Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 febbraio 2023, n. 3691

Lavoro, Danno alla professionalità, Sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa, Inoperosità del dipendente, Quantificazione del danno in via equitativa, Rigetto

 

Rilevato che

 

1. con sentenza dell’11 gennaio 2017, la Corte d’appello di Catanzaro confermava la pronuncia del Tribunale di Cosenza che aveva dichiarato l’illegittimità del conferimento dell’incarico di studio e ricerca disposto con decreto presidenziale n. 27 del 4.10.2006 in favore di G.T.C., dirigente di ruolo della Regione Calabria, distaccato dall’8/5/2006 e trasferito dall’1.7.2006 alla Provincia di Cosenza;

il C. aveva lamentato la fittizietà dell’incarico cui era stato assegnato e la conseguente forzata inoperosità cui era stato relegato in violazione dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001;

2. il Tribunale aveva condiviso tale prospettazione, dichiarato l’illegittimità dell’attribuzione al ricorrente dell’incarico di studio e ricerca e riconosciuto il danno alla professionalità con corresponsione di una indennità pari a metà delle retribuzioni tabellari mensilmente percepite dal 4/10/2006 sino alla data della domanda;

3. la Corte territoriale riteneva corretta tale pronuncia;

rilevava che il Tribunale aveva accolto la domanda risarcitoria non perché avesse riconosciuto una lesione al diritto soggettivo all’attribuzione di un incarico dirigenziale ma per la totale inoperosità cui il C. era stato costretto con l’attribuzione dell’incarico di studio e ricerca;

riteneva non pertinenti al decisum i richiami giurisprudenziali relativi all’insussistenza di un diritto al conferimento di un incarico dirigenziale;

sosteneva che l’inoperosità forzata avesse integrato una violazione del fondamentale diritto al lavoro oltre che l’inadempimento ad un preciso obbligo contrattuale;

evidenziava, sulla base delle dichiarazioni testimoniali, che effettivamente il C. era stato lasciato inattivo e non aveva potuto fare alcunché per mancanza dei mezzi necessari e per la totale assenza di pratiche da espletare;

riteneva che l’indicata situazione di inoperosità non fosse stata smentita da procedure di riconoscimento ed erogazione della retribuzione di risultato che non risultavano in alcun modo documentate in giudizio;

escludeva la veridicità della tesi della Provincia quanto alla trasmissione da parte del C. di relazioni dissimulanti l’inerzia in cui era stato posto presso il settore ricerche e studi e così una situazione di concorso colposo;

assumeva che l’accertata totale inoperosità aveva inciso sulla professionalità e considerava infondati i rilievi sulla prova del danno e sulla sua quantificazione;

respingeva l’appello incidentale del C. avente ad oggetto il manco riconoscimento del danno per il periodo successivo alla domanda giudiziale;

4. avverso tale statuizione ha proposto ricorso la Provincia di Cosenza con sei motivi;

5. G.T.C. ha resistito con controricorso.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo la provincia denuncia la violazione degli artt. 115, 116, 167, 416 cod. proc. civ. in riferimento all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ.;

censura la sentenza impugnata per non aver considerato talune circostanze di fatto asseritamente impeditive e/o estintive della pretesa attorea (riferibili al comportamento dello stesso C.) puntualmente evidenziate nella comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado e devolute in appello;

aggiunge che tali circostanze non erano state contestate dal C. e di ciò la Corte territoriale non ha tenuto conto;

2. il motivo è inammissibile;

la valutazione del materiale probatorio è attività riservata al giudice di merito ed i rilievi in ordine alla stessa non possono integrare un error in procedendo;

il ricorrente, poi, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge sollecita un giudizio di fatto sull’interpretazione degli atti del Comune (comparsa di costituzione e appello) e sulla condotta di non contestazione, giudizio che è riservato al giudice del merito;

è consolidato, infatti, nella giurisprudenza di questa Corte l’orientamento secondo cui, come ribadito dalle Sezioni unite (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), per dedurre la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre);

parimenti la pronuncia rammenta che la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo «prudente apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura era consentita ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nel testo previgente ed ora solo in presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati da questa Corte fin da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014;

inoltre, nel vigore del novellato art. 115 cod. proc. civ., a mente del quale la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della “relevatio ad onere probandi”, spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (Cass. n. 3680/2019 e fra le tante Cass. nn. 32440, 30480, 28120, 24724 del 2021);

il medesimo principio è applicabile anche alle controversie di lavoro, in relazione alle quali il principio di non contestazione discendeva, già prima della modifica dell’art. 115 cod. proc. civ., dall’onere imposto dall’art. 416 cod. proc. civ., perché non muta il giudizio richiesto al giudice quanto all’accertamento della contestazione medesima né l’applicabilità dell’art. 416 cod. proc. civ. può incidere sulla natura della valutazione da esprimere;

ed allora il motivo, ad onta delle denunciate violazioni di legge mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. 14 aprile 2017, n. 8758);

3. con il secondo motivo la ricorrente denuncia omesso esame di un fatto decisive per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti;

ripropone le doglianze di cui al primo motivo ma sotto altro profilo;

4. il motivo è inammissibile;

nella specie, il fatto storico (eventuale concorso colposo del C.) è stato esaminato dalla Corte territoriale la quale ha ritenuto che le relazioni allegate al ricorso della Provincia non avessero alcuna utilità al fine di corroborare la tesi della dissimulazione della situazione di inerzia;

quindi il motivo si risolve nella inammissibile pretesa di una diversa lettura del materiale probatorio;

