Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 gennaio 2023, n. 2895

Lavoro, Licenziamento, Dirigenti dipendenti delle imprese creditizie, Impossibilità del repêchage, Rigetto

 

Rilevato che

 

con la sentenza impugnata, in sede di rinvio, ed in riforma della sentenza del Tribunale di Roma, è stata rigettata la domanda proposta da E.D. nei confronti della “B.N.L. S.p.A.”, volta, tra l’altro, all’accertamento della ingiustificatezza del licenziamento al medesimo intimato (in ragione della “profonda riorganizzazione e ristrutturazione che riguarda diversi settori e funzioni, compresa la struttura cui Ella appartiene e specificamente il Servizio cui Ella è addetto”) in data 20 luglio 2007 ed alla conseguente condanna della banca al pagamento, in suo favore, dell’indennità supplementare;

 per la cassazione della decisione ha proposto ricorso E.D., affidato a due motivi;

 la “B.N.L. S.p.A.” ha resistito con controricorso;

 entrambe le parti hanno depositato memoria;

 il P.G. non ha formulato richieste.

 

Considerato che

 

 con il primo motivo il ricorrente – denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 26 e 29 del c.c.n.l. per i dirigenti dipendenti delle imprese creditizie del 19 aprile 2005, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che il giudice del gravame abbia affermato che il licenziamento era giustificato, senza nulla dire riguardo all’obbligo del repêchage, sussistente (e sul cui adempimento non era stata fornita alcuna prova) sulla scorta di quanto affermato da Cass. 9/10/2017, n. 23503, in quanto derivante dalla motivazione del licenziamento stesso fornita il 10 agosto 2007 (nella quale era stata rilevata “l’impossibilità di individuare ulteriori ambiti lavorativi adeguati” all’inquadramento del dirigente), con conseguente violazione dei citati artt. 26 – in punto di motivazione del licenziamento – e 29 – in tema di indennità supplementare – del richiamato c.c.n.l.;

con il secondo motivo – denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 26 e 29 del citato c.c.n.l., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – lamenta che il predetto giudice abbia affermato che l’assunzione del dirigente G.P., avvenuta, nella stessa Direzione Risorse Umane in cui lavorava il D., dopo cinque mesi e diciotto giorni dal licenziamento intimato a quest’ultimo, non fosse idonea a far ritenere ingiustificato il licenziamento in questione.

 

Ritenuto che

 

il primo motivo è da disattendere, avuto riguardo al principio (v. Cass. 11/02/2013, n. 3175) secondo cui «In caso di licenziamento del dirigente d’azienda per esigenze di ristrutturazione aziendale è esclusa la possibilità del repêchage in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro»;

 nella menzionata Cass. n. 23503 del 2017, del resto, non è stato affermato l’ulteriore principio che l’impossibilità del repêchage, allorquando richiamata nella motivazione dell’atto espulsivo, diventi – in deroga alla regola espressa nella sopra riportata statuizione -requisito di giustificatezza del licenziamento intimato al dirigente, ma è stato solo precisato che, nella vicenda specifica lì esaminata, vi era stato un «apprezzamento in ordine alla effettività delle ragioni espressamente poste in concreto a giustificazione del licenziamento che rientra nella competenza del giudice del merito, che non smentisce affatto il principio di diritto secondo cui per il licenziamento del dirigente d’azienda non opera l’obbligo di repêchage, quanto piuttosto si iscrive nell’ambito del legittimo controllo giudiziale circa la corrispondenza tra la ragione formalmente enunciata a fondamento del recesso e quella reale riscontrata nel processo»; ed è stato in proposito aggiunto, nella stessa decisione, che «La valutazione degli elementi fattuali dai quali il giudice di merito trae la persuasione circa l’uso distorto del potere datoriale, facendo emergere la dissonanza che smentisce l’effettività della ragione formalmente addotta a causa di risoluzione, è accertamento che investe pienamente la quaestio facti rispetto al quale il sindacato di legittimità si arresta, tanto più nel vigore – come nella specie – del novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014»;

 va pertanto esclusa la violazione denunziata in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., essendovi, per di più, nella pronunzia impugnata, contrariamente a quanto evidenziato in ricorso, un esplicito riferimento – in linea con quanto affermato nella sentenza rescindente – alla questione del repêchage, laddove è affermato (a pagina 4) che «alla stregua di tali principi di diritto, la legittimità del licenziamento impugnato dovrà essere vagliata alla stregua della nozione di “giustificatezza” propria del recesso nell’ambito del rapporto di lavoro dirigenziale così come configurata dalla sentenza della SC, senza che possa attribuirsi rilievo (…) di per sé, all’adempimento da parte del datore dell’onere di repêchage (onere quest’ultimo che, alla stregua di quanto affermato dalla SC, risulta inapplicabile al rapporto di lavoro dedotto in giudizio»);

 ciò posto, anche il secondo motivo è da disattendere, risolvendosi, del resto, in una censura estranea all’area di operatività del citato art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., investendo l’apprezzamento operato dal giudice del gravame – sottratto, attenendo al merito, al sindacato di questa Corte – circa il profilo di fatto rappresentato dalla congruità del termine intercorso, ai fini della esclusione della illegittimità dell’iniziativa datoriale, tra licenziamento del dirigente e successiva assunzione di altro lavoratore;

 il ricorso deve essere pertanto complessivamente rigettato.

 le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in euro 4.500,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 gennaio 2023, n. 2895
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