Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 gennaio 2023, n. 2606
Lavoro, Licenziamento, Natura discriminatoria e/o ritorsiva del recesso datoriale, Trattamento sfavorevole in ragione dell’attività sindacale, Morte per stress lavorativo, Regime probatorio in materia antidiscriminatoria, Accertamenti investigativi sui dipendenti, Rigetto
Rilevato che
1. la Corte d’Appello di Firenze ha confermato, respingendo il reclamo del datore di lavoro S. S.P.A., la sentenza del locale Tribunale dichiarativa della nullità, in quanto discriminatorio, del licenziamento intimato al dipendente G.D.M. (informatore scientifico – ISF, delegato sindacale RSU e responsabile sicurezza – RSL) per giusta causa con lettera del 26/6/2017, in relazione a violazioni disciplinari contestate con nota del 12/6/2017, con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro e condanna al risarcimento del danno nella misura della retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso alla reintegra ed al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali;
2. la Corte di merito, in particolare, ha osservato che:
– in base ai principi da ultimo sintetizzati da Cass. n. 23338/2018, il lavoratore aveva dimostrato il fattore di rischio (essere attivista sindacale) ed il trattamento meno favorevole rispetto a quello riservato ad altri soggetti in condizioni analoghe e senza responsabilità sindacali, ovvero l’avere la società disposto indagini investigative nei suoi confronti e non nei confronti di altri ISF addetti alla medesima linea e che operavano con le sue stesse modalità di lavoro;
– il lavoratore aveva dedotto una correlazione significativa tra tali elementi (trattamento sfavorevole in ragione dell’attività sindacale, in un contesto particolarmente conflittuale collegato in tale periodo al suicidio di un collega ed al rinvenimento di un suo messaggio diretto alla società, che collegava il suicidio allo stress lavorativo, con connessi contenziosi relativi ad altra sanzione disciplinare collegata a tale vicenda ed a ricorso ex art 28 legge Stat. Lav. del sindacato di cui l’odierno ricorrente era delegato);
– la società non aveva, invece, dimostrato la ragione per la quale aveva disposto accertamenti investigativi che avevano portato ad evidenziare incongruenze ed anomalie nell’orario di lavoro e nei rimborsi spese a base del licenziamento disciplinare, così prestandosi al sospetto di un intento persecutorio legato all’attività sindacale sgradita svolta dal lavoratore;
3. avverso la predetta sentenza la società propone ricorso per cassazione con nove motivi; resiste il lavoratore con controricorso;
le parti hanno comunicato memorie;
Considerato che
1. con il primo motivo, parte ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 414 c.p.c., 1, comma 51, legge n. 92/2021, 15 Stat. Lav., 4 legge n. 604/1966, 6 legge n. 108/1990, 2, lett. a), d. lgs. n. 216/2003 (art. 360, n. 4, c.p.c.), per avere i giudici di appello, in violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, accertato l’esistenza di una discriminazione diretta, mai richiesta dal lavoratore licenziato e nonostante la domanda dal medesimo formulata fosse volta all’accertamento della diversa fattispecie del licenziamento ritorsivo;
2. con il secondo motivo, per violazione e falsa applicazione delle medesime norme di cui al primo motivo (art. 360, n. 3, c.p.c.) per avere i giudici di appello equiparato la pretesa ritorsione a discriminazione, in assenza di avversarie deduzioni o argomentazioni in diritto;
3. i primi due motivi, da trattare congiuntamente in quanto entrambi riferiti alla questione della compiuta allegazione di discriminatorietà del licenziamento, non sono fondati;
4. la Corte di merito, con ragionamento immune da vizi logici, ha qualificato la domanda, nell’ambito del proprio relativo potere, in termini di richiesta di accertamento della natura discriminatoria e/o ritorsiva del recesso datoriale, ossia quale allegazione di fatti, di elementi costitutivi della contestata antigiuridicità della condotta di controparte, di fonti di prova, prospettandone una qualificazione alternativa o cumulativa (anche tenuto conto di una possibile sovrapposizione semantica delle nozioni e della contiguità fenomenica), fermi restando il differente regime probatorio e la diversità di inquadramento giuridico; che la domanda sia stata (legittimamente, in conformità con il principio della domanda) prospettata in termini di licenziamento discriminatorio e/o ritorsivo risulta, del resto, dai brani del ricorso introduttivo del giudizio trascritti nel controricorso, con conseguente individuazione delle norme applicabili da parte del giudice di merito adìto;