5. con il terzo motivo la Provincia denuncia la violazione e falsa applicazione degli art. 1218, 2087, 2103 cod. civ., 52 d.lgs. n. 165/2001,  132 n. 4 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ.;

lamenta una non corretta applicazione dei principi normativi e giurisprudenziali in tema di dequalificazione professionale e di responsabilità datoriale;

censura la sentenza impugnata per aver ritenuto imputabile al datore di lavoro la situazione di inattività del C. e per aver ritenuto la stessa causativa di danno;

rileva che la Corte territoriale non ha tenuto conto del fatto che l’incarico attribuito al predetto era formalmente equivalente a quello in precedenza ricoperto presso la Regione Calabria;

6. il motivo è infondato;

il ragionamento della Corte territoriale è correttamente sviluppato attraverso questi passaggi: 1) inoperosità, 2) inadempimento; 3) depauperamento della professionalità; 4) danno;

come da questa Corte anche di recente affermato (v. Cass. 8 aprile 2022, n. 11499), ove si sia concretizzato, con la destinazione del dipendente ad altre mansioni, il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa, la vicenda esula dalle problematiche attinenti alla verifica dell’equivalenza formale delle mansioni ex art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, configurandosi non un demansionamento, ma la diversa e più grave figura della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego;

è stato anche puntualizzato, sempre in tema di mansioni, (v. Cass., 18 maggio 2012, n. 7963) che il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 cod. civ. (e così anche l’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa;

è stato, inoltre, affermato, nella specifica materia del pubblico impiego privatizzato, che, ove sia stato accertato il demansionamento professionale del lavoratore, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, alla natura della professionalità coinvolta, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass., 26 novembre 2008, n. 28274; si vedano, nel medesimo senso, Cass. 19 settembre 2014, n. 19778; Cass. 15 ottobre 2018, n. 25743; Cass. 3 gennaio 2019, n. 21; Cass. 23 luglio 2019, n. 19923; Cass. 2 ottobre 2019, n. 24585);

la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione degli indicati principi;

7. con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. in riferimenti all’art. 112 cod. civ. ed agli art. 414 e 436 cod. proc. civ.;

sostiene che la Corte territoriale sarebbe incorsa in un vizio di ultrapetizione là dove ha riconosciuto conseguenze dannose diverse rispetto a quelle allegate dal C. e finanche diverse rispetto alla sentenza di prime cure;

8. il motivo è infondato;

la sentenza impugnata ha confermato quella di prime cure che aveva riconosciuto il danno da dequalificazione sul presupposto dell’avvenuta dimostrazione che “la condizione così venutasi a determinare abbia comportato la lesione del diritto del ricorrente a lavorare”;

rispetto a tale percorso argomentativo, la Corte territoriale si è limitata semplicemente ad aggiungere che la perdita di professionalità “può comunque pregiudicare il conseguimento di un nuovo posto di lavoro in caso di necessità ….”;

si tratta di un passaggio per corroborare l’affermata perdita di professionalità ed utilizzato dalla Corte territoriale per sostenere che il danno non poteva essere escluso dal mantenimento della retribuzione o di benefici di carriera, inidoneo, dunque, a far ritenere che vi sia stato il vizio addebitato atteso che i giudici di appello sono rimasti ancorati alla domanda ed hanno spiegato le ragioni per le quali una totale forzata inattività di un dirigente (protratta nel tempo e proseguita fino al 2011 – v. pag. 5 della sentenza – ) abbia inciso sulla professionalità;

non vi è stato, dunque, alcun riconoscimento di un danno diverso da quello lamentato;

9. con il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione degli art. 1126, 1227, 1375, 2697, 2727, 2729 cod. civ. e 115 cod. proc. civ.;

lamenta il riconoscimento di un danno in assenza di allegazioni e prova dell’impoverimento;

10. il motivo è infondato;

la Corte territoriale ha valorizzato la totale inattività quale indice presuntivo di danno alla professionalità e l’ha valutata in uno con gli altri elementi di fatto allegati dal ricorrente (tipo di professionalità, durata dell’inattività);

il processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli allegati elementi indiziari gravi, precisi e concordanti (quali, nello specifico, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento/inattività) è stato, dunque, correttamente svolto in applicazione dei principi sopra ricordati (v. punto sub 6.);

la Corte d’appello ha anche escluso il comportamento colposo così pronunciando sulla specifica eccezione della Provincia;

per il resto si richiama quanto già ricordato al punto sub 2. che precede in ardine alla dedotta violazione dell’art. 115 cod. proc. civ.;

11. con il sesto motivo il ricorrente denuncia la violazione degli art. 91 e 92 cod. proc. civ.;

lamenta che non sia stata disposta la compensazione delle spese in considerazione della peculiarità della fattispecie;

12. il motivo è infondato;

nella specie è stata applicata correttamente la regola della soccombenza;

come da questa Corte più volte affermato, in tema di compensazione delle spese processuali ex art. 92 cod. proc. civ., il sindacato della S.C. è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, mentre esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare, in tutto o in parte, le spese di lite (v. Cass. 16 marzo 2006, n. 5828; Cass. 31 luglio 20016, n. 17457; Cass. 6 ottobre 2011, n. 20457; Cass. 4 agosto 2017, n. 19613);

13. conclusivamente il ricorso deve essere respinto;

14. la regolamentazione delle spese segue la soccombenza;

15. occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass., S.U., n. 4315/2020, della sussistenza delle condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 febbraio 2023, n. 3691
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