Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 gennaio 2023, n. 2125

Lavoro, Elenchi dei lavoratori agricoli, Cancellazione e reiscrizione, Fittizietà del rapporto di lavoro, Effettività dell’attività connessa all’iscrizione assicurativa, Obbligo di motivazione, Insussistenza, Onere della prova, Rigetto

 

Fatti di causa

 

La Corte d’appello di Bari confermava la pronuncia di primo grado che aveva respinto la domanda di S.R. di condanna dell’Inps alla reiscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli, dai quali l’ente l’aveva cancellata a seguito di accertamento ispettivo che aveva concluso per la fittizietà del suo rapporto di lavoro.

Riteneva la Corte che, a fronte delle risultanze del verbale ispettivo, la lavoratrice non avesse provato la sussistenza di una prestazione di lavoro subordinato. La prova testimoniale richiesta era inammissibile siccome generica.

Contro la sentenza, S.R. ricorre per quattro motivi, illustrati da memoria.

L’Inps è rimasto intimato.

 

Ragioni di diritto

 

Con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. La Corte non avrebbe considerato il motivo d’appello con il quale si denunciava che il provvedimento di cancellazione dell’Inps era mancante di motivazione in contrasto con l’art. 3 I. n. 241/90.

Con il secondo motivo, parte ricorrente lamenta omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. La Corte non avrebbe considerato la sufficienza o meno della motivazione del provvedimento di cancellazione dagli elenchi dei lavoratori agricoli.

Con il terzo motivo, parte ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. La Corte avrebbe attribuito valore probatorio al verbale ispettivo, nonostante la sua genericità e lacunosità. Inoltre, avrebbe erroneamente fatto gravare sulla ricorrente l’onere probatorio circa la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato.

Con il quarto motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 244, 420 e 421 c.p.c. La Corte avrebbe erroneamente ritenuto generica la prova orale, dimenticando i propri poteri ufficiosi, ai sensi dell’art. 421 c.p.c.

Il primo motivo di ricorso è inammissibile per difetto di autosufficienza. Si deduce che nell’atto d’appello era stato proposto un motivo sul vizio del provvedimento dell’Inps privo di motivazione, non esaminato dalla Corte, ma non si trascrive il relativo motivo d’appello né si compie una specifica indicazione del contenuto di tale motivo, come invece richiesto dal costante orientamento di questa Corte (Cass. 28072/21, Cass. 15367/14).

Il secondo motivo è manifestamente infondato, non avendo l’assenza di motivazione del provvedimento di cancellazione dagli elenchi carattere decisivo ai sensi dell’art.360, co.1, n.5 c.p.c. Tale provvedimento deve infatti dirsi sottratto all’obbligo di motivazione sancito dall’art. 3, l. n. 241/1990.

Nella fattispecie in esame si contrappongono, da un lato, la pretesa dell’iscritto nell’elenco dei lavoratori agricoli a mantenere l’iscrizione, al fine di accedere alle prestazioni previdenziali proprie dei lavoratori agricoli, e, dall’altro lato, l’obbligo dell’ente previdenziale di assicurare il rispetto della regola della effettività dell’attività connessa all’iscrizione assicurativa.

Si tratta di situazioni giuridiche che non mettono capo né all’esercizio di alcuna potestà amministrativa di carattere discrezionale da parte dell’ente, né ad alcuna posizione di interesse legittimo in capo al lavoratore assicurato:

all’espletamento dell’attività agricola subordinata per un certo numero di giornate corrisponde infatti il diritto del lavoratore agricolo all’iscrizione, così come all’accertamento dell’insussistenza di tali presupposti di fatto consegue la cancellazione del lavoratore dagli elenchi.

Indipendentemente dalla possibilità o meno di riferire l’intero corpus delle previsioni della legge n. 241/1990 alla sola attività amministrativa in senso stretto, ossia all’agire autoritativo dell’amministrazione (come pure sostenuto da Cass. nn. 27655 e 35548 del 2022, sulla scorta di Cass. 28141/18), dirimente è piuttosto il fatto che, vertendosi in materia di obbligazioni di natura pubblica, che nascono ex lege al verificarsi dei requisiti di volta in volta previsti dall’ordinamento, la funzione del procedimento amministrativo che è preordinato alla loro adozione è di natura meramente ricognitiva: e ciò comporta non soltanto che all’inadempimento dell’ente che sia pregiudizievole per il diritto del privato può direttamente porre rimedio il giudice ordinario, dinanzi al quale si fa valere direttamente il rapporto obbligatorio, ma soprattutto che, trattandosi di atti rigidamente vincolati alla regola del rapporto obbligatorio, lo stesso ente previdenziale può sempre prendere, senza formalità alcuna (e dunque anche in giudizio), una diversa posizione in ordine al contenuto dell’obbligazione, non essendo in alcun modo vincolato da altri atti emessi in precedenza, ma soltanto alla legge del rapporto (così espressamente Cass. 2804/03).