5. la Corte di merito, sul punto, ha quindi rilevato che, avendo il lavoratore dedotto licenziamento discriminatorio e ritorsivo collegato all’attività sindacale, l’art. 15 Stat. Lav. inserisce tra gli atti discriminatori quelli diretti a trattamenti deteriori a causa dell’affiliazione o attività sindacale del lavoratore; invero, la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che, laddove vengano in considerazione profili discriminatori o ritorsivi nel comportamento datoriale, il giudice, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata e non in contrasto con la normativa comunitaria, deve tenerne conto, sia in base all’art. 3 Cost., sia in considerazione della specifica tipizzazione come discriminatorie (in modo diretto o indiretto), di specifiche condotte lesive dei diritti fondamentali (a partire, ma non solo, dall’entrata in vigore dei d.lgs. n. 215 e n. 216 del 2003 – cfr. Cass. n. 10834/2015);
6. con il terzo motivo, viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2, lett. a), del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 ovvero dell’art. 15 legge n. 300/1970, anche in relazione all’art. 2697 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.), per aver il giudice di merito ritenuto discriminatorio il licenziamento in assenza di prova della correlazione significativa tra il fattore di rischio e l’asserito trattamento meno favorevole;
7. con il quarto motivo, viene dedotto omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, n.5, c.p.c.), ovvero il fatto storico dell’intervenuta decisione n. 34734/2016 del Tribunale di Milano del 29/12/2016 ai fini dell’esclusione della possibile correlazione significativa tra le attività sindacali e l’indagine ispettiva;
8. con il quinto motivo, la sentenza impugnata viene censurata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2, lett. a), del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 ovvero dell’art. 15 legge n. 300/1970, anche in relazione all’art. 2697 c.c. ed all’art. 4 della legge n. 300/1970 (art. 360, n. 3, c.p.c.), per avere il giudice di merito ritenuto discriminatorio il licenziamento, imponendo un onere probatorio non dovuto e richiesto con estremo rigore in capo a S. e che comunque era stato invece assolto;
9. il terzo ed il quinto motivo, intimamente connessi, non sono fondati;
10. la Corte di merito ha applicato lo specifico regime probatorio in materia antidiscriminatoria, chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte nel senso che, in tema di licenziamento discriminatorio, in forza dell’attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta per effetto del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso;
11. accertata la correttezza del regime probatorio applicato e la non contraddittorietà della selezione e valutazione degli elementi di prova, non è ammissibile in questa sede di legittimità procedere ad un giudizio di merito di terzo grado, nel quale valutare elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi, risolventesi in un non ammissibile mero dissenso valutativo (cfr. Cass. n. 20814/2018, S.U. n. 34476/2019);
12. deve anche rammentarsi, come già osservato dalla sentenza impugnata richiamando Cass. n. 6575/2016, che la nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l’art. 4 della legge n. 604 del 1966, l’art. 15 Stat. Lav. e l’art. 3 della legge n. 108 del 1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nelle Direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, sicché non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico;
13. il quarto motivo contiene, invece, una censura non ammissibile, avendo la Corte d’Appello confermato integralmente le statuizioni di primo grado, così realizzandosi ipotesi di cd. doppia conforme rilevante ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. e dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., nel senso che il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo riformulato applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012), deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774/2016; conf. Cass. n. 20994/2019, n. 8320/2021), tenendo conto che ricorre l’ipotesi di «doppia conforme», ai sensi dell’art. 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (Cass. n. 7724/2022, n. 29715/2018); del resto, la decisione di primo grado posta a base del motivo risulta riformata;
