostrato dai plurimi precedenti disciplinari del lavoratore già sanzionati in passato, perché ciò costituirebbe una indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite.

Deve in sostanza trovare applicazione anche nella fattispecie di scarso rendimento di cui alla disciplina speciale del R.D. n. 148 del 1931, il divieto, più volte affermato da questa Corte con riguardo ai procedimento disciplinare, di esercitare due volte il potere disciplinare per lo stesso fatto sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica (ex plurimis: Cass. sez. lav. 11 ottobre 2016 nr. 20429 e 22 ottobre 2014 nr. 22388)”.

7.3. Tali essendo gli effettivi principi di diritto sanciti da questa Corte nelle due sentenze sopra cit. (che nelle loro conformi motivazioni traggono principi e argomenti anche da precedenti decisioni di legittimità), le osservazioni sviluppate dalla ricorrente nel primo motivo, in parte mal intendono quei principi, in parte risultano tra loro in contraddizione e non appaiono, comunque, assolutamente condivisibili.

7.4. In particolare, è ben vero che, sul piano sistematico interno all’allegato A al R.D. n. 148/1931, l’ipotesi di cui all’art. 27, comma primo, lett. d), di tale allegato, non è inclusa tra le norme relative alle “sanzioni disciplinari”, presenti nell’apposita disciplina di cui agli artt. 37-58 dello stesso allegato.

Nondimeno dev’essere senz’altro qui ribadita la giurisprudenza di questa Corte specificamente riferita alla disposizione che anche qui viene in considerazione.

Essa, invero, è anzitutto aderente al tenore dell’art. 27 lett. d) cit. che fa esplicito riferimento a una condotta “imputabile a colpa dell’agente nell’adempimento delle funzioni del proprio grado” (laddove la precedente lett. c) si occupa di una “palese insufficienza nell’inquadramento delle funzioni del proprio grado”, ma “non imputabile a colpa dell’agente”).

Del resto, la stessa ricorrente riconosce contraddittoriamente che l’ipotesi di esonero che qui interessa, pur non essendo asseritamente per motivi disciplinari, trae “origine da un comportamento colpevole del lavoratore”.

Nota ancora il Collegio che, anche se l’esonero in questione non figura all’interno della disciplina precipua dedicata nell’allegato al R.D. alle sanzioni disciplinari, esso rientra tra i casi in cui il successivo comma terzo dello stesso art. 27 prevede che sia acquisito “il parere del Consiglio di disciplina di cui all’art. 54” e che sia “sentito personalmente l’agente interessato qualora questi ne faccia richiesta”, assicurandosi così al dipendente incolpato garanzie del tutto analoghe a quelle operanti per le contestazioni dichiaratamente disciplinari.

Infine, rileva la Corte che risulta ex actis, e segnatamente dalla decisione qui impugnata, né è posto in dubbio dalla ricorrente, che nel caso che ci occupa sul piano formale-procedurale anche la contestazione del “comportamento complessivo, giudicato incompatibile con il permanere del rapporto di lavoro” dalla T., ha seguito appunto l’iter adottato per le contestazioni di natura disciplinare.

7.5. E’ ben vero, poi, come argomenta la ricorrente nella censura in esame, che le ipotesi di “scarso rendimento” e di “palese insufficienza”, contemplate nella disposizione, e in specie la prima di esse (che è quella cui ha fatto capo il procedimento datoriale), ben possono essere integrate, non solo da un’unica condotta, ma da una pluralità di condotte, purché esse non consistano, come specificato nella giurisprudenza di questa Corte, “in plurimi precedenti disciplinari del lavoratore già sanzionati in passato, perché ciò costituirebbe un’indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite”.

Solamente quando sia esclusa tale ultima situazione, è senz’altro consentita al datore di lavoro quella valutazione complessiva di comportamenti del dipendente, cui si appella la ricorrente.

7.6. A torto, perciò, questa assume di non aver utilizzato, a distanza di tempo, le sanzioni disciplinari già comminate al fine di effettuare una diversa qualificazione delle fattispecie già esaminate, ma, stante l’accertamento di una condotta disciplinarmente rilevante (e, dunque, meritevole di sanzione) tenuta dal C. in data 26.11.2016, ha ritenuto meritevole anche di una valutazione complessiva.