Sta qui la ragione ultima per cui gli atti di gestione delle obbligazioni pubbliche in materia previdenziale e assistenziale debbono ritenersi sottratti all’obbligo di motivazione sancito dall’art. 3, I. n. 241/1990: si tratta infatti di atti in cui la motivazione è affatto irrilevante, decisivo essendo soltanto che il comportamento dell’ente si sia uniformato o meno al vincolo obbligatorio che, in presenza dei presupposti di fatto, sorge dalla legge. Ed è per ciò che questa Corte ha da tempo affermato che, stante l’indifferenza del procedimento amministrativo rispetto alla consistenza della sua situazione soggettiva, l’assicurato non può, in difetto dei fatti costitutivi della relativa obbligazione, fondare la pretesa giudiziale di pagamento della prestazione previdenziale su una carente o insufficiente motivazione del provvedimento di diniego della prestazione, potendo semmai in tali casi, ricorrendone in concreto i presupposti, far valere il proprio diritto al risarcimento dei danni eventualmente cagionatigli dal comportamento dell’ente medesimo (così, espressamente, Cass. 2804/03, cui hanno dato seguito, tra le numerose, Cass. 9986/09, Cass. 20604/14, Cass. 31954/19).

Il terzo motivo è per una parte Inammissibile e per altra parte manifestamente infondato.

È inammissibile nella parte in cui censura l’apprezzamento del quadro probatorio compiuto dalla Corte, contestando in particolare il valore probatorio riconosciuto dalla stessa al verbale ispettivo Inps e non avendo dato rilevanza alle prove documentali della ricorrente. Con il motivo, in sostanza, si deduce che la Corte abbia male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova. In tal caso però si fuoriesce dalla violazione dell’art.116 c.p.c., rientrandosi nel diverso caso dell’art.360, n.5 c.p.c. e il motivo di ricorso è assoggettato ai limiti ivi previsti (Cass., sez. un., n.20867/20). Senonché, sotto tale profilo, il motivo risulta generico, e quindi inammissibile, non specificando, ai sensi dell’art.360, n.5 c.p.c., quale sarebbe lo specifico fatto storico omesso dalla Corte nella valutazione del quadro probatorio complessivo.

Laddove invece il motivo deduce violazione dell’art.2697 c.c., esso risulta manifestamente infondato.

È consolidato il principio di diritto secondo cui la funzione di agevolazione probatoria dell’iscrizione di un lavoratore nell’elenco dei lavoratori agricoli viene meno qualora l’INPS, a seguito di un controllo, disconosca l’esistenza del rapporto di lavoro che ne costituisce il presupposto, con la conseguenza che, in tal caso, il lavoratore che agisce in giudizio ha l’onere di provare l’esistenza, la durata e la natura onerosa del rapporto dedotto a fondamento del diritto di iscrizione e di ogni altro diritto consequenziale di carattere previdenziale che abbia fatto valere (così, tra le più recentì, Cass.31954/19); e dal momento che l’onere della prova non si configura soltanto come onere in senso proprio, ma anche come regola di giudizio cui far ricorso quando le risultanze processuali non consentano di pervenire alla qualificazione del rapporto (così, tra le numerose, Cass. 13869/04), affatto correttamente i giudici territoriali, dato atto dell’impossibilità di attribuire rilevanza probatoria alle registrazioni e alle denunce aziendali, trattandosi in ultima analisi delle medesime risultanze documentali su cui era stata inizialmente effettuata l’iscrizione negli elenchi, hanno rigettato la domanda di parte ricorrente.