14. con il sesto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., commi 2 e 4, e dell’art. 112 c.p.c. (art. 360, n. 4, c.p.c.), per avere i giudici di appello omesso di pronunciarsi su un motivo di appello proposto e relativo all’omessa valutazione delle prove dedotte con riguardo all’avvio di investigazioni private all’esito di segnalazioni e sospetti di illeciti commessi da altri dipendenti anche RSU poi licenziati da S.;
15. il motivo è inammissibile;
16. il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., rilevante ai fini di cui all’art. 360, comma 1, n. 4, dello stesso codice, si configura esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito e non anche in relazione ad istanze istruttorie, per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. n. 13716/2016; conf. Cass. n. 24830/2018); sotto tale profilo, la sentenza impugnata contiene espressi passaggi argomentativi (necessità di presenza di sospetti su condotte illecite del dipendente al fine di disporre indagini investigative, mancata spiegazione in giudizio di svariate anomalie contestate, incongruenze tra contestazioni disciplinari e rimborsi operati, genericità delle segnalazioni anonime) che escludono la prospettata nullità procedimentale di natura omissiva;
17. con il settimo motivo, parte ricorrente deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, n. 5, c.p.c.), per avere i giudici di appello omesso ogni esame circa il fatto storico degli intervenuti licenziamenti operati da S. nei confronti di altri ISF o RSU che erano stati oggetto di investigazioni all’esito di segnalazioni e sospetti di illeciti;
18. si tratta di motivo inammissibile, perché teso a sollecitare una rivalutazione nel merito dei fatti considerati dalla Corte d’Appello, all’esterno del perimetro normativo del giudizio di legittimità, in situazione di cd. doppia conforme, e di assenza di violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass. S.U. n. 8053/2014, n. 23940/2017, n. 16595/2019); nel caso in esame, la Corte ha esplicitato il percorso di valutazione delle risultanze istruttorie seguito, ed i motivi in base ai quali ha ritenuto provato dal lavoratore il fattore di rischio ed il trattamento discriminatorio subìto, e non dimostrate dalla società le ragioni a base delle contestazioni, sicché nuovamente la censura si risolve in un mero dissenso rispetto a detta valutazione;
19. con l’ottavo motivo, parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2 lett. a), d. lgs. 9 luglio 2003, n. 216, ovvero dell’art. 15 legge n. 300/1970, anche in relazione all’art. 2697 c.c. ed all’art. 4 della Legge n. 300/1970 (art. 360, n. 3, c.p.c.), per avere i giudici di appello ritenuto che ai fini dell’avvio di investigazioni non fosse sufficiente il mero sospetto della commissione di illeciti, ma fosse necessario che la segnalazione dell’illecito sospettato avesse un contenuto specifico e preciso e dovesse necessariamente essere attendibile;
20. il motivo è inammissibile;
21. la Corte di Firenze non ha affermato, nel complessivo compendio motivazionale, quanto dedotto nel motivo in esame; piuttosto, nella sentenza impugnata sono state rilevate, nel merito, con motivazione in fatto congrua e logica, la modifica delle versioni a base degli accertamenti disposti dalla società e la mancata replica alla dedotta strumentalità di tali accertamenti ed all’organizzazione del lavoro identica a quella degli informatori addetti alla medesima linea, così pervenendosi alla prova della discriminatorietà del licenziamento secondo il regime vigente in materia, specificando la necessità di un giustificato dubbio, e non di un mero sospetto, al fine di disporre accertamenti investigativi sui dipendenti (cfr. Cass. n. 15094/2018);
22. con il nono motivo, si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 132, commi 2 e 4 e dell’art. 112 c.p.c. (art. 360, n. 4, c.p.c.), per avere i giudici di appello omesso di pronunciarsi su un motivo di appello proposto relativo all’omessa valutazione delle prove dedotte, con riguardo al prospetto mensile alla base dell’illecito commesso e dell’accertamento investigativo;
23.il motivo è inammissibile, per i motivi sopra espressi (§ 16) ed atteso che, per giurisprudenza costante di questa Corte, la valutazione delle risultanze delle prove e la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti (Cass. n. 31273/2019; n. 16467/2017);
24. il ricorso deve pertanto essere respinto;
25. la regolazione delle spese del presente grado di giudizio segue il criterio della soccombenza, con liquidazione come da dispositivo;
26. al rigetto dell’impugnazione consegue il raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio, che liquida in € 5.000 per compensi, € 200 per esborsi, spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.