Il recesso per superamento del periodo di comporto intimato al lavoratore portatore di handicap computando anche le assenze direttamente correlate alla disabilità è discriminatorio e, in quanto tale, nullo.
Nota ad App. Milano 1 dicembre 2022, n. 832
Sonia Gioia
In materia di parità di trattamento sui luoghi di lavoro, la clausola di un contratto collettivo che, ai fini del computo del periodo di comporto, prenda in considerazione anche i giorni di assenza dovuti ad una patologia collegata alla disabilità integra una discriminazione indiretta basata sull’handicap, dal momento che tale previsione, seppur apparentemente neutra perché riferibile alla generalità dei prestatori, penalizza in misura significativamente maggiore i dipendenti invalidi che, rispetto ai colleghi “normodotati”, sono statisticamente più esposti al rischio di non essere presenti al lavoro per malattie legate alla disabilità.
Pertanto, le assenze che trovino origine diretta nella patologia causa dell’handicap del lavoratore non sono computabili ai fini dell’integrazione del termine massimo di conservazione del posto di lavoro, sicché il recesso intimato dall’imprenditore per superamento del periodo di comporto, calcolato sommando anche i giorni di malattia legati alla condizione di invalidità, è nullo ai sensi dell’art. 15, L. 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei Lavoratori), con conseguente applicazione della tutela reale di cui all’art. 18, co. 1-3, Stat. Lav.
Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Milano (1 dicembre 2022, n. 832, difforme da Trib. Milano 24 giugno 2022) in relazione ad una fattispecie concernente la legittimità del licenziamento irrogato ad un dipendente portatore di handicap per superamento del periodo di comporto, nel cui computo la società cooperativa, datrice di lavoro, aveva incluso anche i periodi di assenza riconducibili alla condizione di disabilità (nello specifico, coxartrosi).
In particolare, il lavoratore, in quanto soggetto disabile, sosteneva che l’applicazione nei suoi confronti della normativa sul comporto prevista dal contratto collettivo applicato dall’azienda (nello specifico, art. 51 ccnl Multiservizi, secondo cui “il diritto alla conservazione del posto viene a cessare qualora il lavoratore anche con più periodi di infermità raggiunga in complesso dodici mesi di assenza nell’arco di 36 mesi consecutivi”) rappresentava una violazione indiretta del principio di parità di trattamento, dal momento che la disposizione pattizia, omettendo di distinguere tra le assenze dovute a malattia e quelle connesse alla patologia correlata alla disabilità, comportava “in realtà” una situazione di svantaggio per i dipendenti con handicap.
Al riguardo, la Corte d’Appello ha osservato che si ha una discriminazione indiretta, vietata ai sensi dell’art. 2, lett. b), Direttiva 2000/78/CE (recante disposizioni “Per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro”) e art. 2, co. 1, lett. b), D. Lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (attuativo della citata Direttiva), quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere i soggetti portatori di handicap in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre persone, salvo che tale diversità di trattamento sia giustificata da una finalità legittima e a condizione che i mezzi per il perseguimento di tale obiettivo siano appropriati e necessari (CGUE 18 gennaio 2018, C- 270/16; Cass. n. 29289/2019; App. Milano n. 480/2020).
Ai fini dell’accertamento della discriminatorietà di un atto, non è richiesto che il comportamento datoriale sia intenzionale, poiché la discriminazione “opera sempre su di un piano puramente oggettivo”, vale a dire in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro: “basta in pratica che si manifesti con effetti nella sfera soggettiva della ‘vittima’ un fatto di per sé foriero di una valenza discriminatoria perché esso operi lasciando spazio ai mezzi di tutela ordinamentali” (App. Milano n. 301/2021).
Allo scopo di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento sul luogo di impiego, i datori di lavoro, sia pubblici che privati, sono tenuti ad adottare “soluzioni ragionevoli”, vale a dire “provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato” (art. 5, Dir. cit. e art. 3, D. Lgs. n. 216 cit.).
Da ciò discende che l’applicazione del medesimo periodo di comporto a tutti i lavoratori, sia disabili che “normodotati”, senza la previsione di misure adeguate a tutela dei primi, dà luogo ad una discriminazione indiretta, poiché pone la persona invalida in una posizione di oggettivo svantaggio rispetto agli altri prestatori.
I lavoratori con handicap, infatti, sono soggetti ad un maggior rischio di accumulare giorni di assenza per patologie causalmente collegate alla loro disabilità e di ricorrere, in via definitiva o per un protratto periodo di tempo, a cure specifiche o periodiche – oltre ad incontrare maggiori difficoltà a reinserirsi nel mondo del lavoro ed avere “esigenze specifiche connesse alla tutela previste dalla loro condizione” – diversamente dai dipendenti “normodotati” che limitano le proprie assenze ai casi contingentati di patologie che hanno una durata breve o comunque limitata nel tempo (App. Milano n. 755/2018).
Sicché, per assicurare il rispetto del principio di parità di trattamento dei lavoratori assunti in categoria protetta, devono essere computate, ai fini del comporto, solo le assenze per eventi morbosi estranei alla condizione di disabilità, con conseguente espunzione di quelle direttamente collegate a quest’ultima.
In attuazione di tali principi, la Corte – dopo aver accertato lo stato di disabilità del lavoratore, in quanto affetto da una patologia che implicava “in modo stabile e verosimilmente ingravescente” una difficoltà nell’esercizio dell’attività lavorativa, oltre alla necessità di fruire di periodi di cura e risposo più frequenti rispetto ai colleghi “normodotati” – ha stabilito che la norma pattizia, pur perseguendo un obiettivo legittimo, vale a dare quello di tutelare l’interesse del datore di lavoro a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l’impresa, produce “un effetto discriminatorio se riferita ad un lavoratore disabile, travalicando – in questa ipotesi – i limiti necessari al perseguimento di una finalità lecita ad essa sottesa in assenza di qualsivoglia specifico contemperamento perequativo a tutela della specifica posizione del disabile”.
Il Collegio, perciò, in accoglimento delle doglianze del lavoratore, ha dichiarato la nullità del licenziamento, in quanto discriminatorio, con conseguente reintegrazione del dipendente e condanna della società datrice al risarcimento del danno, considerato che le assenze che avevano determinato il superamento del periodo di comporto erano “in gran parte dovute alla coxartrosi”, e, perciò, non computabili, a nulla rilevando la mancata conoscenza da parte della cooperativa delle ragioni per le quali il lavoratore si era assentato per malattia.