L’impugnante, infatti, a tacer d’altro, trascura di considerare quanto ben evidenziato dalla Corte territoriale, e, cioè, che, all’atto della formale contestazione del c.d. comportamento complessivo in data 7.3.2017, la società datrice di lavoro aveva già consumato il proprio potere disciplinare anche in relazione all’episodio ultimo in ordine di tempo, ossia, quello del 26.11.2016, circa il quale aveva nel frattempo già adottato il provvedimento disciplinare in data 2.3.2017, recante misura conservativa.

Anche nel caso in esame, allora, non residuava più alla datrice spazio alcuno per operare una complessiva valutazione del pur cospicuo curriculum disciplinare del lavoratore.

Del resto, non compete certamente (anche) a questa Corte fornire suggerimenti (postumi) su come la datrice di lavoro avrebbe dovuto regolarsi correttamente rispetto ad un dipendente già destinatario di ben centodieci sanzioni disciplinari, tutte però non espulsive, cui si era aggiunta l’ennesima condotta del 26.11.2016, pure sanzionata con misura conservativa.

8. E’ infondato, infine, pure il terzo ed ultimo motivo, da intendersi subordinato, in quanto afferente solo alla tutela da praticare.

8.1. Il Collegio in tal senso intende qui richiamare, per la sua chiarezza, quanto osservato e ritenuto da questa Corte in fattispecie analoga a quella che ci occupa (in Cass. civ., sez. lav., sent., 30.10.2018, n. 27657).

In detta decisione era stato considerato: “25. Una volta che, di fronte ad una condotta disciplinarmente rilevante, il datore di lavoro abbia esercitato il proprio potere punitivo, non solo si verifica la consumazione del potere in capo al titolare, sicché lo stesso non può più esercitarlo per il medesimo fatto, ma allo stesso tempo, il fatto costituente addebito disciplinare diviene non più sanzionabile, quindi perde il carattere di illiceità per l’esaurirsi del potere sanzionatorio.

26. Il fatto non più sanzionabile, quindi non più suscettibile di provocare l’esercizio legittimo del potere disciplinare, equivale a fatto non più antigiuridico, quindi privo di antigiuridicità, come tale riconducibile alla previsione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012.

27. Sul punto, questa Corte (Cass. n. 20450 del 2015; Cass. n. 18418 del 2016) ha più volte ribadito, quanto alla tutela reintegratoria, come non sia “plausibile che il legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo di carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione”.

28. Né la fattispecie in esame è sovrapponibile a quella oggetto della sentenza delle Sezioni Unite n. 30985 del 2017. La sentenza appena citata ha esaminato l’ipotesi di “violazione derivante dalla tardività notevole e ingiustificata della contestazione disciplinare” ed ha ritenuto la stessa “sanzionabile alla stregua del quinto comma del citato art. 18, da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla c. d. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale”. Le Sezioni Unite non hanno ritenuto che la tardività notevole della contestazione disciplinare comportasse la consumazione del potere disciplinare; hanno invece considerato il potere disciplinare persistente ma esercitato in violazione del diritto di difesa e dei principi di correttezza e buona fede.

29. La fattispecie oggetto di causa è relativa alla diversa ipotesi in cui è pacifica la consumazione del potere disciplinare, con la conseguenza che il fatto addebitato non è più sanzionabile, condizione equiparabile alla mancanza di antigiuridicità del fatto medesimo”.

8.2. Il Collegio, pertanto, intende dare continuità a tale indirizzo, cui risulta conforme la decisione gravata in punto di applicazione della protezione reintegratoria c.d. debole (o attenuata) ex art. 18, comma quarto, L. n. 300/1970 novellato nella fattispecie in esame. Invero, solo nel caso della notevole tardività della contestazione disciplinare l’esercizio del relativo potere datoriale incide su diritti e principi propri dello stesso procedimento disciplinare una volta promosso.

Nella diversa ipotesi che qui ci occupa di pregressa consunzione del potere disciplinare, il fatto o i fatti in precedenza oggetto di contestazione e di sanzione, quand’anche antigiuridici all’origine, non lo sono più se nuovamente contestati, appunto perché già “puniti”.

Come tali, sono solo fatti storici privi di disvalore apprezzabile in un nuovo contesto disciplinare, se non dal differente punto di vista della c.d. recidiva (cfr., ad es., a quest’ultimo riguardo Cass. civ., sez. lav., 14.4.2022, n. 12321; id., sez. lav., 16.7.2020, n. 15228), che qui non viene in considerazione.

9. La ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15% e I.V.A e C.P.A. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 19 gennaio 2023, n. 1584
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