Sotto questo profilo, va rettamente intesa l’affermazione contenuta in Cass., sez. un., n.1133/00 (e poi tralaticiamente ripresa da molte altre successive, tra cui Cass.22686/15, Cass.12001 e 13677 del 2018, nonché Cass.27655 e 35548 del 2022) secondo cui, quando contesti l’esistenza dell’attività lavorativa o del vincolo della subordinazione, l’ente previdenziale avrebbe l’onere di fornire la relativa prova, cui l’interessato potrebbe a sua volta replicare mediante offerta di altri mezzi di prova: come perspicuamente chiarito già da Cass.7995/00, l’agevolazione probatoria garantita dall’iscrizione negli elenchi, che vale sul presupposto che non vi siano disconoscimenti, non può giustificare un’inversione dell’onere della prova a carico dell’ente previdenziale che istituzionalmente è preposto al controllo della veridicità ed esattezza dei dati dichiaratigli dal datore di lavoro; in quest’ottica, anzi, la cancellazione dell’iscrizione deve considerarsi atto meramente consequenziale al disconoscimento, quest’ultimo essendo propriamente l’atto che comporta a carico dell’assicurato l’onere di provare l’esistenza, la durata e la natura onerosa del rapporto dedotto a fondamento del diritto e per il giudice l’obbligo di accertare l’esistenza e l’inesistenza di tale rapporto senza più essere condizionato dagli atti di iscrizione o di cancellazione.

Piuttosto, ed in linea con quanto affermato da Cass.13877/12, si deve dire che l’agevolazione probatoria costituita dall’iscrizione negli elenchi consiste nel fatto che, fintanto che sussiste (e non è questo il caso di specie), esime l’assicurato dalla prova dei presupposti di fatto utili al riconoscimento del diritto alle prestazioni previdenziali per gli operai agricoli, a meno che l’ente previdenziale convenuto in giudizio non contesti l’attendibilità delle risultanze documentali richiamando elementi di fatto (come il contenuto di accertamenti ispettivi o la sussistenza di rapporti di parentela, affinità o coniugio tra le parti), la cui valutazione possa far sorgere dubbi circa l’effettività del rapporto di lavoro o del suo carattere subordinato: tale contestazione, pur in presenza dell’iscrizione, è infatti sufficiente ad escludere che il giudice possa risolvere la controversia in base al semplice riscontro dell’iscrizione ancora in essere, dovendo invece pervenire alla decisione valutando liberamente e prudentemente tutti gli elementi probatori acquisiti alla causa e, in caso di persistenza del dubbio, tornando ad applicare la regola di giudizio consacrata nell’art. 2697 c.c.

Il quarto motivo è manifestamente infondato.

Con riguardo al rapporto tra art.421 c.p.c. e articolazione della prova testimoniale, questa Corte ha affermato che: in materia di prova testimoniale, poiché nel rito del lavoro í fatti da allegare devono essere indicati in maniera specifica negli atti introduttivi, affinché le richieste probatorie rispondano al requisito di specificità è sufficiente indicare, quale oggetto dei mezzi di prova, i fatti inizialmente allegati, senza necessità di riformulazione in capitoli separati, fermo restando che il giudice di merito, nell’esercizio dei poteri di cui all’art.421 c.p.c., può assegnare alle parti un termine per rimediare alle irregolarità rilevate nella suddetta capitolazione, sicché la parte decade dal diritto di assumere la prova solo nell’ipotesi di mancata ottemperanza a tale invito nel termine fissato (Cass. 19915/16). Dunque, l’omessa capitolazione della prova per articoli separati non è necessaria, sul presupposto però che i fatti di narrativa siano esposti in ricorso in modo specifico. Il motivo deduce che tale specificità di allegazione emergeva dal ricorso introduttivo, ma poi non indica in modo compiuto e dettagliato come i fatti oggetto di prova furono esposti in ricorso, e dunque non consente di verificare se davvero vi sia stata violazione dell’art.421 c.p.c. e quindi error in procedendo. Non risulta in realtà superata la contestazione di genericità svolta dalla Corte quanto meno sotto un duplice profilo: da un lato non risultano specificate le mansioni cui la ricorrente sarebbe stata addetta quale bracciante agricola, dall’altro lato non risultano specificate le forme in cui si manifestava il potere direttivo del datore.

Nulla sulle spese essendo l’Inps rimasto intimato.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso dà atto che, atteso il rigetto, sussiste il presupposto processuale di applicabilità dell’art.13, co.1 quater, d.P.R. n.115/02, con conseguente obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 gennaio 2023, n. 2125
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